Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4691 del 14/02/2022

Cassazione civile sez. I, 14/02/2022, (ud. 17/12/2021, dep. 14/02/2022), n.4691

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 3812/2020 r.g. proposto da:

FALLIMENTO (OMISSIS) S.R.L., IN LIQUIDAZIONE, in persona del curatore

Dott. R.R., rappresentato e difeso, giusta procura

speciale allegata in calce al ricorso, dall’Avvocato Roberto

Materazzi, presso il cui studio elettivamente domicilia in Terni,

alla via Visciotti n. 1.

– ricorrente –

contro

BANCO BPM S.P.A., (succeduto per fusione al Banco Popolare Società

Cooperativa, a sua volta incorporante la Cassa di Risparmio di Lucca

Pisa e Livorno), con sede in (OMISSIS), in persona del procuratore

speciale Dott. Cu.Ri., rappresentata e difesa, giusta procura

speciale allegata in calce al controricorso, dagli Avvocati Giorgio

Tarzia, e Maurizio Grifoni, con cui elettivamente domicilia in Roma,

alla via di Val Gardena n. 3, presso lo studio dell’Avvocato Lucio

De Angelis;

– controricorrente –

e

UNICREDIT S.P.A., (già Unicredit Corporate Banking s.p.a.), con sede

in (OMISSIS), in persona del procuratore speciale Dott.

B.A.V., rappresentata e difesa, giusta procura speciale allegata

in calce al controricorso, dall’Avvocati Ulisse Bardani, con cui

elettivamente domicilia in Roma, al Vicolo Margana n. 15, presso lo

studio dell’Avvocato Luigi Rinaldi Ferri.

– controricorrente –

e

CREDIT MANAGEMENT S.R.L., (mandataria della CASSA DI RISPARMIO DI

ORVIETO S.P.A. e, per essa, la sua mandataria speciale Banca

Popolare di Bari soc. coop. per azioni), con sede in (OMISSIS), in

persona del procuratore speciale Dott. Bu.Cl., rappresentata

e difesa, giusta procura speciale allegata in calce al

controricorso, dall’Avvocato Luca Gratteri, presso il cui studio

elettivamente domicilia in Roma, alla via Enrico Tazzoli n. 6.

– controricorrente –

e

BPER BANCA S.P.A., con sede in (OMISSIS), in persona del Presidente e

legale rappresentante pro tempore ing. F.P., rappresentata

e difesa, giusta procura speciale allegata in calce al

controricorso, dagli Avvocati Ivan Fossati e Stefano Gattamelata,

con cui elettivamente domicilia presso lo studio di quest’ultimo in

Roma, alla Via Di Monte Fiore n. 22.

– controricorrente –

e

BANCA POPOLARE DI BARI, Società Cooperativa per azioni in A.S., con

sede in (OMISSIS), in persona del procuratore speciale Avv.

Sc.Gi., rappresentata e difesa, giusta procura speciale allegata in

calce al controricorso, dall’Avvocato Vittorio Russi, con cui

elettivamente domicilia in Roma, al Corso del Risorgimento n. 11,

presso lo studio dell’Avvocato Gianluigi Pellegrino.

– controricorrente –

S.M.; G.G.; C.M..

– intimati –

avverso la sentenza, n. cron. 733/2019, della CORTE DI APPELLO DI

PERUGIA depositata il 22/11/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

giorno 17/12/2021 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto notificato il 23 luglio 2014, il Fallimento della (OMISSIS) s.r.l. in liquidazione, dichiarato con sentenza 15/17 maggio 2010 del Tribunale di Terni, citò, innanzi al Tribunale di Perugia, S.M., G.G., C.M., la Cassa di Risparmio di Lucca Pisa Livorno s.p.a. (Carilupili) – ma poi anche il Banco Popolare società cooperativa, che l’aveva incorporata – la Unicredit s.p.a. (già Unicredit Corporate Banking s.p.a.), la Cassa di Risparmio di Orvieto s.p.a., la Banca Popolare dell’Emilia Romagna s.p.a. – BPER (già Carispaq s.p.a.) e la Banca Popolare di Bari s.p.a..

