Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4690 del 25/02/2011

Cassazione civile sez. I, 25/02/2011, (ud. 15/12/2010, dep. 25/02/2011), n.4690

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. BERNABAI Renato – rel. Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30180/2008 proposto da:

L’EDERA – COMPAGNIA ITALIANA DI ASSICURAZIONI S.P.A. IN LIQUIDAZIONE

COATTA AMMINISTRATIVA (c.f. (OMISSIS)), in persona del

Commissario Liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA BRUNO BUOZZI 82, presso l’avvocato IANNOTTA Gregorio, che

la rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Z.G., B.M.R., ZETA GENERAL SERVICE

GROUP S.P.A. in persona dell’amministratore unico pro tempore, BANCA

DELLA CIOCIARIA S.P.A. in persona dell’amministratore delegato pro

tempore, Z.M.V., Z.A., FAMIGLIA

ZEPPIERI S.N.C, in persona dell’amministratore unico pro tempore,

L’EDERA – COMPAGNIA ITALIANA DI ASSICURAZIONI S.P.A. in persona del

Presidente del C.d.A. pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA TAGLIAMENTO 14, presso l’avvocato BARONE Carlo Maria, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato BARONE ANSELMO, giusta

procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

contro

MINISTERO DELLE ATTIVITA’ PRODUTTIVE, ISVAP – ISTITUTO PER LA

VIGILANZA SULLE ASSICURAZIONI PRIVATE DI INTERESSE COLLETTIVO;

– intimati –

sul ricorso 338/2009 proposto da:

MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO, già Ministero dell’Industria, in

persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

Z.G., B.M.R., ZETA GENERAL SERVICE

GROUP S.P.A. in persona dell’amministratore unico pro tempore, BANCA

DELLA CIOCIARIA S.P.A. in persona dell’amministratore delegato pro

tempore, Z.M.V., Z.A., FAMIGLIA

ZEPPIERI S.N.C, in persona dell’amministratore unico pro tempore,

L’EDERA – COMPAGNIA ITALIANA DI ASSICURAZIONI S.P.A. in persona del

Presidente del C.d.A. pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA TAGLIAMENTO 14, presso l’avvocato BARONE CARLO MARIA, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato BARONE ANSELMO, giusta

procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

contro

ISVAP – ISTITUTO PER LA VIGILANZA SULLE ASSICURAZIONI PRIVATE DI

INTERESSE COLLETTIVO, L’EDERA S.P.A. IN LIQUIDAZIONE COATTA

AMMINISTRATIVA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2064/2008 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 16/05/2008;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

15/12/2010 dal Consigliere Dott. RENATO BERNABAI;

preliminarmente si procede alla riunione dei due ricorsi in quanto

proposti avverso il medesimo provvedimento;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato IANNOTTA che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso principale, rigetto dell’incidentale;

udito, per il ricorrente Ministero, l’Avvocato DE GIOVANNI ENRICO

(Avv. Stato) che ha chiesto il rigetto del ricorso principale,

accoglimento dell’incidentale;

uditi, per i controricorrenti, gli Avvocati BARONE CARLO MARIA e

BARONE ANSELMO che hanno chiesto il rigetto dei ricorsi;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS Pierfelice, che ha concluso per l’accoglimento del

quindicesimo motivo del ricorso del Ministero con assorbimento degli

altri motivi nonchè dell’intero ricorso dell’Edera con cassazione

della sentenza anche senza rinvio.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 29 agosto 1997, i sigg. Z. A., Z.G., Z.V., B.M. R., la FAMIGLIA ZEPPIERI s.n.c. e la ZETA GENERAL SERVICES GROUP s.p.a. convenivano dinanzi al Tribunale di Roma il Ministero dell’Industria, Commercio ed Artigianato e l’ISVAP e, premesso di essere azionisti della s.p.a. l’Edera-compagnia italiana di assicurazioni, esponevano;

che a seguito di un contenzioso con l’Isvap, la società aveva comunicato al Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato la propria rinunzia a tutte le autorizzazioni rilasciatele;

che l’Isvap aveva contestato alla compagnia varie inadempienze, intimandole il divieto di compiere atti di disposizione dei propri beni, ai sensi del D.Lgs. n. 175 del 1995, artt. 61 e 62 e trasmesso una relazione al Ministero, con la richiesta di revoca delle autorizzazioni all’esercizio dell’attività assicurativa e di messa in liquidazione coatta amministrativa della società;

che in data 29 luglio 1997 il Ministro dell’industria aveva disposto in conformità;

che, per contro, la pregressa rinuncia, con la conseguente decadenza automatica dall’autorizzazione, costituiva un diritto soggettivo della società e comportava la cessazione dei poteri di vigilanza dell’Isvap, che invece aveva sollecitato al Ministero la revoca e la liquidazione coatta amministrativa.

Tutto ciò premesso, chiedevano l’accertamento della già maturata decadenza dalle autorizzazioni ministeriali per effetto della propria rinunzia all’autorizzazione e la condanna generica del Ministero dell’Industria e dell’Isvap, in solido, al risarcimento dei danni, da liquidare in separato giudizio, previa dichiarazione dell’inesistenza dei provvedimenti adottati dalla l’Isvap e dal Ministero; con richiesta cautelare di sospensione dei loro effetti, ex art. 700 cod. proc. civ..

Costituendosi in giudizio, le parti convenute eccepivano il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, in favore di quella del giudice amministrativo.

Rigettata dal giudice istruttore l’istanza cautelare con ordinanza 15 aprile 1998 per carenza di giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, veniva quindi proposto dagli attori regolamento preventivo di giurisdizione, con atto notificato il 12 maggio 1998.

Con sentenza 27 gennaio 1999 n. 4 questa Corte, a sezioni unite, dichiarava la giurisdizione del giudice ordinario.

Al riguardo, escludeva, in via preliminare, l’inammissibilità del regolamento, eccepita dalla difesa erariale per l’intervenuta sentenza del T.a.r. del Lazio che aveva respinto la domanda di annullamento del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, dato il diverso ambito soggettivo dei due giudizi: proposti, rispettivamente, dalla società dinanzi al giudice amministrativo e dagli azionisti, dinanzi al giudice ordinario.

Negava, altresì, l’eccepito difetto di legittimazione attiva dei soci, che era questione di merito, non esaminabile in tale sede.

Escludeva, ratione temporis, l’applicazione del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 33, che devolveva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di pubblici servizi, ivi comprese quelle concernenti la vigilanza sulle assicurazioni.

Rilevava come fossero incontestate non solo la dichiarazione di rinuncia all’autorizzazione all’esercizio di attività assicurativa, ma anche la sua comunicazione al Ministero dell’Industria prima dell’emanazione del decreto ministeriale.

Dichiarava insufficiente, ai fini del riparto di giurisdizione, la prospettazione di parte (petitum formale) di un diritto soggettivo, dovendosi, invece, riguardare la situazione giuridica considerata nella sua effettiva natura (petitum sostanziale). E sotto tale profilo, era da escludere che l’autorità competente potesse revocare D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 175, ex art. 65, l’autorizzazione, dopo che questa era già stata oggetto di rinunzia da parte della compagnia di assicurazione, con esercizio di un suo diritto soggettivo – che determinava (a decadenza, ope legis, dall’autorizzazione – insuscettibile di affievolimento per effetto della successiva revoca da parte dell’Isvap. Statuiva, infine, che non era applicabile la norma – pur di dichiarata natura autenticamente interpretativa – di cui al D.Lgs. 13 ottobre 1998, n. 373, art. 3, comma 2 (Razionalizzazione delle norme concernenti l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo), che aveva invece perpetuato nell’Isvap il potere di revoca dell’autorizzazione pur dopo l’altrui rinunzia, in presenza di un rischio di pregiudizio agli interessi degli assicurati e dei terzi: giacchè tale norma, ad onta della sua veste interpretativa, era, in realtà, novativa e, come tale, applicabile alle sole fattispecie future.

Nel prosieguo del processo pendente dinanzi al Tribunale di Roma interveniva, poi, il commissario liquidatore, sig. D.F., in rappresentanza dell’Edera-compagnia italiana di assicurazioni s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, chiedendo l’accertamento della nullità della rinunzia all’autorizzazione all’esercizio di attività assicurativa allegata dagli attori; con il conseguente rigetto di tutte le domande di accertamento dell’inesistenza della procedura di liquidazione coatta amministrativa e di risarcimento del danno.

Intervenivano altresì, ex art. 105 cod. proc. civ., l’ex amministratore delegato, in rappresentanza dell’Edera-compagnia italiana di assicurazioni s.p.a., la Banca della Ciociaria, titolare del 9,99% del capitale sociale, la Saaf s.a.s. e taluni ex-agenti, che pure chiedevano la condanna generica dei convenuti al risarcimento dei danni.

