Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4673 del 22/02/2021

Cassazione civile sez. lav., 22/02/2021, (ud. 11/11/2020, dep. 22/02/2021), n.4673

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARIENZO Rosa – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 786/2019 proposto da:

P.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NIZZA 59,

presso lo studio dell’avvocato AMOS ANDREONI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato GIUSEPPE MAZZINI;

– ricorrente –

contro

FRATELLI D.C. DI F.F.S.M. S.P.A., in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, L.G. FARAVELLI, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato VALERIO

SPEZIALE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 647/2018 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 23/10/2018 R.G.N. 447/18;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/11/2020 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato GIUSPPE MAZZINI;

udito l’Avvocato CESIRA TERESINA SCANU, per delega verbale Avvocato

VALERIO SPEZIALE.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di L’Aquila, con sentenza n. 914/15, ritenne non giustificato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato in data 29 ottobre 2013 dalla soc. F.lli D.C. di F.F.S.M. s.p.a. a P.P.. I giudici di appello, pur riconoscendo che il posto di lavoro era stato effettivamente soppresso, ritennero che l’assunzione poche settimane prima del licenziamento di altro lavoratore con mansioni analoghe, comportando un aumento di organico, fosse in contrasto con la asserita volontà datoriale di riduzione dei costi. In applicazione della c.d. tutela indennitaria forte, riconobbero al P. un risarcimento complessivo di Euro 86.832,36.

2. Sui ricorsi per cassazione proposti da entrambe le parti, questa Corte, con sentenza n. 9127 del 2018, cassò la sentenza impugnata in accoglimento del secondo motivo del ricorso incidentale della società, sulla base dell’osservazione per cui l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore deve necessariamente provare e il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa e non essendo sindacabile, sotto il profilo della congruità ed opportunità, la scelta datoriale di sopprimere un determinato posto di lavoro.

Dichiarò inammissibile per novità il primo motivo di ricorso incidentale della società sul mancato verificarsi della condizione cui sarebbe stata subordinata l’assunzione del P.. Rigettò i primi tre motivi e il quinto motivo del ricorso principale del lavoratore, aventi ad oggetto il rigetto della riqualificazione del licenziamento come discriminatorio e/o ritorsivo, il rigetto dell’eccezione di nullità del licenziamento per assenza di motivazione e della violazione del principio di immodificabilità della contestazione, nonchè il rigetto della domanda risarcitoria per perdita di chance.

Dichiarò assorbiti tutti i restanti motivi del ricorso principale: il quarto vertente sulla richiesta di applicazione di tutela reintegratoria sul presupposto (ancora sub iudice) della manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo; il sesto e il settimo motivo sulla omessa pronuncia in ordine alla violazione dei criteri di selezione indicati dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, anche in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c. (e in via subordinata, sul difetto assoluto di motivazione con riguardo ad un capo di sentenza specificamente impugnato); l’ottavo e il nono motivo per omessa pronuncia sul motivo di impugnazione riguardante la violazione dell’obbligo di repechage (e in via subordinata, sul difetto assoluto di motivazione con riguardo ad una capo di sentenza specificamente impugnato); il decimo e l’undicesimo motivo sulla regolazione delle spese, erroneamente dichiarate compensate.

3. Pronunciando in sede di rinvio, la Corte di appello di L’Aquila, con sentenza n. 647 del 2018, ha rigettato il reclamo proposto da P.P., confermando la pronuncia di illegittimità del licenziamento per sole violazioni procedimentali, con applicazione della tutela indennitaria di cui della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6, come novellato dalla Lege n. 92 del 2012, con condanna del lavoratore alla restituzione del differenziale già erogato in esecuzione della originaria sentenza di appello poi cassata e pari ad Euro 38.250,16 lordi (pari al netto di Euro 29.485,59), maggiorata di interessi legali maturati dalla data del pagamento al saldo.

4. La Corte di appello ha premesso che il ricorrente era stato assunto come “responsabile vendite Retail” per il mercato del Brasile e del Sud America con il compito di provvedere alla vendita diretta in loco dei prodotti commercializzati dalla società, operando da San Paolo del Brasile a diretto contatto con i clienti finali; che dopo il suo licenziamento tale compito venne svolto dal Direttore I.E. a distanza, cioè dalla sede di Pescara, avvalendosi di intermediari; che erano state dimostrate in giudizio sia l’effettività della soppressione della posizione organizzativa rivestita dal P., sia l’assegnazione di parte delle relative mansioni al direttore della divisione export I..

