Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4709 del 21/02/2020

Cassazione civile sez. VI, 21/02/2020, (ud. 12/11/2019, dep. 21/02/2020), n.4709

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24207-2017 proposto da:

C.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA N. MARTELLI N.

40, presso lo studio dell’avvocato ANDREA RICCI, rappresentato e

difeso dall’avvocato PAOLO BASSO giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.M., B.E., B.F., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio

dell’avvocato NICOLA DOMENICO PETRACCA, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato EUGENIO REMUS giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1611/2017 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 19/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/11/2019 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Nel 2001 C.S. conveniva in giudizio la sorella C.M. affermando che rispetto alla successione del padre, morto nel 2000, era stata lesa, a seguito di disposizioni testamentarie e di donazioni dirette e indirette, la sua quota di legittima e chiedendo quindi che fosse accertata la lesione e disposta la riduzione delle disposizioni e, se necessario, delle donazioni per poi procedere alla divisione dei beni.

La causa è stata riunita a un’altra iniziata dalla madre M.G., che esponeva che le disposizioni testamentarie del de cuius violavano la sua quota di legittima e proponeva le stesse domande del figlio, aggiungendo che dovevano essere riunite ai beni relitti anche due donazioni fatte alla nipote B.F. ed al genero B.E.. Vi è poi stata la riunione con una terza causa, iniziata nel 2002 da C.S. e dalla madre M.G., sempre nei confronti di C.M.. Il Tribunale di Vercelli ha pronunciato una prima sentenza non definitiva con la quale ha respinto l’eccezione proposta, nei confronti dell’azione di riduzione avanzata dalla M., ai sensi dell’art. 564 c.c. (per il quale il legittimario che non ha accettato l’eredità col beneficio di inventario non può chiedere la riduzione delle donazioni e dei legati), atteso che la M. era stata pretermessa dall’eredità e quindi non poteva, prima di esercitare l’azione di riduzione, accettare l’eredità con beneficio di inventario; il Tribunale ha poi accertato la natura di donazioni indirette di alcuni atti di acquisto di C.M. dal padre. La sentenza, non oggetto di riserva e di immediata impugnazione, è passata in giudicato.

E’ stata poi pronunciata una seconda sentenza non definitiva con la quale il Tribunale ha anzitutto rilevato d’ufficio la mancata rinuncia da parte della madre al legato disposto in testamento a suo favore, che ha qualificato in sostituzione di legittima, e ha dichiarato l’inammissibilità della domanda di riduzione fatta valere dalla medesima; ha poi accertato che la somma del valore dei beni lasciati all’attore non raggiungeva la quota di legittima a lui spettante e rimesso la causa in istruttoria per procedere alla riduzione delle disposizioni testamentarie lesive ed eventualmente delle donazioni e poi alla divisione dell’asse ereditario.

Deceduta nel frattempo la M., la seconda sentenza è stata impugnata da C.S. e la Corte d’appello di Torino, con sentenza depositata il 5 marzo 2013, ha rigettato l’appello e ha confermato la sentenza impugnata.

Nel prosieguo del giudizio di merito, il Tribunale disponeva il rinnovo della CTU, e disattesa la richiesta di sospensione del giudizio in attesa della definizione dell’appello, all’epoca pendente, accertava la lesione della quota di legittima dell’attore, ritenendo però sufficiente ridurre le disposizioni testamentarie del de cuius in favore della convenuta C.M., senza anche dover aggredire le donazioni.

Quindi determinata la lesione in Euro 151.732,54, già detratto il valore del diritto di abitazione spettante al coniuge superstite, assegnava un immobile in Borgosesia all’attore, previo versamento di un conguaglio, con attribuzione anche dei frutti civili.

Avverso tale sentenza proponeva appello C.S. e la Corte d’Appello di Torino con la sentenza n. 161 del 19/7/2017 rigettava il gravame.

In primo luogo rilevava che non poteva essere più posta in discussione in quella sede la questione relativa alla spettanza alla M. del diritto ad agire in riduzione, in quanto la Corte distrettuale era vincolata a quanto stabilito in sede di sentenza parziale, laddove si era ritenuto che l’azione di riduzione non era stata preceduta dalla rinuncia al legato in sostituzione di legittima in favore della moglie del de cuius.

Quindi riteneva ingiustificata la richiesta di rinnovo della CTU. Infatti, quanto al calcolo dei frutti, rilevava che il bene assegnato all’attore era la casa di abitazione della famiglia della convenuta e che pertanto non poteva aver prodotto canoni, dovendosi pervenire quindi alla determinazione dei frutti percetti con un criterio equitativo.

