Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4677 del 21/02/2020

Cassazione civile sez. trib., 21/02/2020, (ud. 17/12/2019, dep. 21/02/2020), n.4677

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1482/2013 R.G. proposto da

I.C., rappresentata e difesa dall’avv. Antonino Bosco,

elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, via Sestio

Calvino, n. 33.

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio

legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato.

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio,

sezione n. 29, n. 271/29/11, pronunciata il 4/10/2011, depositata il

16/11/2011.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 dicembre

2019 dal Consigliere Riccardo Guida.

Fatto

RILEVATO

che:

I.C. ricorre, sulla base di tre motivi, contro l’Agenzia delle entrate, che resiste con controricorso, per la cassazione della sentenza(menzionata in epigrafe) con cui la Commissione tributaria regionale del Lazio, in accoglimento dell’appello dell’ufficio, ha riformato la sentenza di primo grado, che aveva accolto il ricorso della contribuente avverso un avviso di accertamento IRPEF, per il periodo d’imposta 2002, che recuperava a tassazione il maggior reddito di partecipazione ascritto alla contribuente in ragione dell’accertamento del maggior reddito della società a ristretta base partecipativa Vitaldue S.r.l., di cui la contribuente era socia al 20% (mentre, della restante quota dell’80%, fino al luglio 2003, era stato titolare P.F.);

la Commissione laziale ha motivato il rigetto del ricorso della contribuente premettendo che, nella vicenda processuale riguardante l’altro socio ( P.), il giudice d’appello, in riforma della sentenza di primo grado, favorevole al contribuente, aveva confermato il consolidato indirizzo della giurisprudenza, circa la presunzione di attribuzione pro quota, ai soci, degli utili della società, accertati e non contabilizzati; ha aggiunto che, nella presente controversia, la Commissione provinciale aveva accolto il ricorso della contribuente sulla base della mancata allegazione, all’avviso di accertamento diretto alla stessa socia, dell’atto di rettifica destinato alla società Vitaldue S.r.l.; al riguardo, ha osservato che la ricorrente non aveva mai contestato la notifica dell’atto presupposto che, per di più, essa aveva allegato al proprio ricorso introduttivo, dimostrando di esserne a conoscenza; conformandosi alla citata sentenza d’appello, emessa nei confronti del socio di maggioranza P., ha conclusivamente affermato la piena operatività della presunzione della distribuzione pro quota (nella misura del 20%) degli utili a favore della ricorrente, trattandosi di “società a ristretta base azionaria”; (cfr. pag. 2 della sentenza impugnata).

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo del ricorso (a) Violazione e falsa applicazione della ratio di cui all’art. 159 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3, e omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5), la ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere motivato in ordine ai nessi di dipendenza tra l’avviso di accertamento nei confronti della società e l’avviso nei confronti della socia;

il motivo è inammissibile;

la Sezione tributaria di questa Corte (Cass. 27/05/2014, n. 11876), nella sentenza che ha dichiarato inammissibile il ricorso del socio P., alla quale il Collegio intende aderire, in assenza di ragioni ostative, pronunciandosi sull’identico motivo formulato dal detto socio, ha affermato che: “come questa Corte ha chiarito con la sentenza n. 19443/11, in tema di ricorso per cassazione è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse. A tali principi deroga solo l’ipotesi che il motivo comunque evidenzi specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass. 9793/13); ipotesi che, tuttavia, non è ravvisabile nelle concrete modalità di formulazione del motivo in esame, giacchè esso non indica specificamente nè le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le norme che si pretendono violate (Cass. 21659/05, 5076/07, 14832/07 e altre) nè i fatti storici controversi e decisivi su cui sarebbe stata omessa la motivazione (Cass. 2805/11: “Il motivo di ricorso con cui – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, così come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 – si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, deve specificamente indicare il ‘fatto” controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente, dovendosi intendere per ‘fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo.”).”;

con il secondo motivo (b) Omessa e insufficiente motivazione in ordine alla asserita redditività dell’80% del volume d’affari I.V.A., sulla base di semplici presunzioni), la ricorrente censura la sentenza impugnata per il vizio dello sviluppo argomentativo in ordine alla determinazione presuntiva della reddittività del volume d’affari;

il motivo è inammissibile per carenza di autosufficienza;

la censura in esso contenuta poggia su una serie di argomentazioni relative a circostanze di fatto che non emergono dalla sentenza gravata e che, in ricorso, non si precisa se e in quali atti e con quali modalità siano state dedotte dalla contribuente nel corso del giudizio di merito (sul punto, vedi: Cass. 11876/2014);

con il terzo motivo (c) Violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32,41 bis e 42 e omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5), anch’esso riferito promiscuamente al vizio di violazione di legge e al vizio di omessa motivazione, la ricorrente si duole che l’ufficio abbia emesso l’impugnato avviso di accertamento sulla base di presunzioni semplici non assistite dai requisiti di gravità, precisione e concordanza, sulla base della mera mancata esibizione dei libri contabili, non da parte dell’altro socio ed ex amministrazione P., bensì da parte di terzi;

il motivo è inammissibile;

le censure che vi si svolgono attingono l’impugnato avviso di accertamento e non la sentenza gravata (sul punto, vedi: Cass. 11876/2014);

in conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con condanna della ricorrente a rifondere all’Agenzia le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

la Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente a rifondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.300,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2020

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