Con sentenza 11 gennaio 2002 il Tribunale di Roma dichiarava la carenza di legittimazione di tutti gli attori e degli intervenuti, salvo che dell’Edera compagnia italiana assicurazioni s.p.a. – questione non affrontata dalle sezioni unite nel regolamento di giurisdizione n. 4/1999 e rilevabile d’ufficio – in ordine alle domande di accertamento dell’inesistenza della liquidazione coatta amministrativa e di risarcimento, dal momento che il danno allegato, consistente nella lesione della libertà di iniziativa economica e del prestigio per effetto della liquidazione coatta amministrativa, era stato subito dalla società – cui spettava il diritto alla conservazione del patrimonio – e non dai soci in proprio, il cui diritto alla quota non era stato ancora leso.

Negava, del pari, il danno allegato dagli ex-agenti – che si sarebbe verificato egualmente per effetto della rinunzia alla attività assicurativa – e, ritenuto che l’art. 386 cod. proc. civ., escludeva che il regolamento di giurisdizione pregiudicasse il merito, dichiarava la nullità ex art. 2379 cod. civ., della rinunzia: di oggetto astrattamente lecito, ma di contenuto frodolento, in quanto volto all’elusione dell’imminente apertura della procedura concorsuale, dovuta a gravi irregolarità ed a crisi finanziaria, sfociata poi nell’accertamento dello stato d’insolvenza con sentenza n. 115/2001 del Tribunale di Roma.

Dichiarava assorbita l’ulteriore eccezione di nullità della delibera di rinunzia, in quanto assunta in un’assemblea ordinaria e non straordinaria, e condannava l’Edera s.p.a., in solido con gli altri attori ed intervenuti, alla rifusione delle spese di giudizio.

La decisione veniva confermata dalla Corte d’appello di Roma con sentenza 13 aprile 2004; salva la diversa giustificazione della nullità della delibera, per illiceità del motivo, ai sensi dell’art. 1345 cod. civ..

In accoglimento parziale del ricorso per cassazione proposto dagli attori e intervenuti originari, questa Corte, con sentenza 27 luglio 2005, cassava la decisione e rinviava la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Roma per il giudizio di rinvio.

Motivava:

che il giudice di seconde cure aveva fatto confusione fra (a legittimazione processuale – che si integrava, nella specie, sulla base della mera prospettazione della veste formale di soci, danneggiati in quanto tali – e la effettiva titolarità dei diritti pretesi, che era questione di merito;

che la titolarità dì una partecipazione sociale conferiva al socio poteri e diritti amministrativi e patrimoniali, tra i quali il diritto alla quota di liquidazione, autonomo rispetto alla situazione giuridica della società: che lo abilitava ad insorgere contro fatti illeciti di terzi, suscettibili di ledere la correttezza della procedura di liquidazione e di pregiudicare, così, l’attribuzione della porzione di attivo a lui spettante, dopo il pagamento dei debiti sociali;

che, a fronte dell’esercizio del potere di revoca delle autorizzazioni, da parte del Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, con il conseguente provvedimento dichiarativo della liquidazione coatta amministrativa della compagnia di assicurazione, ai sensi del D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 175, art. 69 (Attuazione della direttiva 92/49/CEE in materia di assicurazione diretta diversa dall’assicurazione sulla vita), le situazioni giuridiche della società e dei soci si atteggiavano a interessi legittimi: salvo il caso di carenza assoluta di potere della pubblica amministrazione, che non determinava l’affievolimento del diritto soggettivo a far valere, dinanzi al giudice ordinario, l’inesistenza giuridica del provvedimento amministrativo e le conseguenti pretese risarcitorie per la lesione cagionata all’integrità patrimoniale della società ed alla posizione soggettiva dei soci;

che la decisione del regolamento di giurisdizione di cui alla sentenza 27 gennaio 1999 n. 4, determinata dalla valutazione delibatoria dell’oggetto dalla domanda non vincolava le questioni della pertinenza del diritto e della proponibilità dalla domanda, ai sensi dell’art. 386 cod. proc. civ.; e quindi non conteneva una valutazione della sua fondatezza, o no: salvo che in ordine all’accertamento dì fatti, provvedimenti o negozi giuridici necessario per la qualificazione dell’oggetto dalla domanda;

che, a questa stregua, era preclusa la questione, ormai irrevocabilmente accertata, dell’anteriorità della rinunzia dell’Edera s.p.a. alle autorizzazioni all’esercizio dell’attività assicurativa rispetto alla loro revoca disposta dal Ministero;

mentre, restava impregiudicata la questione della nullità, ex art. 2379 cod. civ., per impossibilità o illiceità dell’oggetto della delibera assembleare di rinunzia, che erroneamente la Corte d’appello di Roma aveva ricondotto all’art. 1345 cod. civ., e cioè alla normativa generale sui contratti, inapplicabile al sottosistema societario regolato dalle norme speciali di cui all’art. 2377 (azione generale di annullamento) e dell’art. 2379 (azione speciale di nullità per impossibilità o illiceità dell’oggetto).

Dopo la riassunzione tempestiva della causa e la costituzione delle parti, la Corte d’appello di Roma, in sede di rinvio, con sentenza 16 maggio 2008, rigettava la domanda nei confronti dell’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni Private-Isvap; dichiarava inesistente il decreto di liquidazione coatta amministrativa dell’Edera compagnia italiana di assicurazioni s.p.a.; condannava il Ministero delle Attività Produttive al risarcimento dei danni in favore della predetta società e dei soci, da liquidare in separato giudizio. Con le conseguenti statuizioni di in tema di regolamento delle spese di lite.

Motivava:

– che non aveva valore preclusivo di giudicato la sentenza emessa dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio che aveva rigettato la domanda di annullamento del decreto di liquidazione coatta amministrativa, come già escluso dalla sentenza di cassazione con rinvio;

– che era infondata l’eccezione di carenza di legittimazione attiva dei soci, pure disattesa in sede di legittimità;

– che non era invece preclusa la questione sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda, giacchè la pronuncia del sezioni unite non poteva pregiudicare il merito, ai sensi dell’art. 386 cod. proc. civ., salvo che sull’accertamento dell’esistenza e dell’anteriorità della rinunzia all’autorizzazione all’esercizio di attività assicurativa;

– che la delibera di rinunzia non integrava una modifica dell’atto costitutivo e quindi validamente era stata assunta dall’assemblea ordinaria;

– che la liceità dell’oggetto della deliberazione era già stata accertata dalla prima sentenza della Corte d’appello, non impugnata sul punto;

– che andava recepita la statuizione espressa dalle sezioni unite – anche se ai soli fini della pronunzia sulla giurisdizione – circa la natura di diritto soggettivo propria della rinunzia all’autorizzazione: il cui esercizio era impeditivo della successiva revoca e della conseguente procedura concorsuale di liquidazione coatta amministrativa, disposte dal Ministero in carenza di potere;

– che invece non sussisteva alcuna responsabilità dell’Isvap, che si era limitata agli accertamenti strumentali alla successiva assunzione delle misure da parte del Ministero;

– che non poteva essere accolta la domanda di condanna al pagamento di una provvisionale, in carenza di prova, allo stato, del danno subito dai soci, pari alla differenza tra la quota percepibile all’esito della liquidazione coatta e, alternativamente, della liquidazione ordinaria; come pure del danno subito dall’Edera s.p.a., di cui non era neppure reperibile, in atti, l’originaria comparsa di intervento.

Avverso la sentenza, non notificata, sia l’Edera-compagnia italiana di assicurazioni s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, in persona del commissario liquidatore, sia il Ministero dello Sviluppo Economico (già Ministero dell’Industria, Commercio e Artigianato), proponevano distinti ricorsi per cassazione, notificati entrambi il 17 dicembre 2008 e articolati, rispettivamente in tre e sedici motivi.

La prima deduceva:

1) la violazione degli art. 2364, 2365 e 2375 cod. civ., nonchè la carenza di motivazione nell’omessa rilevazione della nullità della delibera di rinuncia all’autorizzazione amministrativa, invalidamente assunta da un’assemblea ordinaria sebbene involgesse una modifica dell’oggetto sociale esclusivo, consistente nell’esercizio dell’attività assicurativa;

2) la violazione degli artt. 1334, 1343 e 2379 cod. civ. e del D.Lgs. n. 175 del 1995, artt. 61, 62 e 65, nel ritenere atto non recettizio la delibera di rinunzia all’autorizzazione amministrativa, che era inopponibile all’Isvap ed ai terzi, in quanto priva di data certa e resa conoscibile solo a seguito del provvedimento di revoca e di messa in liquidazione coatta amministrativa; nonchè, nel non rilevarne la nullità per illiceità della causa, per contrarietà a norma imperativa ed al divieto di atti dispositivi che ne costituiva espressione;

3) la violazione degli artt. 2909 e 2379 cod. civ. nonchè degli artt. 393 e 112 cod. proc. civ. e la carenza di motivazione in ordine ai principi regolatori del giudicato e per omessa pronunzia su un capo della sentenza, concernente la nullità della delibera per illiceità dell’oggetto.