1.1. L’attore imputò agli amministratori convenuti – dal 27 aprile 2004 al 30 dicembre 2008 il consiglio di amministrazione della società aveva avuto come suoi membri (presidente era stato Ca.Pa.) S.M. e G.G. (oltre ad un terzo), mentre, a seguito di Delib. 30 dicembre 2008, lo S. ne era divenuto il presidente e G.G. e C.M. ne erano stati i componenti, quest’ultimo venendo poi nominato amministratore delegato il 28 maggio 2009, amministratore unico il 12 novembre 2009 e liquidatore il 10 febbraio 2010 – diversi illeciti chiedendone, L. Fall., ex art. 146 e/o art. 2043 c.c., la condanna, in solido, al risarcimento dei danni cagionali alla società poi fallita. Fra detti illeciti, c’era quello del ricorso abusivo al credito presso le banche convenute nonostante la situazione di dissesto ormai irreversibile della società: illecito, questo, nel quale le dette banche dovevano ritenersi, “sin dal gennaio 2008″, concorrenti per l'”abusiva concessione di credito” attraverso finanziamenti, leasing, aperture di credito ed anticipazioni in conto corrente (le banche, “operatori qualificati perfettamente in grado di rilevare i sintomi di dissesto di un’impresa attraverso la valutazione dei dati di bilancio e le indicazioni della Centrale Rischi”, avevano violato “i principi di diligenza del banchiere accorto”), sicché anch’esse dovevano “essere riconosciute responsabili”, in solido con gli amministratori, “ai sensi dell’art. 2043 c.c., nonché, in concorso con gli amministratori ai sensi della L. Fall., art. 146” (veniva richiamata Cass. n. 13413 del 2010) “per il danno immediato e diretto derivato al patrimonio della società poi fallita”. L’ammontare del danno venne indicato, in primis, in Euro 17.844.222,00 ed in subordine in Euro 12.070.218,00, salva comunque la diversa quantificazione.

1.2. Instauratosi il contraddittorio con tutti i convenuti (in luogo della Carilupili, incorporata dal Banco Popolare Società Cooperativa, si costituì quest’ultima, dovendosi la prima ritenere estromessa dalla causa con l’accordo delle altre parti), i quali chiesero il rigetto dell’avversa domanda, l’adito tribunale, con sentenza del 28 aprile/2 maggio 2017, n. 752: a) dichiarò “il difetto di legittimazione attiva” del curatore del fallimento “per l’azione” (di responsabilità) “da illecito aquiliano da abusiva concessione di credilo nei confronti delle banche convenute”; b) rigettò “la medesima domanda, qualificata come” (azione di) “responsabilità in concorso con gli amministratori L. Fall., ex art. 146 “; c) condannò parte attrice al rimborso delle spese processuali in favore di dette banche; d) dispose, inoltre, con separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio nei confronti degli amministratori.

2. Avvero tale sentenza propose appello il fallimento, citando tutti gli originari convenuti, amministratori e banche, davanti alla Corte di appello di Perugia.

2.1. Rimasti contumaci i primi, e costituitesi le seconde, quella corte, con sentenza del 22 novembre 2019, n. 733, respinse il gravame, condannando l’appellante alla refusione delle spese del grado.