La somma indicata dal Tribunale era inferiore al valore locativo del bene da restituire, sia perchè l’attribuzione all’attore non era comprensiva anche del locale cantina, sia perchè occorreva tenere conto delle spese normalmente sostenute per la produzione dei frutti, sebbene forfetariamente valutate.

Quanto alla decorrenza dei frutti, la Corte condivideva la individuazione di tale data in quella della domanda giudiziale, stante il tenore letterale dell’art. 561 c.c..

Infine disattendeva la richiesta di sospensione, non profilandosi alcun rischio di conflitto di giudicati con gli eventuali esiti del giudizio di impugnazione intrapreso avverso l’altra sentenza della Corte d’Appello, attesa l’esistenza di un vincolo endoprocessuale tra sentenze non definitive e successive sentenze definitive.

Avverso tale sentenza propone ricorso C.S. sulla base di tre motivi.

C.M., B.E. e B.F. resistono con controricorso.

Il primo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 295 c.p.c..

Ci si duole del mancato accoglimento della richiesta di sospensione del giudizio all’esito del quale è stata pronunciata la sentenza gravata, in attesa della definizione dell’impugnazione proposta avverso la seconda sentenza emessa dal Tribunale, il cui appello era stato rigettato dalla stessa Corte d’Appello con sentenza che alla data della decisione risultava ancora gravata da ricorso per cassazione. Ne deriva che tale pronuncia non era ancora passata in cosa giudicata e che pertanto i suoi effetti, in caso di riforma si sarebbero ripercossi nella vicenda in esame, imponendosi quindi la sospensione del giudizio.

Ed, invero anche a voler soprassedere circa il fatto che il rapporto tra le impugnazioni delle sentenze non definitive e la prosecuzione del processo nel corso del quale le prime sono state adottate, trova la sua disciplina nell’art. 279 c.p.c., penultimo comma (con un’ipotesi quindi di sospensione discrezionale ed ancorata all’istanza concorde delle parti), occorre evidenziare che nelle more è intervenuta la sentenza di questa Corte n. 22441 del 24/9/2018, la quale nel rigettare il ricorso di C.S., ha determinato il passaggio in giudicato della pronunzia dei giudici di appello che avevano ritenuto preclusa la proposizione dell’azione di riduzione da parte del coniuge superstite, M.G., nei cui diritti pro quota intendeva subentrare il C..

Ne deriva pertanto che il motivo deve essere rigettato essendo in ogni caso venuto meno, anche laddove se ne voglia ravvisare la sussistenza, un nesso di pregiudizialità idoneo a legittimare la richiesta di sospensione del giudizio di impugnazione intentato avverso la terza sentenza adottata dal Tribunale di Vercelli, essendo divenuto ormai definitivo il vincolo che correttamente i giudici di merito hanno ritenuto che fosse loro imposto a seguito dell’adozione della seconda sentenza non definitiva, in punto di legittimazione della M. all’esercizio dell’azione di riduzione.

Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c. in relazione alle spese di produzione dei frutti.

Rileva il ricorrente che la Corte distrettuale nel riconoscere i frutti in suo favore sul bene attribuitogli a seguito del vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, ne ha ridotto l’importo, alla luce delle spese sostenute per la relativa produzione, sebbene tale circostanza non sia stata nè dedotta nè provata. Anche tale motivo deve essere disatteso.

In primo luogo, il motivo non si confronta con il tenore della decisione gravata, la quale ha motivato la decisione di ridurre l’importo del valore locativo degli immobili, come determinato dal CTU, in considerazione del fatto che tale valore era stato determinato anche con riferimento al godimento della cantina che però era restata esclusa dall’assegnazione al ricorrente.

Di tale autonoma giustificazione, idonea obiettivamente ad incidere sull’entità del canone locativo sul quale parametrare l’importo dei frutti da riconoscere, non vi è menzione alcuna nel mezzo di gravame.

Quanto poi alla incidenza sull’ammontare dei canoni percipiendi delle spese sostenute per la relativa produzione, ritiene il Collegio che il giudice di appello abbia in realtà fatto applicazione non già di una presunzione, ma che piuttosto abbia posto a fondamento della propria decisione un fatto di comune esperienza ex art. 115 c.p.c., comma 2, costituito dall’affermazione secondo cui, al fine di produrre frutti, ancorchè civili, debba in ogni caso sostenersi, in relazione al godimento di beni immobili delle spese (che esemplificativamente sono state indicate in controricorso, come spese di registrazione, oneri manutentivi, imposte, ecc.) (conf. Cass. n. 16700/2015; Cass. n. 19349/2005, proprio in relazione alla domanda di rendiconto tra coeredi).