A sua volta, il Ministero deduceva:

1) la carenza di motivazione nell’esclusione della nullità della delibera di rinunzia all’autorizzazione all’esercizio di attività assicurativa, nonostante questa fosse stata assunta in sede di assemblea ordinaria, anzichè straordinaria;

2) la falsa applicazione degli artt. 2328, 2365 e 2375 cod. civ. in relazione al D.Lgs. n. 175 del 1995, art. 7, comma 2, nel ritenere validamente assunta da assemblea ordinaria la delibera di rinunzia all’autorizzazione amministrativa all’esercizio dell’attività assicurativa, che comportava lo scioglimento anticipato e la liquidazione della società;

3) la carenza di motivazione nella ritenuta opponibilità alla Pubblica Amministrazione della rinunzia all’autorizzazione, sebbene comunicata successivamente all’intimazione di non disporre dei beni, ai sensi del D.Lgs. n. 175 del 1995, artt. 61 e 62;

4) la violazione del D.Lgs. n. 175 del 1995, artt. 61 e 62, in relazione all’efficacia riconosciuta alla delibera di rinunzia all’attività assicurativa, nonostante il divieto di atti dispositivi già comunicato dall’Isvap;

5) la carenza di motivazione nell’affermare l’immediata efficacia della rinunzia, al momento stesso della deliberazione assembleare, senza onere di comunicazione;

6) la violazione del D.Lgs. n. 175 del 1995, art. 65, nel ritenere non recettizia la rinuncia in questione;

7) la carenza di motivazione nell’esclusione del vizio di nullità della delibera, lesiva di interessi generali, ex art. 2379 cod. civ.;

8) la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., laddove la Corte d’appello di Roma aveva erroneamente affermato che la questione dell’illiceità dell’oggetto non era stata riproposta nel ricorso per cassazione ed era quindi preclusa;

9) la falsa applicazione dell’art. 384 cod. proc. civ., nel ritenere preclusa da giudicato la questione della nullità della delibera di rinunzia, benchè la stessa, già oggetto di ricorso incidentale, fosse stata dichiarata assorbita dalla sentenza di cassazione a seguito dell’accoglimento del ricorso principale vertente sull’accertamento di nullità per illiceità del motivo, ex art. 1418 cod. civ.;

10) la violazione della medesima norma di legge, perchè la Corte d’appello di Roma aveva omesso di pronunciarsi sulla dedotta illiceità del contenuto della delibera per frode alla legge;

11) la violazione degli artt. 2371 e 1344 cod. civ., nel non rilevare la nullità per illiceità della delibera, avente un contenuto in frode alla legge, pur se formalmente corretto;

12) la violazione del D.Lgs. n. 175 del 1995, artt. 61 e 62, nonchè degli artt. 2379, 2328, 2366 e 2375 cod. civ., nel ritenere adottato in carenza di potere il provvedimento di liquidazione coatta amministrativa emesso dopo la delibera di rinuncia: che era invece nulla, perchè approvata dall’assemblea ordinaria senza la presenza del notaio, e comunque inopponibile, perchè successiva al divieto di compiere atti dispositivi imposto dall’Isvap;

13) la carenza di motivazione nel ritenere la responsabilità della Pubblica amministrazione, senza procedere alla previa disamina dell’elemento psicologico del dolo o della colpa grave, non essendo sufficiente, all’uopo, la mera illegittimità del provvedimento amministrativo assunto;

14) la violazione dell’art. 2043 cod. civ., sotto il medesimo profilo ed anche per insussistenza del nesso eziologico tra la liquidazione coatta amministrativa ed il danno subito dai soci;

15) la carenza di motivazione sull’omessa valutazione della contrarietà alla normativa comunitaria dell’esenzione dalla procedura concorsuale della liquidazione coatta amministrativa, in caso di rinunzia all’esercizio dell’attività assicurativa;

16) la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e dell’art. 274 del Trattato CE per aver disatteso, senza alcuna motivazione, la richiesta di rimessione della questione comunitaria alla Corte di giustizia della Comunità europea, trascurando di valutare il contrasto della normativa nazionale con la disciplina comunitaria Resistevano con distinti controricorsi l’Edera s.p.a. in liquidazione, i soci e gli altri soggetti intimati, che eccepivano, in via pregiudiziale, l’inammissibilità, sotto molteplici profili, dei ricorsi e nel merito la loro infondatezza.

Tutte le parti depositavano memoria illustrativa ex art. 378 cod. proc. civ..

All’udienza del 15 dicembre 2010, il Procuratore generale e i difensori precisavano le rispettive conclusioni, come da verbale, in epigrafe riportate. Il difensore delle parti resistenti depositava altresì note d’udienza.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Devono essere esaminate, in via pregiudiziale, le eccezioni di inammissibilità sollevate dagli intimati.

Con riferimento al ricorso dell’Edera s.p.a. in liq. coatta amministrativa, la prima di esse denunzia la tardività del ricorso, notificato il 17 Dicembre 2008, oltre la scadenza del termine breve decorrente dalla precedente notificazione della sentenza, a cura del commissario liquidatore, in data 17 Settembre 2008, ad una delle parti resistenti, la ZETA GENERAL SERVICES GROUP s.p.a.. L’eccezione è infondata.

Come gli stessi controricorrenti espongono, e come risulta dagli atti – che questa Corte di legittimità può esaminare, quale giudice dei fatto in tema di eccezioni processuali ed errores in procedendo – la notificazione della sentenza era stata effettuata nel diverso processo n. 28136/2005, pure pendente tra le parti dinanzi a questa Corte, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 372 cod. proc. civ.. Si legge, infatti, nell’allegata nota esplicativa di accompagnamento che la sentenza 16 maggio 2008 n. 2064 della Corte d’appello di Roma veniva prodotta (in fotocopia semplice) “al fine di comprovare che la sentenza della suprema Corte di cassazione n. 15721/2005 non ha definito, con pronunzia passata in giudicato, il giudizio”.

Era quindi testuale ed inequivoca la carenza di volontà di dare impulso processuale al decorso dei termine breve ad impugnare, nell’ambito del presente processo; anche a voler considerare legittimata la parte soccombente a notificare, a tale scopo, la sentenza (opinione controversa in dottrina).

Al riguardo, occorre rilevare, in sede dommatica, che il procedimento di cui all’art. 326 cod. proc. civ. è caratterizzato dalla volontà di porre fine al processo, mettendo in moto i termini per l’impugnazione sia nei confronti del notificato, sia nei confronti del notificante. Se tale volontà fa difetto, come nella specie reso palese dalla dichiarazione surriportata, la notificazione resta inidonea a segnare il dies a quo del termine breve: non essendo, all’uopo, sufficiente la mera partecipazione cognitiva realizzata mediante un atto di esibizione documentale (nelle forme tassative prescritte dall’art. 372 cod. proc. civ.) compiuto a tutt’altri fini.

Del resto, l’eccezione in esame riposa sul presupposto implicito della coincidente identità del destinatario della notificazione ex art. 372 c.p.c., con il difensore delle parti resistenti nel presente giudizio: circostanza affatto accidentale e, come tale, inidonea ad integrare il sostrato fattuale dell’avvio del termine breve: legato, nella ratio della norma, ad un atto processuale mirato a tale effetto.

Si può certo riconoscere, in tesi generale, che la notifica di una sentenza lasci presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, l’intento sollecitatorio rilevante ai sensi dell’art. 326 cod. proc. civ.. Ma, ove tale volizione sia espressamente esclusa con dichiarazione contestuale che renda perfettamente conoscibile il diverso scopo perseguito, si deve negare, in concreto, l’effetto acceleratorio contra auctorem: non diversamente che per la notifica di sentenza a dichiarati fini esecutivi, pur se in concreto eseguita presso il difensore del soccombente (Cass., sez. lavoro, 2 aprile 2009, n. 8071; Cass., sez. 1, 10 Luglio 2007, n. 15389). A pena di lesione, nel caso in esame, del diritto di difesa, per impossibilità di produrre in altro giudizio il provvedimento, mediante notificazione: modalità necessitata, se disgiunta dal deposito del ricorso o controricorso la cui ammissibilità sia destinato, in ipotesi, a dimostrare (art. 372 cod. proc. civ., comma 2).

Non giovano alla tesi dei controricorrenti i precedenti di legittimità citati a sostegno dell’eccezione.

In particolare, Cass., sez. lavoro, 27 aprile 2010 n. 10.026 enuncia il principio diametralmente opposto dell’insufficienza della conoscenza, sia pure legale, della sentenza ai fini della decorso del termine breve di impugnazione (nella specie, come pure in Cass., sez. lavoro, 2 aprile 2009 n. 8071, si è confermato il consolidato principio della inidoneità ancipite – per il notificante e il destinatario – della notifica alla parte personalmente a fini esecutivi).

Solo apparentemente conforme all’eccezione appare, invece, Cass., sez. unite, 19 novembre 2007 n. 23.829.

Premesso che la composizione plenaria del giudice era ivi giustificata ratione materiae – in tema di regolamento di giurisdizione – e non a fini di composizione di contrasti (con l’auctoritas che ne conseguirebbe: art. 374 cod. proc. civ., comma 3), si osserva come la finalità non sollecitatoria che la parte notificante assumeva perseguita era restata inespressa, e dunque assimilabile, in conformità con i principi generali, ad un’irrilevante riserva mentale. Ma soprattutto decisiva, ai fini della distinzione di tale precedente dalla fattispecie in esame, è la natura in quel caso endoprocessuale della notifica, che consentiva di riconnetterle una connotazione univoca ex art. 326 cod. proc. civ.; a differenza della notifica eseguita dall’Edera s.p.a in liq.

coatta amm. in un altro processo, per ragioni affatto peculiari.