2.2. Per quanto qui di residuo interesse, essa, dopo aver precisato che “‘impugnazione deve ritenersi in effetti proposta o comunque risulta ammissibile, perché sostenuta da motivi di impugnazione, solo con riguardo alla decisione di cui supra sub b)”, mentre “la decisione del primo giudice di rigetto dell’altra domanda (fra curatela e banche) deve perciò ritenersi passata in giudicato”, osservò che: i) la sentenza del tribunale, nella parte impugnata col primo motivo di appello, “sembra da interpretare nel senso che non nega (… in rito) la legittimazione ad agire del curatore – questa legittimazione sembra affermata attraverso il richiamo a Cass. 10/13413, dalla quale il tribunale verosimilmente si sentiva vincolato -, ma nega la fondatezza nel merito della domanda negando che gli illeciti imputati alle banche – si sta parlando della condotta accessoria al ricorso abusivo al credito degli amministratori – provochino un danno diretto e immediato alla società, cagionandolo, invece, ai creditori. L’argomento svolto dal Tribunale, nei termini astratti della sua formulazione, avrebbe però potuto essere utilizzato per negare la stessa legittimazione attiva del curatore anche in relazione alla domanda di cui supra sub b). Del resto, una tale pronuncia sembra da intendere come pronuncia non in rito – il curatore affermava l’esistenza di un danno diretto alla società per il quale appare avere, dunque, la legitimatio ad causam a chiedere il risarcimento – ma di merito, in ragione, appunto, dell’inesistenza del pur affermato danno diretto alla società, il danno dovendo intendersi cagionato ai creditori, i quali soltanto avrebbero, perciò, la legitimatio ad causam a chiederne il risarcimento. E non sembra, peraltro, che – salvo forse il caso del concorso dei funzionari di banca nel reato L. Fall., ex art. 218, degli amministratori di cui a Cass. n. 10/13413 – possa esserci differenza di soluzione alla questione della legittimazione del curatore a seconda che la condotta di erogazione del credito da parte della banca sia qualificata come illecito autonomo o come condotta accessoria alla condotta illecita degli amministratori di ricorso al credilo, atteso che il meccanismo causale della produzione del danno e la sua qualificazione giuridica in base all’interesse protetto, come danno alla società o ai creditori, non sembra che possa essere diverso”; ii) “questi rilievi sembrano comunque legittimare il fatto che alla censura dell’appellante, il quale come argomento fondamentale richiama Cass. n. 17/9983, in linea con Cass. n. 10/13413, nella parte in cui afferma l’esistenza, in un caso come quello di specie, di un danno diretto alla società, traendone peraltro la conseguenza della legittimazione del curatore ad agire contro la banca, si opponga la più recente Cass. n. 17/11798, la quale, riconfermando l’orientamento delle sentenze del 2006 sopra richiamate, nel senso che “il curatore fallimentare non è legittimato a proporre, nei confronti del finanziatore responsabile (in particolare una banca), l’azione da illecito di natura aquiliana per il risarcimento dei danni causati ai creditori dall’abusiva concessione di credito diretta a mantenere artificiosamente in vita un’impresa decotta, suscitando, così, nel mercato la falsa impressione che si tratti di un soggetto economicamente valido” sul presupposto che, “nel sistema della legge fallimentare, la legittimazione di tale organo ad agire in rappresentanza dei creditori è limitata alle azioni di massa finalizzate alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia generica e aventi carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del loro esito positivo”, ha affermato che al novero di queste azioni non appartiene l’azione risarcitoria in questione, la quale, appunto, “analogamente a quella prevista dall’art. 2395 c.c., costituisce strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore, giacché per un verso, il danno derivante dall’attività di sovvenzione abusiva deve essere valutalo caso per caso nella sua esistenza ed entità (essendo ipotizzabile che creditori aventi il diritto di partecipare al riparto non abbaino ricevuto pregiudizio dalla continuazione dell’impresa), e, per altro verso, la posizione dei singoli creditori, quanto ai presupposti per la configurabilità del pregiudizio, è diversa a seconda che siano antecedenti