5. Passando ad esaminare i motivi vertenti sull’obbligo di repechage e sulla dedotta violazione del criterio comparativo di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5, la Corte di appello ha argomentato, in sintesi, come segue:

– come osservato dal giudice di primo grado, nulla aveva allegato il P. circa l’esistenza di altre sedi o altri posti rimasti liberi in posizioni e mansioni professionalmente affini o anche inferiori; nè aveva contestato il documento di parte opposta secondo cui vi era una stabile occupazione, nei settori “servizi commerciali” e “direzione export”, di tutte le posizioni organizzative ivi presenti;

– in sede di riassunzione, il P. aveva ribadito che poche settimane prima del licenziamento era stato assunto N.D., lavoratore con analogo curriculum, comparabile profilo professionale ed equivalenti mansioni di vendita all’estero di prodotti della D.C., seppure per diverse aree geografiche e differenti modalità di attuazione;

– tuttavia, possono considerarsi equivalenti a quelle espletate solo le mansioni che, non solo siano oggettivamente comprese nella stessa area professionale e salariale, ma che si armonizzino con la professionalità acquisita dal lavoratore nel corso del rapporto, sì da impedirne la dequalificazione;

– inoltre, l’onere probatorio dell’impossibilità di repèchage posto in capo al datore di lavoro va contenuto entro limiti di ragionevolezza, facendo carico al lavoratore l’onere di allegare circostanze atte a dimostrare l’esistenza nell’ambito della struttura organizzativa di posti di lavoro effettivamente disponibili per mansioni equivalenti e compatibili con la propria professionalità;

– alla luce di tali principi, va affermato che la posizione del P. non poteva essere comparata con quella del N., che era stato assunto per mansioni intrinsecamente diverse, nè con quelle dello I., che ricopriva una posizione apicale nella divisione export, e neppure con quella di G.P., che curava le vendite verso l’Africa e il Medio Oriente;

– d’altra parte, una volta che il datore sia addivenuto alla determinazione di sopprimere una ben individuata posizione organizzativa, non avente equipollenti nell’organico aziendale, non appaiono sussistenti margini per potere individuare posizioni organizzative alternative dove collocare il dipendente in esubero;

– il reclamante non ha specificamente allegato concrete circostanze atte a dimostrare l’esistenza, nell’ambito della struttura organizzativa aziendale, di ulteriori posti di lavoro effettivamente disponibili, per mansioni equivalenti e compatibili con la sua professionalità;

– tenuto conto del già evidenziato differente ruolo ricoperto dal P. e dal N. e della conseguente infungibilità delle rispettive posizioni lavorative, non può essere accolto neppure l’ulteriore motivo secondo cui, quando il giustificato motivo oggettivo si identifichi nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, ai fini del controllo della conformità della scelta dei lavoratori ai principi di buona fede e correttezza di cui all’art. 1175 c.c., non essendo utilizzabile il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere, nè quello della impossibilità di repèchage (appunto per essere le posizioni equivalenti) ben può farsi riferimento, pur nella diversità dei rispettivi regimi, alla L. n. 223 del 1991, art. 5, dettato per i licenziamenti collettivi, prendendo in considerazione in via analogica il criterio dei carichi di famiglia e dell’anzianità;

– in conclusione, va riconosciuta la sussistenza del giustificato motivo oggettivo e, non essendo state allegate dalla società ragioni idonee a ribaltare il giudizio espresso in primo grado in ordine alla violazione della procedura di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, il licenziamento, illegittimo solo sotto il profilo procedurale, va sanzionato ai sensi dell’art. 18, comma 6 della stessa Legge, con applicazione della indennità pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, come riconosciuto dal primo giudice.

6. Per la cassazione di tale sentenza P.P. ha proposto ricorso affidato a due motivi. La società ha resistito con controricorso e memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, in combinato disposto con l’art. 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Censura la sentenza nella parte in cui ha posto a carico del lavoratore gli oneri di allegazione di circostanze atte a dimostrare l’esistenza nella struttura organizzativa di posti di lavoro effettivamente disponibili, ponendosi così in contrasto con la giurisprudenza di legittimità secondo cui (Cass. n. 5592 del 2016) grava sul datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repechage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo del licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo da parte del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente.

Deduce che era così mancato l’accertamento della sufficienza delle prove fornite dal datore di lavoro circa l’assenza dei posti vacanti nella struttura produttiva con riguardo ad ogni sede di essa, comprese quelle estere, dovendosi pure considerare che tale indagine deve comprendere l’intero contesto produttivo, non solo il settore di impiego del lavoratore, e anche in mansioni inferiori (Cass. n. 4500 del 2016 e 22798 del 2016), che devono essere proposte antecedentemente al licenziamento.

2. Con il secondo motivo si censura la sentenza per violazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, in combinato disposto con l’art. 2103 c.c., nonchè con la L. n. 223 del 1991, art. 5 e con gli artt. 1175 e 1375 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), nella parte in cui ha ritenuto infungibile la posizione del ricorrente, facendo coincidere l’equivalenza con l’identità delle modalità esecutive delle mansioni, in violazione dei criteri interpretativi desumibili dall’art. 2103 c.c..