La medesima eccezione di giudicato è sostenuta anche sotto il diverso profilo della carenza di legittimazione della liquidazione coatta amministrativa – dai contro ricorrenti costantemente definita inesistente – ad impugnare in via diretta la sentenza di rinvio.

In tale ottica, il commissario liquidatore, quale titolare di un mero interesse mediato, potrebbe solo intervenire adesivamente alle ragioni delle parti adiuvate; senza sopperire all’inerzia del Ministero dello Sviluppo Economico, rimasto contumace nel primo giudizio di cassazione, e dell’Isvap, acquiescente alla sentenza di rinvio.

Anche in questa configurazione, l’eccezione è infondata.

Preliminare ed assorbente è il rilievo dell’impropria inversione di ordine logico-giuridico tra l’affermata inesistenza della procedura di liquidazione coatta amministrativa – petitum dell’originaria edictio actionis, e dunque oggetto dell’accertamento in fieri – ed il presupposto processuale della legittimazione a resistere in giudizio.

In sintesi: l’inesistenza della procedura costituisce il posterius dell’eventuale sentenza di accoglimento e non certo il prius della domanda. Di questa, il commissario liquidatore era, anzi, la controparte naturale e necessaria: onde, solo il suo successivo intervento (dopo il regolamento di giurisdizione) ha sanato la macroscopica lesione del contraddittorio cagionata dalla sua omessa citazione in giudizio.

Oltre a ciò, non sembra superfluo aggiungere che la tesi prospettata pecca anche di contraddittorietà: se davvero la parte non fosse legittimata a resistere, perchè inesistente giuridicamente, non sarebbe neppure legittimata ad intervenire ad adiuvandum.

Il riconoscimento della piena capacità processuale e della legittimazione del commissario liquidatore elide, in radice, le ulteriori argomentazioni difensive di supporto all’eccezione di giudicato. Non senza rilevare, comunque, che la questione di nullità della delibera, ex art. 2379 cod. civ., lungi dall’essere preclusa per effetto del mancato ricorso per cassazione delle amministrazioni -cui le stesse, uscite vittoriose nei due gradi di merito, non avevano alcun interesse e che per tale ragione sarebbe andato incontro ad una pronuncia di inammissibilità, se proposto: Cass., sez. 3 26 Gennaio 2006, n. 1691; Cass., sez. lav. 19 Settembre 2000, n. 12386 – costituiva proprio il nucleo centrale dei giudizio di rinvio, nella pienezza di facoltà processuali di tutte le parti.

Ancora una volta, i precedenti citati a conforto dell’eccezione non appaiono pertinenti.

Cass., sez. 1^, 28 luglio 2006 n. 17.247 concerne la diversa ipotesi di mancata deduzione, nel primo giudizio di legittimità, di un’eccezione di giudicato esterno da parte dello stesso ricorrente:

con la conseguenza che tale eccezione non poteva essere dedotta, per la prima volta, nel giudizio di rinvio. Cass., sez. lavoro, 3 aprile 2006 n. 7761 fa riferimento addirittura ad una domanda che non era stato oggetto di motivo di ricorso per cassazione della parte soccombente (e non vittoriosa, come nel caso in esame). Infine, Cass., sez. 3, 20 gennaio 2010 n. 912, non massimata, contempla il caso affatto diverso di una pronuncia esplicita di inammissibilità del ricorso incidentale, dichiarato tamquam non esset: con il conseguente passaggio in giudicato dei capi decisori inammissibilmente rimessi in discussione, poi, nel giudizio di rinvio.

Siffatta preclusione sarebbe invece maturata nella sola ipotesi che questa Corte avesse deciso nel merito il motivo in esame (art. 384 cod. proc. civ., comma 2), definendo, in parte qua, la controversia.

La medesima eccezione di giudicato è stata infine sollevata dai controricorrenti sotto l’ulteriore profilo della mancata impugnazione, da parte dell’Isvap, della sentenza di rinvio 2064/2008 della Corte d’appello di Roma.

L’argomentazione di corredo – a dire il vero non sempre chiara – invoca il principio logico di non contraddizione; che sarebbe leso ove la rinunzia dell’Edera s.p.a. all’autorizzazione fosse ritenuta, all’esito del giudizio, valida per l’Isvap – acquiescente alla conforme pronunzia del giudice del rinvio – ed invalida per il Ministero.

La tesi non può essere condivisa.

Innanzitutto, appare affatto erroneo rinvenire nel comportamento dell’Isvap un’acquiescenza. E ciò, per l’evidente ragione che la parte era risultata vittoriosa nella resistenza all’azione di danni.

La Corte d’appello di Roma ha infatti scisso la sua posizione di autore di attività istruttorie, meramente propedeutiche e strumentali, rispetto a quella del Ministero dello Sviluppo, cui solo è stato imputato il comportamento illecito pregiudizievole.

L’ipotetico ricorso per cassazione dell’Isvap sarebbe stato quindi inammissibile, per carenza di interesse (art. 100 cod. proc. civ.).

Nè vale dire che anche nei suoi confronti era stata accolta la tesi della carenza di potere nell’emissione del decreto di liquidazione coatta amministrativa: trattandosi di questione che costituiva solo un passaggio intermedio, funzionale all’accertamento finale del danno imputabile e, come tale, inidonea a configurare una soccombenza, sia pure parziale.

Ma al di là di tale rilievo, è la tesi di fondo della vincolatività definitiva della decisione del giudice del rinvio per tutte le parti a non apparire fondata.

Il principio di non contraddizione, cui essa pretende di ancorarsi, non ha infatti valenza assoluta nel campo processuale.

Anche a prescindere, in sede concettuale, dall’esistenza, di forme di logica diverse da quella formale (ad es., la c.d. logica deontica), l’assioma anzidetto vige solo in taluni settori del sistema giuridico.

Certamente, nel processo penale: ove l’accoglimento di un’impugnazione per ragioni oggettive giova anche al coimputato che, pure, abbia fatto acquiescenza alla sentenza di condanna (art. 587 cod. proc. pen.). Altresì, nei giudizi di impugnazione di atti (soprattutto, ma non solo, provvedimenti amministrativi) – la cui pronuncia di annullamento ha effetto ultra partes. Non senza notare, peraltro, che nel primo caso l’efficacia estensiva è solo unidirezionale (in favore, e non anche contro il coimputato); e nel secondo è connaturale alla natura di atto con destinazione plurisoggettiva, di cui non potrebbe predicarsi, al contempo, la validità e l’invalidità. Ma per l’appunto, lungi dall’essere intervenuto, nella specie, un giudicato di annullamento del decreto di liquidazione coatta amministrativa 29 Luglio 1997, è accaduto il contrario, per effetto del rigetto dell’impugnativa ad opera del giudice amministrativo; che, seppur non preclusiva della distinta azione di danni svolta da singoli soggetti in sede civile per carenza di potere della P.A., esclude che possa parlarsi di caducazione erga omnes, del provvedimento ministeriale.

Nel processo civile, vige, per contro, il canone della piena indipendenza dei rapporti giuridici individualmente dedotti, fuori di specifiche fattispecie legali (ad es., ex art. 2378 cod. civ.): come confermato proprio dalla disciplina in tema di responsabilità solidale (art. 1306 cod. civ.), in cui il rischio di contraddittorietà delle decisioni può essere solo attenuato mediante gli istituti processuali della connessione e della riunione di cause, ma non eliso in radice.

E comunque, in nessun caso il comportamento processuale di una parte acquiescente ad una pronuncia sfavorevole potrebbe pregiudicare l’autonomo diritto di impugnare di altra parte, pure soccombente.

Anche la seconda eccezione di inammissibilità del ricorso, per omessa indicazione specifica degli atti processuali e dei documenti sui quali ricorso si fonda (art. 366 cod. proc. civ., comma 1, n. 6), è infondata.

Il requisito si applica nei casi in cui sia rilevante, per la disamina delle censure, la verifica di specifici atti processuali o documentali che la Corte di cassazione non può ricercare d’ufficio.

Ma quando il ricorso si compendi unicamente nella critica del contenuto della sentenza, sotto il profilo della violazione di legge o del difetto di motivazione, non v’è alcuna esigenza di richiami specifici, che nulla aggiungerebbero al materiale di causa già acquisito e conoscibile.

Ancora in via pregiudiziale di rito, le parti resistenti eccepiscono l’inammissibilità dei quesiti di diritto formulati in chiusura di vari motivi di entrambi i ricorsi (art. 366 bis cod. proc. civ.).

L’eccezione è infondata.

In effetti, la giurisprudenza di questa Corte non è stata sempre univoca in subiecta materia: passando da un iniziale rigorismo formale, che esigeva, nel quesito finale, il precipitato del motivo nei suoi elementi distintivi e specifici (e plurimis, Cass., sez. 5^, 29 febbraio 2008, n. 5471), ad un indirizzo liberaleggiante – fatto proprio, infine, da Cass., sez. unite, 31 marzo 2009, n. 770 – ammissivo anche del motivo promiscuo, riassunto in una pluralità di quesiti distinti, quali ravvisabili nei ricorsi in esame.