o successivi all’attività medesima”. Si tratta di un principio di portata generale, che sembra valere anche per il caso – come quello che qui ci interessa – che alla banca sia imputato come illecito la condotta accessoria alla condotta illecita degli amministratori di ricorso abusivo al credito”; iii) “la Corte intende, cioè, nella vexata quaestio, attenersi a questo orientamento. Del resto, nell’ordinanza 25-1-18, s’era osservato che la L. Fall., art. 218, prevede un illecito a carico dell’imprenditore, il quale, pertanto, non può rientrare fra i soggetti tutelati dalla norma, e non potrebbe, dunque, ritenersi tutelata la società nel caso in cui l’imprenditore sia, come nel caso di specie, una società che agisca tramite i suoi organi, potendo la condotta risultare offensiva (oltre che di chi concede il credito, quando al condotta sia posta in essere “dissimulando il dissesto o lo stato di insolvenza”) dei singoli creditori (art. 2395 c.c.), per la tutela dell’interesse dei quali il curatore non è appunto legittimato ad agire”; iv) “comunque, la questione dell’esistenza di un danno diretto alla società – dalla quale, come s’e’ visto, sembra dipendere la legittimazione ad agire del curatore nel senso sopra visto appare nel caso concreto superata dal fatto che il primo giudice ha comunque affermato l’infondatezza nel merito della domanda perché il terzo, nel caso di specie le banche, rispondono della condotta accessoria all’illecito degli amministratori, come appunto nel caso regolato da Cass. 10/13413, solo a titolo di dolo, e, dunque, con la conoscenza effettiva dell’incapienza patrimoniale della società e non anche a titolo di colpa, e cioè per sola possibilità, non attuatasi, di detta conoscenza; dolo che, è da intendere nella motivazione del primo giudice, la curatela non aveva non solo provato, ma neanche allegato; e che tale pronuncia non appare in alcun modo motivatamente censurata dall’appellante (..), che, del resto, attraverso il richiamo a pronunce relative a condotte in ipotesi colpose delle banche, mostra di continuare ad imputare alla banche solo una condotta colposa. (…). La mancanza di alcuna censura su questo punto decisivo della motivazione del primo giudice basta per concludere nel senso del rigetto dell’appello. Ritiene, comunque, la Corte di affermare la correttezza di quella tesi in diritto. A prescindere dal rilievo che la L. Fall., art. 218, prevede un delitto doloso, sicché il concorso dei funzionari delle banche in detto delitto non potrebbe che essere doloso, va rilevato che è affermazione generale abbastanza diffusa che la responsabilità civile, extracontrattuale, per il concorso del terzo nell’inadempimento altrui presupponga il dolo (secondo taluni anzi il dolo specifico costituito dall’intenzionalità del danno). (…). Va poi rilevato che manca in effetti anche la sola allegazione da parte della curatela del dolo delle banche”; v) “rimane così assorbita la questione della fondatezza dell’eccezione di prescrizione nel caso in cui si ammetta la responsabilità a titolo di colpa. Anche questo motivo d’appello, comunque, ove fosse da esaminare, non potrebbe portare all’accoglimento della domanda. Se, nei casi come quelli di specie, la colpa della banca che eroga il credito è integrata dalla possibilità di accertare lo stato di insufficienza patrimoniale dell’impresa (Cass. 15/24715) che quel credito chiede, allora già alla data di erogazione del credito – illecito da considerare istantaneo perché l’erogazione appare sufficiente a far sorgere il debito del soggetto finanziato – dovrebbe all’evidenza potersi rilevare l’ipotetico danno alla società che quell’erogazione di credito comporterebbe e dunque da questa erogazione andrebbe fatto decorrere il dies a quo del termine di prescrizione. L’azione risulterebbe allora prescritta perché appare pacifico che tutte le erogazioni di credito sono avvenute al più tardi nel 2008 – la stessa curatela nella citazione introduttiva, senza fare riferimento alle date delle operazioni, si limita a quantificare l’ammontare di debiti verso le banche alla data, da ultimo, del 31-12-08 – e la notifica della citazione è avvenuta per tutte le banche nel 2014, quindi dopo la scadenza dei 5 anni da detta data. Ove si desse, invece, il caso contrario, mancherebbe la colpa della banca e, quindi, comunque la fondatezza della domanda”.