Il ricorrente deduce che il giudizio sull’equivalenza delle mansioni, al fine di verificare l’utilizzabilità da parte datoriale in diverse posizioni lavorative, deve essere formulato mediante un’indagine da compiersi in concreto rispetto alla competenza richiesta e al livello professionale posseduto e raggiunto (Cass. n. 1510 del 2013 e n. 8527 del 2011), senza che rilevi la specifica modalità esecutiva delle mansioni, poichè è il bagaglio professionale valorizzabile l’elemento dirimente per determinare le oggettive possibilità di impiego. Rileva che, diversamente ragionando sulla identità delle modalità di svolgimento delle mansioni, non vi sarebbe spazio per il controllo giudiziale sull’oggettività del corretto esperimento dell’obbligo di repechage, in quanto nessuna attività può essere svolta in termini identici ad un’altra. Sostiene che neppure la collocazione geografica del luogo di esplicazione delle mansioni appare decisivo.

Censura la sentenza anche nella parte in cui ha escluso che l’indagine intorno all’adempimento dell’obbligo di repechage dovesse involgere anche le posizioni lavorative diverse e/o in mansioni inferiori per essere di ostacolo il divieto di demansionamento e dequalificazione. Anche sotto questo profilo, rileva come la sentenza si collochi in contrasto con la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 10018 del 2016, 3040 del 2011, 7046 del 2011, 4509 del 2016, 22798 del 2016, n. 21715 del 2018).

Deduce infine che il giudizio di infungibilità espresso dal giudice di rinvio con riguardo non alla professionalità, ma alle mansioni viola i criteri selettivi di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5, da utilizzare come parametro per la verifica del rispetto del principio generale di correttezza e buona fede disciplinanti il rapporto di lavoro anche nella sua fase estintiva.

Conclude per l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento e per l’applicazione, in via principale, della tutela reintegratoria e, in via subordinata, di quella indennitaria c.d. forte.

3. Entrambi i motivi di ricorso appaiono meritevoli di accoglimento.

4. La soluzione accolta dal giudice di rinvio contrasta con i principi elaborati dalla più recente giurisprudenza di questa Corte.

5. Secondo l’orientamento oramai consolidato di questa Corte, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del c.d. repechage, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore. Sul datore di lavoro incombe l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente all’attività produttiva, all’organizzazione o al funzionamento dell’azienda nonchè l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (cfr. Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 20436 del 2016, Cass. n. 160 del 2017, Cass. n. 9869 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017; v. pure, tra le più recenti, Cass. n. 24195 del 2020).

6. L’impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse costituisce elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore (Cass. n. 24882 del 2017).

7. In ordine all’onere di allegazione di posti disponibili per una utile ricollocazione, è stato osservato che esigere che sia il lavoratore licenziato a spiegare dove e come potrebbe essere ricollocato all’interno dell’azienda significa, se non invertire sostanzialmente l’onere della prova (che – invece – la L. n. 604 del 1966, art. 5, pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro), quanto meno divaricare fra loro onere di allegazione e onere probatorio, nel senso di addossare il primo ad una delle parti in lite e il secondo all’altra, una scissione che non si rinviene in nessun altro caso nella giurisprudenza di legittimità. Invece, alla luce dei principi di diritto processuale, onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l’onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione (sull’impossibilità di disgiungere fra loro onere di allegazione e relativo onere probatorio gravante sulla medesima parte v., ex aliis, Cass. n. 21847 del 2014) (in tali termini, Cass. n. 12101 del 2016 cit.).

8. Tanto premesso, va osservato che si collocano nell’alveo di un diverso orientamento interpretativo i due passaggi argomentativi contenuti nella sentenza impugnata, posti a base del decisum, in cui si è affermato che spettava al lavoratore l’onere di allegare l’esistenza di posti di lavoro effettivamente disponibili in cui potere essere utilmente inserito. Da tale assunto la sentenza ha fatto discendere un accertamento giudiziale limitato all’ambito delle posizioni indicate dal lavoratore come fungibili con la propria, così sostanzialmente invertendo gli oneri di allegazione e di prova gravanti invece sulla parte datoriale.

9. Occorre solo aggiungere che in alcune recenti pronunce si è affermato che, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano al momento del recesso i posti esistenti in azienda ai fini del repechage, ove il lavoratore medesimo, in un contesto di accertata e grave crisi economica ed organizzativa dell’impresa, indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili e queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata dal giudice al fine di escludere la possibilità del predetto repechage (Cass. n. 30259 del 2018 e n. 15401 del 2020). Tali principi operano su un piano diverso da quello che viene in esame nella presente fattispecie.