Quanto alla denunziata astrattezza della loro formulazione, si osserva come non incorra in genericità il quesito che, al termine dell’esposizione argomentativa, ne riassuma l’aspetto rilevante giuridicamente: in termini non dissimili, in fondo, da una massima rispetto al contenuto della relativa sentenza.

Respinte tutte le eccezioni pregiudiziali e passando al vaglio delle singole censure, si osserva come con la prima di esse il commissario liquidatore deduca la violazione degli artt. 2364, 2365 e 2375 cod. civile, nonchè la carenza di motivazione nell’omessa rilevazione della nullità della delibera di rinuncia all’autorizzazione amministrativa, in quanto assunta da un’assemblea ordinaria, e non straordinaria. La medesima doglianza è articolata nei primi due motivi del Ministero dello Sviluppo, da trattare quindi congiuntamente, per identità di contenuto.

Al riguardo s’osserva, in via preliminare, che la censura non è preclusa da giudicato, dal momento che la sentenza di cassazione n. 15721/2005 aveva rimesso al giudice del rinvio i vaglio delle questioni rimaste assorbite dalla decisione, e dunque impregiudicate:

tra cui, appunto, la nullità per vizio di forma della delibera medesima. La contraria tesi, ribadita dai controricorrenti anche nella memoria ex art. 378 cod. proc. civile, sotto il profilo del giudicato interno formatosi sulla statuizione della sentenza 6302/2002 del Tribunale di Roma, è smentita, ictu oculi, già dal tenore letterale di quest’ultima; laddove si legge che “l’accertata nullità della rinunzia… rende superfluo l’esame dell’ulteriore profilo di nullità dedotto dei convenuti, relativo alla violazione delle norme che prescrivono per la rinunzia l’adozione della delibera con assemblea straordinaria e non ordinaria…” (pag. 14).

Ciò premesso, il primo motivo del Ministero è sotto altro profilo inammissibile, denunziando quale vizio di motivazione quella che è, all’evidenza, una critica in diritto.

Sotto la concorrente prospettazione ex art. 360 cod. proc. civ., n. 3, la medesima doglianza è priva di pregio.

Per consolidato orientamento di questa Corte, si riscontra nel sottosistema societario l’inversione dei normali principi vigenti in tema di negozio giuridico, secondo i quali l’azione generale impugnatoria è quella di nullità: inversione, espressa nel dettato codicistico, che all’art. 2379 cod. civ., limita le ipotesi di nullità ai soli casi di impossibilità o illiceità dell’oggetto della deliberazione (al cui fondo è ravvisabile un contrasto con norme dettate a tutela di interessi generali), con distacco dalla disciplina negoziale in tema di nullità (art. 1421 cod. civ.). Per contro, l’art. 377 cod. civ., prevede, genericamente, che la sanzione dell’annullamento è prevista in tutti i casi in cui le deliberazioni non siano prese in conformità della legge o dell’atto costitutivo, restando soggetta ad un breve termine di decadenza, per l’esigenza di garantire alle decisioni societarie una maggiore stabilità e con legittimazione limitata ai soci assenti e dissenzienti, agli amministratori e ai sindaci; e non pure ai terzi, quali, nella specie, il Ministero dello Sviluppo Economico ed il commissario liquidatore (Cass., sez. 1^, 15 Novembre 2000 n. 14799).

Ciò premesso, la delibera di rinunzia all’autorizzazione amministrativa non modificava l’atto costitutivo in alcuno dei suoi elementi essenziali e non richiedeva quindi l’assemblea straordinaria (art. 2365 cod. civ., comma 1); bensì poneva la società in uno stato di quiescenza, propedeutica alla fase di liquidazione. Non diversamente, in pratica, dalla mera inattività di fatto, quale riscontrabile, nella prassi, pure in ipotesi ordinarie di vendita o affitto dell’unica azienda.

E’ appena il caso di osservare, per completezza d’analisi, che anche ove si ritenga che essa desse luogo, illico et immediate, allo scioglimento della società, per sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale (art. 2484 cod. civ., comma 1, n. 2), si tratterebbe, pur sempre, di un effetto automatico, ope legis:

suscettibile, come tale, di mero accertamento dichiarativo da parte degli amministratori, tenuti a procedere alla conseguente iscrizione presso l’Ufficio del Registro delle Imprese (art. 2484 c.c., comma 3 e art. 2485 cod. civ.); senz’alcun passaggio assembleare: necessario solo in caso di modificazione dell’oggetto sociale in virtù di riconversione in altra attività commerciale o nell’ipotesi alternativa di nomina dei liquidatori (art. 2487 cod. civ.).

In ultima analisi, la rinunzia all’autorizzazione integrava una decisione improduttiva, di per sè sola, di effetti esterni – non venendo in discussione, nel caso in esame, la prosecuzione illecita di attività assicurativa – suscettibile tuttora di revoca dalla stessa assemblea, prima che giungesse a conoscenza delle amministrazioni. Conclusione, avvalorata dal dato normativo speciale, secondo cui per le imprese di assicurazione, a differenza che per le banche, l’autorizzazione dell’Istituto per la Vigilanza è condicio juris per l’esercizio concreto dell’attività; e non pure, per la costituzione della società ex art. 2329 cod. civ., n. 3. Come si evince dal D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 174, art. 7, comma 4 (Attuazione della direttiva 92/96/CEE in materia di assicurazione diretta sulla vita) e D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 175, art. 9, comma 4 (Attuazione della direttiva 92/49/CEE in materia di assicurazione diretta diversa dall’assicurazione sulla vita): di tenore diverso, sotto il profilo in esame, rispetto all’art 14 (Autorizzazione all’attività bancaria), D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, commi 1 e 3 (Testo unico bancario), che assegna invece all’autorizzazione della Banca d’Italia natura di presupposto legale per la stessa iscrizione nel Registro delle Imprese.

La seconda, articolata censura della procedura concorsuale, concernente la violazione degli artt. 1334, 1343 e 2379 cod. civ. e del D.Lgs. n. 175 del 1995, artt. 61, 62 e 65, va trattata congiuntamente con i motivi nn. 3 – 6 del ricorso del Ministero, di analogo contenuto.

Le doglianze si basano, innanzitutto, sull’asserita natura recettizia e sulla conseguente inefficacia della delibera di rinunzia, perchè comunicata dopo la revoca dell’autorizzazione e la messa in stato di liquidazione coatta amministrativa; e sotto altra prospettazione, sull’illiceità della causa sottostante all’atto abdicativo, per contrasto con il divieto di atti dispositivi intimato dall’Isvap, ai sensi del D.Lgs. n. 175 del 1995, artt. 61 e 62.

In ordine al primo punto, le parti si attardano a sostenere, rispettivamente, la natura recettizia, o no, sul presupposto implicito che sia tuttora sub judice il criterio della prevenzione.

La questione è peraltro preclusa, in limine, dall’accertamento irrevocabile di cui ha già dato esplicitamente atto questa Corte con la sentenza n. 15721/2005 (“Ed allora la sussistenza materiale della delibera contenente ratto di rinuncia della società, nonchè l’anteriorità di questa rispetto al provvedimento di revoca 29 luglio 1997 non possono essere più esaminate e rimesse in discussione dal giudice di merito…”). Preclusione, seguita alla precedente statuizione delle sezioni unite, in sede di regolamento preventivo di giurisdizione (sent. 4/1999), che aveva, a sua volta, dato per “pacifico e non contestato che al momento dell’emanazione del decreto ministeriale, la dichiarazione di rinunzia all’autorizzazione all’esercizio dell’attività assicurativa e riassicurativa era stata non solo manifestata, ma era pervenuta al Ministero dell’Industria”: premessa fattuale della dichiarata giurisdizione del giudice ordinario, pur in presenza di un provvedimento di revoca, di accertata posteriorità temporale.

Ma anche sotto il secondo profilo, la censura è infondata.

Va premessa, al riguardo, l’infondatezza dell’avversa eccezione di giudicato, preclusiva della disamina; dal momento che la sentenza n. 632/2002 del Tribunale di Roma che aveva rigettato le domande attrici (quella dei soci, addirittura per carenza di legittimazione attiva) non aveva bisogno di impugnazione specifica dalle amministrazioni vittoriose, bensì solo della riproposizione, in sede di resistenza all’altrui gravame, dell’eccezione non accolta di nullità della rinunzia per contrarietà al divieto di atti dispositivi (art. 346 cod. proc. civ.). Riproposizione, di cui da atto la sentenza 13 aprile 2004 della Corte d’appello di Roma, riaffermativa dell’assorbimento della predetta eccezione, alla luce del rigetto, per ragioni poziori, del gravame principale.

Seppur impregiudicata, la doglianza è peraltro inaccoglibile.

Nonostante l’erroneità della qualificazione disciplinare adottata dal giudice del rinvio – a dire il vero, enigmatica – della responsabilità degli amministratori per violazione del divieto di atti di disposizione loro intimato dall’Isvap, si osserva che l’efficacia provvisoria di tale misura cautelare era venuta meno per effetto dell’invalidità radicale del successivo provvedimento di revoca in carenza di potere, cui era funzionalmente coltegata.