3. Contro l’appena descritta sentenza, il fallimento (OMISSIS) s.r.l. in liquidazione ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. Hanno resistito, con distinti controricorsi, la Banca Popolare dell’Emilia Romagna s.p.a. (BPER), la Banca Popolare di Bari s.p.a., il Banco BPM s.p.a. (succeduto, per fusione, al Banco Popolare Società Cooperativa, a sua volta incorporante la Cassa di Risparmio di Lucca Pisa e Livorno), la Credit Management s.r.l. (mandataria della Cassa di Risparmio di Orvieto s.p.a.) e la Unicredit s.p.a.. Sono rimasti, invece, solo intimati S.M., G.G. e C.M.. Tutte le parti hanno depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via pregiudiziale, il Collegio ritiene superfluo dilungarsi sulla invalidità (e le potenziali sue conseguenze) della notificazione del ricorso nei confronti di S.M., G.G. e C.M. (perché effettuata al loro difensore in primo grado benché contumaci in appello. Cfr. Cass. n. 20764 del 2021; Cass. n. 11485 del 2018; Cass. SU, n. 10817 del 2008), oggi rimasti solo intimati.

1.1. Invero, il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare ed impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a produrre i suoi effetti. Ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione prima facie inammissibile – (per le ragioni che andranno ad esporsi sub p. da 3.1. a tutto il p. 3.3.3.) o infondato, appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (cfr. Cass. n. 8980 del 2020, in motivazione. In senso sostanzialmente conforme, si vedano anche, ex multis, Cass. n. 20764 del 2021, resa proprio in fattispecie di vizio di notificazione del ricorso per cassazione in controversia L. Fall., ex art. 146; Cass., SU, n. 8774 del 2021; Cass. n. 6924 del 2020, anch’essa in fattispecie di vizio di notificazione del ricorso per cassazione; Cass. n. 5874 del 2020; Cass. n. 16141 del 2019; Cass. n. 14365 del 2019; Cass. n. 12515 del 2018; Cass. n. 11287 del 2018; Cass. n. 15106 del 2013; Cass., SU, n. 6826 del 2010).

2. I formulati motivi di ricorso prospettano, rispettivamente:

I) “Violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della L. Fall., art. 146, in relazione agli artt. 2055 e 2393 c.c., nonché della L. Fall., art. 218, anche in relazione all’art. 185 c.p.”. Il fallimento critica, innanzitutto, il passo della sentenza della corte di merito ove si è ritenuto che l’affermazione del tribunale sul difetto di legittimazione del curatore all’azione risarcitoria contro le banche per l’asserito “danno ai creditori sociali” avrebbe potuto essere utilizzata per negare la legittimazione attiva del curatore anche in relazione alla domanda risarcitoria per un preteso “danno alla società” che aveva chiesto ed ottenuto il credito bancario. Si assume che “il fatto di avere prospettato in giudizio, nell’ambito dell’azione di responsabilità L. Fall., ex art. 146, che nella mala gestio degli amministratori e nella prosecuzione dell’attività sociale produttiva dell’aggravamento del dissesto patrimoniale della società poi fallita, consentita dal ricorso abusivo al credito, abbia concorso la condotta delle banche che tale ingente credito abbiano erogato senza valutare adeguatamente il merito del credito, non può incidere, modificandola, come pretenderebbe la corte di appello, sulla qualificazione del danno come infetto al patrimonio dei singoli creditori anziché a quello della società”. Successivamente, si raffrontano tre pronunce di legittimità dell’anno 2017, cioè la n. 1641/17, la n. 9983/17 e la n. 11798/17 – assumendosi che in esse sarebbe stata affermata la possibilità di responsabilizzare le banche per avere accordato il credito chiesto ed ottenuto da una società in situazione di crisi, con ciò aggravando il dissesto;

II) “Violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, L. Fall., art. 146, in relazione agli artt. 2393,2055 c.c., e L. Fall., art. 218, sotto ulteriore profilo, nonché degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c.”. Esso investe la decisione impugnata nella parte in cui ha rilevato che un comportamento doloso delle banche, nell’aderire alle richieste di concessione e mantenimento del credito da parte degli amministratori di (OMISSIS) s.r.l., nemmeno sarebbe stato allegato, ancor prima che provato. Si afferma, invece, che, già nella citazione introduttiva del giudizio, se ne erano menzionati quelli che, a dire del fallimento, sarebbero stati gli “indizi univoci”, cioè l’incremento dei debiti verso il ceto bancario, la sottocapitalizzazione della società e le segnalazioni della Centrale rischi. Si afferma che: i) la corte territoriale “avrebbe dovuto considerare in modo complessivo tutti gli elementi indiziari forniti dal Fallimento, e rilevarne la indubbia valenza probatoria presuntiva della conoscenza effettiva in capo alle banche convenute della incapienza patrimoniale della società e dell’assenza del merito creditizio nel periodo in cui alla stessa venne concesso nuovo o ulteriore credito, anche attraverso i mantenimento di quello già accordato”; ii) “per quanto attiene al punto della sussistenza dell’elemento psicologico, (…), nel caso in esame, con il dolo generico necessario per la configurazione del reato di cui alla L. Fall., art. 218, che è rappresentato dalla consapevolezza in capo agli amministratori del dissesto e del fatto di procurare danni ai creditori, nonché dalla volontà di ricorrere comunque al credito dissimulando lo stato di illiquidità, ha concorso il dolo generico delle banche, in persona dei propri funzionari, essendo lo stesso rappresentato dall’avere concesso credito senza che ve ne fossero i presupposti, ed in particolare il merito di credito della società sovvenzionata, con la consapevolezza dello stato di dissesto patrimoniale e finanziario in cui la stessa versava”;