Ne deriva che la censura mossa non appare pertinente rispetto al contenuto della decisione, dovendosi ritenere incensurabile l’affermazione compiuta dal giudice di appello, rientrando la nozione di fatto notorio di cui ha ritenuto di valersi in quella prevista dal codice, secondo quanto richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. sulla individuazione dei requisiti che deve avere il cd. fatto notorio, Cass. n. 6299/2014).

Il terzo motivo lamenta infine la violazione e falsa applicazione dell’art. 561 c.c., laddove i giudici di merito hanno calcolato i frutti sul bene restituitogli a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione a far data dalla domanda giudiziale e non anche dalla diversa data dell’apertura della successione.

In tal senso non avrebbe validità il ragionamento fondato sulla buona fede del destinatario passivo dell’azione di riduzione, dovendosi peraltro intendere il dettato normativo dell’art. 561 c.c., che espressamente fa riferimento alla data della domanda giudiziale, alle sole ipotesi in cui l’azione di riduzione sia indirizzata avverso beni oggetto di donazioni ovvero di legati. Anche tale motivo è infondato.

Ritiene il Collegio che la soluzione adottata dai giudici di merito sia conforme alle previsioni legali e precisamente a quanto espressamente previsto dall’art. 561 c.c., u.c., che chiaramente ancora la decorrenza dei frutti alla proposizione della domanda giudiziale.

Non ignora il Collegio come di recente sia intervenuta Cass. n. 24755/2015, che sembrerebbe avere individuato nell’apertura della successione la data di decorrenza dei frutti, ma reputa il Collegio che debba darsi rilievo al dettato letterale della norma, come inteso dalla assolutamente prevalente e precedente giurisprudenza di questa Corte, alla quale invece si intende assicurare continuità.

Ed, invero non può che partirsi dalla ratio che è sottesa alla previsione di cui all’art. 561 c.c., u.c., che conformemente a quanto ribadito dalla prevalente dottrina, risiede nella peculiare conformazione dell’azione di riduzione (la cui natura resta essenzialmente identica, a prescindere se sia indirizzata contro una donazione, un’attribuzione a titolo di legato o un’istituzione di erede, ancorchè ex certa re), che essendo un’azione a carattere personale ed ad efficacia costituiva, presuppone il suo concreto e vittorioso esperimento, affinchè le disposizioni lesive perdano efficacia.

Ne consegue che poichè il riconoscimento dei diritti del legittimario leso è rimesso ad una sua specifica iniziativa, fin quando la stessa non intervenga, l’erede, il legatario ovvero il donatario conservano i frutti in quanto pieni proprietari dei beni acquistati.

L’anticipazione della decorrenza dei frutti alla data di proposizione della domanda costituisce una piana applicazione del principio conservativo della domanda, espressivo della regola secondo cui la durata del processo non può andare in danno della parte che abbia ragione, e ciò sebbene per il pieno riconoscimento dei diritti del legittimario sia necessaria una pronuncia di accertamento costitutiva.

In tal senso si è infatti affermato che (Cass. n. 41/1978) è solo dal momento della notifica della domanda giudiziale di riduzione della donazione per lesione di legittima, che la presunzione del possesso di buona fede cessa di caratterizzare il possesso del donatario sui beni ricevuti, sicchè anche in tale prospettiva non sarebbe giustificato anticipare la debenza dei frutti alla data dell’apertura della successione.

In tal senso si veda anche Cass. n. 1079/1970, a mente della quale colui che possiede un bene in virtù di un atto a titolo gratuito o di una disposizione testamentaria, possiede in virtù di un titolo idoneo a trasferire il dominio, il quale è originariamente valido e tale rimane fino a che non sia esercitata l’azione di riduzione, il cui accoglimento ne determina appunto l’inefficacia, con effetto dalla data della domanda giudiziale. La norma dell’art. 561 c.c., comma 2, costituisce un’applicazione del suddetto principio e, pertanto, in ogni caso di disposizione testamentaria o di donazioni, soggette a riduzione, i frutti dei beni da restituire sono dovuti al legittimario con decorrenza dalla domanda giudiziale (conf. Cass. n. 2006/1967, pur invocata da parte ricorrente; Cass. n. 1607/1967; Cass. n. 843/1965), non offrendosi elementi per una lettura restrittiva della nozione di disposizione testamentaria, intesa come limitata alla sola attribuzione ex legato.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese in favore dei controricorrenti che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato per il ricorso principale a norma degli stessi artt. 1 bis e 13 se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 12 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2020

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