Inoltre, gli atti dispositivi inibiti riguardavano i beni costituenti la garanzia patrimoniale (art. 2740 cod. civ.), che non annoverava, certo, l’autorizzazione all’esercizio dell’attività assicurativa:

non solo in quanto insuscettibile di espropriazione forzata, ma anche perchè destinata, comunque, a venir meno per effetto della revoca in itinere, divisata dal Ministero già al momento della cautela inibitoria.

Con l’ultimo motivo il commissario liquidatore denunzia la violazione dell’art. 2909 cod. civ., in relazione ai principi regolatori del giudicato; nonchè, degli artt. 393 e 112 cod. proc. civ. e art. 2379 cod. civ.. Doglianza analoga solleva il Ministero della Sviluppo Economico, con il settimo ed ottavo motivo, che devono essere quindi trattati contestualmente.

Le censura esige una risposta articolata.

In via preliminare, si deve negare fondamento all’eccezione di preclusione ob rem judicatam anche in questo caso opposta dalle parti resistenti. Come già chiarito, nessun giudicato sulla validità della delibera si è infatti formato in conseguenza dell’omessa impugnazione delle sentenze di merito, di primo e secondo grado, da parte delle amministrazioni vittoriose. Ne discende che il giudice del rinvio era ancora tenuto ad esaminare se la delibera in questione fosse nulla per uno dei vizi invalidanti previsti dall’art. 2379 cod. civ.; una volta esclusa, dalla stessa sentenza di cassazione, l’applicazione della disciplina generale in tema di invalidità del contratto, per illiceità del motivo (artt. 1345, 1418 cod. civ.), ratio deciderteli della sentenza cassata.

Nel merito, la censura si palesa, peraltro, infondata.

Si è già detto dell’inidoneità della misura cautelare inibitoria di atti di disposizione a concretare, sia pur mediatamente, la norma imperativa invalidante. Esclusi altresì il motivo illecito e lo scopo elusivo, per la ricordata inapplicabilità dei vizi del negozio giuridico (a prescindere dalla verifica, nella specie, dei relativi presupposti di fatto), l’allegazione di nullità resta sprovvista di alcun appiglio normativo. Ed in effetti, il mero atto abdicativo ad una situazione giuridica disponibile non si presta, in tesi generale, ad un sindacato di nullità oggettiva per illiceità, e tanto meno per impossibilità, disancorato dalla ricerca delle finalità soggettive che ne ispirassero l’adozione.

Passando ora al vaglio dei residui motivi del ricorso del Ministero dello Sviluppo Economico, va preliminarmente ribadita l’infondatezza dell’eccezione pregiudiziale di giudicato che fa leva sulla mancata costituzione del Ministero nel precorso giudizio di legittimità, conclusosi con la sentenza di cassazione e rinvio n. 15721/2005.

Come già statuito in ordine a motivi diversi contrastati con analoga eccezione, il Ministero, interamente vittorioso in entrambi i gradi di merito, non aveva alcun onere di ricorrere, nemmeno in via incidentale, per far salve eccezioni e difese prospettate alternativamente e assorbite dalla pronunzia di integrale rigetto delle altrui domande. In assenza di una norma corrispondente all’art. 346 cod. proc. civ., il ricorso incidentale si sarebbe reso necessario (ed ammissibile) solo in caso di mancato accoglimento di un’eccezione autonoma ed esterna alle domande decise (ad esempio, di difetto di giurisdizione: Cass., sez. unite, 16 ottobre 2008 n. 25.246).

Per contro, il rinvio alla corte territoriale ha delineato chiaramente il thema decidendum impregiudicato e bisognoso di un nuovo giudizio, con salvezza di deduzioni e difese hinc et inde, salvo l’ovvio divieto di proporre questioni nuove (art. 394 cod. proc. civ., comma 3), come da interpretazione costante ed incontroversa della giurisprudenza di legittimità.

Ancora in via pregiudiziale, i controricorrenti, eccepiscono l’inammissibilità di tutte le doglianze del Ministero, per carenza di interesse, in quanto relative a questioni deducibili solo dall’Isvap, che ha invece omesso di impugnare la sentenza di rinvio.

L’eccezione, di portata onnicomprensiva, è manifestamente destituita di fondamento.

La violazione del D.Lgs. n. 175 del 1995, art. 65, comma 3, del D.Lgs. del 1995, costituisce la causa petendi dell’azione risarcitoria e a fortiori della domanda di accertamento dell’inesistenza della procedura concorsuale, proposte nei confronti del Ministero, quale autore del relativo provvedimento in carenza di potere. Ne consegue che quest’ultimo era legittimato, oltre che sorretto da un evidente interesse, ad opporre tutte le eccezioni e difese tese a confutare i presupposti dell’illecito aquiliano.

Nel merito, si osserva che il nono, decimo e undicesimo motivo riguardano, ancora una volta, la falsa applicazione dell’art. 384 cod. proc. civ., per la ritenuta preclusione da giudicato della questione della nullità della delibera di rinunzia e per omessa pronuncia sull’illiceità per frode alla legge del contenuto della delibera, pur astrattamente lecito: censure, tutte, assorbite dalle statuizioni precedenti.

Anche il dodicesimo motivo, di contenuto promiscuo, ricomprende critiche in gran parte vagliate.

Si è già esclusa la doverosità dell’assemblea straordinaria sull’ordine del giorno concernente la delibera di rinuncia all’attività assicurativa; e va ribadito che la carenza di potere della Pubblica amministrazione di disporre la liquidazione coatta amministrativa dipende dalla formula letterale del D.Lgs. n. 175 del 1995, art. 65, comma 3, nell’interpretazione fornitane da Cass. sez. unite 4/1999 e confermata poi da Cass. 19 ottobre 2006 n. 22942 e da Cassazione civile, sez. 1^, 19/10/2006, n. 22493, che costituisce, ormai, diritto vivente.

Con i motivi nn. 13 e 14, da trattare congiuntamente per affinità di contenuto, il Ministero deduce la violazione dell’art. 2043 cod. civ., nonchè il difetto di motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità della Pubblica amministrazione senza la previa disamina dell’elemento psicologico del dolo o della colpa grave; come pure in relazione alla ritenuta sussistenza del nesso eziologico tra la liquidazione coatta amministrativa ed il danno subito. Entrambe le censure sono fondate. Al riguardo, appare opportuno invertire l’ordine di trattazione, stante la natura prioritaria dell’accertamento del pregiudizio e della sua riconducibitità alla condotta ministeriale, in cui si compendia l’elemento oggettivo della fattispecie aquiliana.

Per quanto la domanda di condanna generica non esiga l’assoluta certezza di un danno risarcibile, pure, occorre la prova piena di un fatto potenzialmente lesivo: requisito indefettibile, legato ai positivo accertamento del nesso di causalità ed. materiale, ex art. 40 cod. pen. (Cass., sez. 3^, 11 Febbraio 2009, n. 3357), al cui esito favorevole resta salva, nella successiva fase sul quantum, la disamina del nesso di causalità ed. giuridica, ex art. 1223 cod. civ..

Sul punto, dev’essere subito chiarito che il danno contra jus non è, neppure in astratto, riconducibile sic et simpliciter all’apertura della procedura concorsuale – come se di essa fosse altresì accertato il difetto dei presupposti sostanziali dell’irregolare gestione e dello squilibrio economico – ma solo alla nullità procedimentale derivante dalla falsa applicazione del D.Lgs. n. 175 del 1995, art. 65, circoscritto alla materia dell’assicurazione: non essendo, per contro, seriamente contestabile la perdurante applicabilità della legge fallimentare in tema di dichiarazione di insolvenza (L. Fall., artt. 195 e 202), e delle correlate conseguenze concorsuali e penali (L. Fall., art. 203).

I limiti dell’accertamento dell’invalidità del provvedimento ministeriale devono essere accuratamente messi a fuoco, giacchè i controricorrenti elevano, con tutta evidenza, a categoria assoluta la carenza di potere della P.A. a seguito della rinunzia all’autorizzazione e ne fanno discendere l’automatica risarcibilità del danno, prescindendo dal sostrato di fatto che aveva determinato l’intervento dell’Isvap, e poi del Ministero, mediante ispezioni e addebito di infrazioni. Con una doppia semplificazione, quindi, che travisa le premesse della ritenuta illegittimità del decreto di liquidazione coatta amministrativa: da ricondurre invece, all’iter procedurale seguito in applicazione del D.Lgs. n. 175 del 1995, ivi contestualmente richiamato.