III) “Violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 2697 e 2729 c.c., in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c.”. Si ascrive alla corte distrettuale di avere totalmente omesso di valutare gli elementi indiziari, richiamati nel precedente motivo, che il fallimento aveva allegato e documentato al fine di provare l’effettiva conoscenza, da parte delle banche, dell’incapienza patrimoniale della (OMISSIS) s.r.l. e l’assenza del merito creditizio, e, cioè, di un’adeguata capacità di rimborso (rating) da parte della società poi fallita. Si deduce, inoltre, che “il fallimento aveva l’onere di provare non tanto la collusione dei singoli funzionari con gli amministratori della società nella richiesta e concessione di credito, circostanza impossibile, per il principio di vicinanza della prova, (…), ma il fatto che il credito era stato richiesto, ed era stato concesso, travalicando i confini dell’accorta gestione imprenditoriale e “senza seguire i principi di sana e prudente gestione valutando (art. 5 T.u.b.) il merito di credito in base ad informazioni adeguate””;

IV) “Violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 2947 e 2935 c.c.”, contestandosi alla corte umbra di aver erroneamente individuato e/o computato il dies a quo dell’eccepita prescrizione dell’azione del fallimento.

3. E’ prioritario l’esame del secondo e terzo dei riportati motivi possibile, peraltro, in via unitaria in ragione della loro evidente connessione – investendo gli stessi l’unica, effettiva ratio decidendi della sentenza oggi impugnata, secondo cui il tribunale aveva escluso il dolo nelle condotte delle banche convenute e tale statuizione non era stata fatta oggetto di appello. Essi si rivelano complessivamente inammissibili alla stregua delle dirimenti considerazioni di seguito esposte.

3.1. Giova ricordare che la corte distrettuale ha espressamente affermato che “la questione dell’esistenza di un danno diretto alla società (…) appare nel caso concreto superata dal fatto che il primo giudice ha comunque affermato l’infondatezza nel merito della domanda perché il terzo, nel caso di specie le banche, rispondono della condotta accessoria all’illecito degli amministratori, (…), solo a titolo di dolo, e, dunque, con la conoscenza effettiva dell’incapienza patrimoniale della società e non anche a titolo di colpa, e cioè per sola possibilità, non attuatasi, di detta conoscenza; dolo che, è da intendere nella motivazione del primo giudice, la curatela non aveva non solo provato, ma neanche allegato; e che tale pronuncia non appare in alcun modo motivatamente censurata dall’appellante (…), che, del resto, attraverso il richiamo a pronunce relative a condotte in ipotesi colpose delle banche, mostra di continuare ad imputare alla banche solo una condotta colposa. (…). La mancanza di alcuna censura su questo punto decisivo della motivazione del primo giudice basta per concludere nel senso del rigetto dell’appello”. Ha aggiunto, poi, che, a “prescindere dal rilievo che la L. Fall., art. 218, prevede un delitto doloso, sicché il concorso dei funzionari delle banche in detto delitto non potrebbe che essere doloso, va rilevato che è affermazione generale abbastanza diffusa che la responsabilità civile, extracontrattuale, per il concorso del terzo nell’inadempimento altrui presupponga il dolo (secondo taluni anzi il dolo specifico costituito dall’intenzionalità del danno). (…). Va poi rilevato che manca in effetti anche la sola allegazione da parte della curatela del dolo delle banche”.

3.2. Sarebbe stato preciso onere del fallimento, dunque, dimostrare di avere puntualmente censurato, in sede di gravame, una siffatta complessiva statuizione, spiegando, cioè, le ragioni: i) di un’eventuale erroneità dell’affermazione del tribunale circa la necessità del dolo (non anche della mera colpa) delle banche per rendere illecite (e, come tali, idonee a generare una loro responsabilità concorrente con quella ascritta agli amministratori) le condotte ad esse contestate; ii) di una (parimenti eventuale) erroneità di valutazione, da parte del giudice di prime cure, delle dedotte circostanze fattuali e delle complessive risultanze istruttorie in punto di mancata dimostrazione del dolo predetto.