Non è, innanzitutto, esatto che il potere-dovere di vigilanza e sanzione della P.A. fosse venuto meno in radice, per effetto della preclusione del potere di revoca dell’autorizzazione D.Lgs. n. 175 del 1995, ex art. 65: risultando tuttora attribuito dall’art. 71 (Liquidazione coatta per insufficiente copertura delle riserve matematiche), art. 72 (Liquidazione coatta per inosservanza delle disposizioni del Testo unico e del Regolamento) e 80 (Provvedimenti per la liquidazione. Vigilanza) del D.P.R. 13 febbraio 1959, n. 449 (Testo unico delle leggi sull’esercizio delle assicurazioni private), all’epoca vigente, perchè abrogato solo dal D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 354 (Codice delle Assicurazioni private). Tali norme consentivano all’allora Ministero dell’Industria e del Commercio di promuovere autonomamente, per decreto del Presidente della Repubblica, la liquidazione coatta amministrativa dell’impresa inadempiente, anche a prescindere dalla previa revoca dell’autorizzazione amministrativa.

Ciò premesso in sede dogmatica, si osserva come sia mancata, del tutto, la prova del danno ingiusto sia per la società, sia per i soci.

Per la prima, non si può neppure ipotizzare un lucro cessante, dal momento che l’interruzione dell’attività commerciale assicurativa non è dipesa dalla revoca dell’autorizzazione, bensì, a monte, dalla rinunzia potestativamente deliberata dall’assemblea dell’Edera s.p.a. in epoca anteriore.

In ordine al danno emergente, le parti attrici e intervenute non hanno addotto neppure un fumus del minor ricavo conseguito o conseguibile alla liquidazione concorsuale in atto, rispetto ad eventuali alternative, non venute alla luce solo per le modalità pubblicistiche seguite: ferma l’inammissibilità di una sorta di praesumptio hominis, non bisognosa di alcuna dimostrazione, del carattere più oneroso e svantaggioso connaturale alla liquidazione coatta amministrativa, rispetto alla vendita privata dei cespiti patrimoniali, discrezionalmente rimessa agli organi della società.

E ciò, anche a prescindere dal vantaggio economico beneficiato proprio dall’apertura della procedura concorsuale, rappresentato dall’intervento del Fondo di Garanzia delle Vittime della Strada in favore dei creditori involontari, destinati altrimenti a rimanere insoddisfatti (L. 24 dicembre 1969, n. 990, artt. 19 e 25, all’epoca vigente).

Ma neanche la potenzialità del danno non patrimoniale può considerarsi dimostrato.

Se la carenza di potere della P.A. è dipesa dal mancato rispetto di una specifica norma procedimentale, non per questo perdevano ipso jure di valore gli addebiti sostanziali mossi in sede di ispezione dall’Isvap, all’origine dei successivi provvedimenti ministeriali.

Per potersi parlare, quindi, di un danno all’immagine, occorreva la prova dell’infondatezza ed arbitrarietà delle contestazioni mosse sulla gestione della società, sulla base di un’attendibile valutazione prognostica della capacità di soddisfare puntualmente le obbligazioni derivanti dalla pregressa attività.

E’ vero che in più riprese la compagnia ha lamentato il carattere vessatorio di tali rilievi; ma, per l’appunto, si è trattato di mera affermazione, non sorretta da alcuna concreta prova in tal senso.

A ciò si aggiunga che la sentenza del giudice di rinvio ha perfino escluso la possibilità di delineare i termini del danno lamentato dall’Edera s.p.a., a causa della non reperibilità in atti dell’originaria comparsa di intervento. Benchè tale statuizione risulti espressa in sede di disamina dell’istanza di provvisionale, la sua portata, per quanto risulta dal testo, va al di là di tali limiti, investendo in modo radicale l’onere della prova dello stesso pregiudizio, pur nei limiti propri di una condanna generica.

Per i soci e le altre parti intervenute va, poi, negata in linea di principio la stessa titolarità del credito risarcitorio, spettante, in ipotesi, alla sola società (Cass., sez. unite 24 Dicembre 2009, n. 27346). Nè la precedente sentenza di cassazione e rinvio aveva affermato il contrario, essendosi limitata ad affrontare la questione, di natura puramente processuale, della legitimatio ad causam, negata dal giudice d’appello. E sotto questo limitato profilo l’aveva dichiarata, invece, sussistente sulla base della mera prospettazione formale della domanda, con la spendita della qualità di soci, titolari di un diritto alla quota sociale e dunque astrattamente interessati al corretto e regolare svolgimento della fase di liquidazione. Affermazione, peraltro, di portata generale ed astratta, evidentemente diversa dal riconoscimento concreto della titolarità sostanziale di un credito risarcitorio già accertato, nel merito, in tutti i suoi elementi costitutivi, oggettivo e soggettivo (art. 384 cod. proc. civ., comma 2). E del resto, la successiva sentenza del giudice del rinvio ha dichiarato ormai preclusa l’eccezione di difetto di legittimazione degli appellanti, ribadendo che si trattava della legitimatio ad causam, distinta dalla questione di merito, al suo esame, dell’appartenenza del diritto controverso.

E’ appena il caso di aggiungere che, comunque, anche per i soci e gli altri soggetti attori o intervenuti, vale, a fortiori, il difetto di prova, seppur inevitabilmente espressa in termini probabilistici, del danno ingiusto; presupponente la prognosi di un riparto di utili all’esito dell’eventuale liquidazione volontaria del patrimonio sociale, se interamente capiente per la soddisfazione dei crediti vantati dai terzi. Conclusione, avvalorata dal diniego, da parte della corte territoriale, della condanna al pagamento di una provvisionale, motivato proprio con l’indimostrata differenza tra gli utili eventualmente residuati dalla liquidazione coatta e quelli ricavabili dalla liquidazione volontaria.

L’accertamento negativo del pregiudizio risarcibile è, di per sè, dirimente e preclusivo della pretesa risarcitoria.

Non è, peraltro, superfluo aggiungere, per completezza di analisi, che la sentenza impugnata appare altresì manchevole in ordine alla motivazione dell’elemento psicologico dell’illecito aquiliano, che non poteva certo considerarsi in re ipsa.

E’ infatti jus receptum che, nel caso in cui venga introdotta dinanzi al giudice ordinario una domanda risarcitoria ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., nei confronti della Pubblica amministrazione per illegittimo esercizio della funzione pubblica, il giudice deve accertare la sussistenza dell’evento dannoso, la sua qualificazione come ingiusto, il nesso eziologico e l’elemento psicologico del dolo o colpa grave: non essendo sufficiente, al riguardo, il mero dato oggettivo dell’illegittimità del provvedimento quand’anche questo sia stato (come non è stato, nella specie) annullato dal giudice amministrativo (Cass., sez. 3^, 27 maggio 2009 n. 12.282; Cass., sez. 3^, 4 luglio 2006, n. 15.259).

Nella specie, tale indagine è stata omessa dalla Corte d’appello di Roma: sia in ordine alla colpa del Ministero – nel non riscontrare, in punto di fatto, l’effettività dell’altrui rinuncia, in relazione alle modalità di assunzione e di comunicazione ( che dovevano essere tali, da impedire ogni dubbio sull’autenticità e sull’esatto contenuto della deliberazione) – sia nell’interpretare la norma di cui al D.Lgs. n. 175 del 1995, art. 65: la quale, prima del formarsi del diritto vivente sull’antinomia tra diritto di rinunzia e potere di revoca, non poteva certo dirsi – con valutazione doverosamente ex ante – di lettura univoca e necessitata. Tanto meno alla luce della direttiva CE, di cui era diretta attuazione, di tutt’altro tenore, come si dirà appresso; che, provenendo da una fonte sovraordinata di produzione, non poteva essere negletta dalla Pubblica Amministrazione, in sede ermeneutica.

Con gli ultimi due motivi – tuttora rilevanti in ordine al ricorso avverso la dichiarazione di inesistenza della procedura di liquidazione coatta amministrativa – il Ministero dello Sviluppo economico deduce, rispettivamente, l’omessa valutazione della contrarietà alla normativa comunitaria dell’esenzione dalla procedura concorsuale di liquidazione coatta amministrativa in caso di rinunzia all’esercizio dell’attività assicurativa, nonchè la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e dell’art. 274 del Trattato CE, nel disattendere l’istanza di rimessione della relativa questione comunitaria alla Corte di giustizia della Comunità europea.

La prima delle due doglianze è inammissibile, in quanto prospettata come vizio di motivazione di una statuizione di puro diritto.

La seconda esige, invece, una risposta articolata.

Al riguardo, deve essere prioritariamente scrutinata la contraria eccezione di inammissibilità, argomentata con la natura chiusa del giudizio di rinvio, preclusiva della posizione di un dubbio di legittimità dell’atto normativo applicato. A titolo analogico, viene addotta, a conforto, la giurisprudenza di questa Corte che esclude – peraltro, non senza contrasto – la rilevabilità della questione di costituzionalità della legge nel grado di rinvio (Cass., sez. lav. 9 Aprile 2004, n. 6986; Cass., sez. 1^, 27 Settembre 2002, n. 14022. In senso contrario: Cass., sez. 1^, 21 Dicembre 2007, n. 27082).

L’eccezione è infondata.