3.2.1. Le argomentazioni esposte dal ricorrente nel suo descritto secondo motivo, invece, si rivelano affatto insufficienti ai fini suddetti, da esse non emergendo che, con l’atto di appello, era stata, appunto, censurata la ratio decidendi del tribunale basata sulla mancanza di deduzione e prova del dolo delle odierne controricorrenti: ciò neppure allorché, alla fine della pag. 22 del ricorso, si richiama il secondo motivo di gravame, posto che quanto ivi riprodotto non ha un tale significato).

3.2.2. Alteris verbis, una cosa è che, con la citazione in primo grado, era stato dedotto (implicitamente, peraltro) il dolo delle banche; tutt’altra, invece, è che, con l’atto di appello, si era censurata la statuizione di insussistenza di quel dolo (unico elemento psicologico ritenuto necessario dal tribunale, che aveva negato la sufficienza della mera colpa ai fini della valutazione, in termini di illiceità, delle condotte ascritte alle banche). L’odierno ricorso, però, contiene la prima deduzione, non la seconda, che, per contro, era necessaria.

3.3. A tanto deve aggiungersi – con riguardo anche al terzo motivo che, nella specie, è inconfigurabile la paventata violazione dell’art. 2697 c.c., ravvisabile, secondo la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 17313 del 2020), solo nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una pretesa incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata non avesse assolto tale onere, poiché, in questo caso, si discute sull’apprezzamento (corretto, o non) dell’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (oggi, peraltro, nei ristretti limiti di cui al testo di quest’ultimo come novellato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012, qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza resa il 22 novembre 2019).

3.3.1. Nella specie, invece, si è al cospetto di argomentazioni critiche con evidenza diretta a censurare una erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa, che non costituiscono vizio di violazione di legge (cfr., tra le altre, Cass. n. 17313 del 2020, in motivazione; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 27197 del 2011).

3.3.2. Parimenti il fallimento ricorrente incorre nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 c.p.c., può porsi, rispettivamente, solo allorché si alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge (cfr. Cass. n. 22795 del 2021 e Cass., SU, n. 20867 del 2020, che ha pure precisato che “e’ inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.”); 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (cfr. Cass. n. 22795 del 2021 e Cass., SU, n. 20867 del 2020, che ha pure puntualizzato che, “ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione”; Cass. n. 27000 del 2016).

3.3.3. Da ultimo, va ricordato, quanto alla prospettata violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., che spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo, e neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo criterio di normalità, visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (cfr. Cass. n. 22366 del 2021).

4. L’inammissibilità delle doglianze fin qui scrutinate impone un’analoga declaratoria, per evidente carenza di interesse, in relazione al primo motivo di ricorso, riguardante l’alternativa argomentazione della corte distrettuale peraltro nemmeno costituendone effettiva ratio decidendi – basata sul carattere del danno dedotto quale pregiudizio diretto nei confronti dei creditori e non della società, senza necessità, quindi, di affrontare la relativa complessa tematica (oggetto pure di recenti interventi di questa Corte. Cfr. Cass. nn. 16810 e 24725 del 2021).

5. Altrettanto è a dirsi, infine, circa il quarto motivo – concernente la prescrizione nell’ipotesi di configurabilità di un illecito eventualmente colposo nelle condotte delle banche oggi controricorrenti – anch’esso evidentemente assorbito dalla stabilizzazione della statuizione afferente il carattere necessariamente doloso della invocata responsabilità concorrente di queste ultime.

6. In definitiva, l’odierno ricorso va dichiarato inammissibile, restando le spese di questo giudizio, tra le sole parti costituite, regolate dal principio di soccombenza, altresì dandosi atto – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del fallimento ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il Fallimento (OMISSIS) s.r.l. in liquidazione al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, che si liquidano, per ciascuna parte controricorrente, in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del menzionato ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 17 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2022

 

 

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