E’ principio reiteratamente affermato nella giurisprudenza della Corte di giustizia CE che il diritto comunitario osta perfino all’applicazione dell’art. 2909 cod. civ., ove il principio di autorità della cosa giudicata impedisca al giudice nazionale di prendere in considerazione norme comunitarie eventualmente violate, consacrando, in tal modo, un risultato contrastante con esse e frustrandone l’applicazione anche in settori diversi da quello degli aiuti di Stato (Corte di giustizia CE, sez. 2^, 3 Settembre 2009, n. 2, Agenzia delle Entrate e, fallimento Olimpiclub s.r.l.; Corte di giustizia CE 18 luglio 2007, n. 119, Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato e, Lucchini s.p.a.).

A fortiori, inefficace ad impedire la verifica della conformità ai principi comunitari è una preclusione endoprocessuale, suscettibile di rendere impossibile l’applicazione del diritto comunitario (Corte di giustizia 14 dicembre 1995, n. 312, Peterbroeck, Van Campenhout &

Cie SCS e, Stato belga).

Siffatte deviazioni dalle ordinarie regole processuali dipendono dalla subordinazione del diritto comunitario al diritto nazionale;

resa esplicita dalla stessa Costituzione, che all’art. 117, comma 1, nel testo novellato dalla riforma del 2001, dispone che lo Stato e le regioni esercitano la potestà legislativa “nel rispetto dei vincoli comunitari”. Ed è ormai jus receptum che per diritto comunitario si intendano non soltanto i regolamenti e le direttive tese all’armonizzazione del diritto degli Stati membri (che, se dettagliate, sono direttamente applicabili, pur in assenza di legge attuativa interna: Corte costituzionale 22 luglio 1976, n. 182), ma altresì le sentenze emanate dalla Corte di giustizia CE, cui è riconosciuta efficace vincolante, oltre che per i giudici, perfino per i legislatori nazionali.

Nel merito, è vero che la direttiva 8 Giugno 1992 n. 49 aveva lasciato ai legislatore nazionale la scelta fra le due opzioni della decadenza o della revoca, in presenza di rinunzia all’autorizzazione all’attività assicurativa; ma pur sempre nel rispetto degli obiettivi di rigoroso controllo di legalità e di corretta gestione delle compagnie, che venivano ad essere autorizzate da un singolo Stato e abilitate all’esercizio commerciale nell’intera Comunità europea.

Occorre anzi rilevare, in sede concettuale, come la scelta della decadenza, nello spirito informatore della fonte comunitaria, risultasse perfino più rigorosa, in quanto effetto automatico, ope legis, al verificarsi di eventi anomali della vita sociale.

Al riguardo, è sufficiente la lettura del diffuso preambolo della direttiva 92/49/CE, articolato in ben 33 considerando, per enucleare gli interessi protetti e le procedure richieste per dare concreta attuazione alla loro tutela.

In particolare, dopo aver reso esplicito l’intento del riavvicinamento dei mercati nazionali in un unico mercato integrato nel campo assicurativo, il terzo considerando si chiude con l’esigenza di garantire a tutti i contraenti un livello adeguato di tutela; il quinto mette a fuoco l’obiettivo dell’armonizzazione necessaria ad ottenere il reciproco riconoscimento delle autorizzazioni e dei sistemi di controllo prudenziale; il sesto consente l’accesso all’attività assicurativa subordinatamente alla concessione di un’unica autorizzazione amministrativa.

A tali facilitazioni fanno da contrappunto i richiami reiterati alla vigilanza, devoluta allo Stato-membro di origine, sulla situazione finanziaria, e in particolare sulla solvibilità (settimo considerando); nonchè all’obbligo degli Stati-membri di disporre di mezzi di controllo necessari ad assicurare l’esercizio ordinato delle attività dell’impresa di assicurazione, adottando appropriate misure di salvaguardia, o imponendo sanzioni volte a prevenire irregolarità ed infrazioni eventuali alle disposizioni in materia di controllo delle assicurazioni (nono considerando).

Ma soprattutto il preambolo della direttiva 92/49 ha cura di sottolineare il carattere minimale delle disposizioni dettate, passibili di deroga dallo Stato-membro in senso vieppiù restrittivo (ottavo considerando). Enunciazioni, tutte, che prefigurano in modo inequivoco la ratio della direttiva, puntualmente riflessa nell’articolato normativo: in particolare, nell’art. 11, comma 3 (“Ogni Stato membro adotta tutte le disposizioni utili affinchè le autorità competenti dispongano dei poteri e dei mezzi necessari per la sorveglianza dell’attività dell’impresa di assicurazione…Questi poteri e mezzi devono in particolare consentire alle autorità competenti:… di prendere nei confronti dell’impresa, dei dirigenti responsabili o delle persone che controllano impresa tutti provvedimenti appropriati necessari per garantire che le attività dell’impresa siano conforme alle disposizioni legislative… di assicurare l’applicazione di tali misure, se necessario, mediante esecuzione coattiva”).

Si deve dunque concludere che lettera e spirito informatore della direttiva non sono state trasfuse correttamente nel D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 175. La carenza emerge evidente dalla dizione dell’art. 69 (Effetti della decadenza e della revoca dell’autorizzazione), in cui il potere ministeriale di assoggettare a liquidazione coatta amministrativa l’impresa è ancorato anche alla decadenza, ma solo nell’ipotesi specificamente indicata dall’art. 65, comma 1, lett. D) di dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza. Poichè tale presupposto può maturare, peraltro, in qualsiasi momento della vita societaria – e quindi anche successivamente alla rinunzia all’autorizzazione, nel corso della fase di liquidazione volontaria della società – la relazione d’incompatibilità, nel contesto specifico del D.Lgs. n. 175 del 1995, art. 65, tra diritto soggettivo alla rinunzia e perdurante attività di controllo e di intervento autoritativo del Ministero, affermatasi nel diritto vivente di questa Corte, appare portato dissonante di un’imperfetta stesura della fattispecie da parte del legislatore delegato, in sede di attuazione della direttiva: dissonanza, non addebitabile alla Legge Delega 22 febbraio 1994, n. 146 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee), che all’art. 18, lett. d), si limitava ad optare per l’effetto decadenziale dell’autorizzazione, senza prefigurare un diritto soggettivo alla rinunzia contrapposto al potere di revoca della P.A.:

come dimostrato dalla contestuale inclusione dell’ipotesi di mancato esercizio dell’attività per un periodo superiore a sei mesi, significativa, piuttosto, dì una decadenza sanzionatoria.

Che peraltro tale sbocco normativo non fosse l’espressione di una conforme mens legis è dimostrato dal successivo intervento di cui al D.Lgs. 13 ottobre 1998, n. 373, con cui il legislatore nazionale ha cercato di porre rimedio alla vistosa aporia, senza soluzione di continuità applicativa, sotto il sembiante di un’interpretazione autentica.

Per contro, il testo della direttiva neppure menziona i soci della compagnia assicurativa ed il loro interesse particolare alla prosecuzione dell’attività; o, come nel caso in esame, allo scioglimento volontario della società, in antitesi al provvedimento autoritativo della Pubblica amministrazione.

Semplicemente, tale prospettiva è estranea alla fonte comunitaria.

Si porrebbe quindi, una questione pregiudiziale interpretativa dinanzi alla Corte di giustizia CE. Tuttavia, in concreto, tenuto conto dell’esito della controversia, con il rigetto della domanda risarcitoria, nonchè dell’incidenza circoscritta del diritto intertemporale (fino all’emendamento correttivo della norma, appena tre anni dopo, con il D.Lgs. 13 ottobre 1998, n. 373), che non lascia fondatamente prefigurare un’ulteriore casistica giudiziaria, viene a mancare l’interesse pubblico a sollevare la questione: tanto più, che lo stesso D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 175, non priva del tutto la Pubblica amministrazione di poteri di controllo, subordinando all’approvazione dell’Isvap la nomina dei liquidatori in caso di scioglimento volontario della società (art. 70).

Il ricorso del commissario liquidatore deve essere quindi rigettato;

mentre va accolto, nei sensi di cui in motivazione, il ricorso del Ministero dello Sviluppo Economico.

Per l’effetto, la sentenza impugnata va cassata e, decidendosi nel merito, devono essere rigettate e domande risarcitorie.

In considerazione della straordinaria complessità della controversia e della disputabilità della problematica interpretativa dei testi di legge applicati, comprovata anche dall’esito difforme nei vari gradi di giudizio, sussistono giusti motivi per l’integrale compensazione delle spese dell’intero processo fra il Ministero dello Sviluppo Economico e le parti controricorrenti nel ricorso n. 338/2009 e la compensazione delle spese della fase di legittimità tra l’Edera- Compagnia Italiana di Assicurazioni s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa e le parti controricorrenti nel ricorso n. n. 30180/2008.

P.Q.M.

– Accoglie il ricorso n. 338/2009 del Ministero dello Sviluppo Economico nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e, decidendo nel merito, rigetta le domande risarcitorie;

– Rigetta il ricorso n. 30180/2008 dell’Edera Compagnia Italiana di Assicurazioni s.p.a. in liq. coatta amm.;

– Compensa le spese di tutti i gradi di giudizio fra il Ministero delle Attività Produttive e le parti controricorrenti nel ricorso n. 338/2009 e le spese della fase di legittimità tra l’Edera-Compagnia Italiana di Assicurazioni s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa e le parti controricorrenti nel ricorso n. 30180/2008.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2011

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