In uno dei casi esaminati (Cass. n. 30259 del 2018), la società aveva dimostrato di versare in una grave crisi con drastica riduzione degli impianti, licenziamenti collettivi e ricorso a cassa integrazione guadagni e in tale contesto di allegazioni e di prove di parte datoriale, il giudice di merito aveva valutato anche l’incollocabilità del lavoratore presso altre posizioni lavorative che lo stesso, pur non essendovi tenutovi, aveva indicato come disponibili. L’allegazione del ricorrente valeva quindi a integrare il quadro della prova presuntiva nel quadro complessivo degli elementi acquisiti al processo che la sentenza impugnata, secondo l’accertamento di merito che le era demandato, aveva ritenuto utilizzabili per giungere ad escludere, nel giudizio finale e complessivo, la possibilità di ricollocazione del ricorrente in azienda.

Nell’altro caso (Cass. n. 15401 del 2020), il giudice di merito aveva escluso la possibilità di un reimpiego del lavoratore, anche in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, per avere ciò verificato anche mediante l’accertata insussistenza delle posizioni lavorative indicate dal lavoratore reclamante come disponibili, con accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità.

10. In entrambi i casi, il giudizio espresso dal giudice di merito, ritenuto conforme a diritto, è quello condotto nell’ambito della prova presuntiva del fatto negativo acquisibile anche attraverso fatti positivi, tra i quali ben possono essere inclusi i fatti indicati dal lavoratore ed acquisiti al processo. Il principio non vale invece ad invertire l’onere della prova di cui ai principi sopra indicati, peraltro espressamente richiamati e condivisi anche dalle due sopra citate pronunce.

11. Sempre nell’ambito del primo motivo, va ribadito il principio per cui (Cass. n. 4509 del 2016) in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale. In tal senso si era espressa anche la giurisprudenza più risalente: Cass. n. 21579 del 2008 e n. 23698 del 2015 (v. più recentemente, Cass. n. 29099 del 2019). Dovendosi solo precisare che, in tale contesto, non vengono in rilievo tutte le mansioni inferiori dell’organigramma aziendale ma solo quelle che siano compatibili con le competenze professionali del lavoratore, ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza, senza che sia previsto un obbligo del datore di lavoro di fornire un’ulteriore o diversa formazione del prestatore per la salvaguardia del posto di lavoro (Cass. n. 31520 del 2019).

12. In conclusione, la Corte di appello, dopo avere accertato l’effettività della soppressione del posto e la riferibilità della soppressione ad una scelta datoriale (insindacabile dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità), non si è attenuta, quanto all’accertamento dell’ulteriore requisito – anch’esso costitutivo della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo – relativo all’impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, ai principi giurisprudenziali espressi da questa Corte circa il riparto degli oneri probatori, dovendosi escludere che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 5592 e 12101 del 2016): elemento, questo dell’impossibilità di reimpiego in altre posizioni di lavoro e/o con diverse mansioni, che, se pure normativamente inespresso nella formulazione testuale della L. n. 604 del 1966, art. 3, trova la sua giustificazione sia sul piano dei valori, nella prospettiva del licenziamento come extrema ratio all’interno di un ordinamento che tutela il lavoro già a livello costituzionale, limitando, per converso, l’iniziativa economica privata, ove il suo esercizio risulti in contrasto con la dignità umana (art. 41 Cost., comma 2); sia come riflesso logico del carattere effettivo e non pretestuoso che deve accompagnare la scelta tecnico-organizzativa del datore di lavoro, la quale, siccome univocamente diretta al conseguimento delle ragioni proprie dell’impresa, non può riconoscere il condizionamento di finalità espulsive diversamente legate alla persona del lavoratore (in tal senso, v. Cass. n. 24882 del 2017, in motivazione).

13. Anche il secondo motivo appare meritevole di accoglimento.

14. E’ vero che, quando la ragione del recesso consiste nella soppressione di uno specifico servizio e non si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, il nesso causale tra detta ragione e la soppressione del posto di lavoro è idoneo di per sè a individuare il personale da licenziare, senza che si renda necessaria la comparazione con altri lavoratori dell’aziendale l’applicazione dei criteri previsti dalla L. n. 223 del 1991, art. 5 (Cass. 25653 del 2017).

15. Tuttavia, nel caso in esame, la stessa sentenza impugnata, dopo avere dato atto che la soppressione della posizione lavorativa occupata dal V. non era avvenuta nel contesto della soppressione della funzione (che era invece stata mantenuta ma diversamente distribuita), è pervenuta a formulare un giudizio di esclusione della fungibilità con riguardo alla natura delle mansioni di fatto svolte anzichè, come avrebbe dovuto, con riguardo all’eventuale professionalità omogenea (cfr. Cass. n. 25192 del 2016). La comparazione è stata così operata per ruoli e mansioni, ossia attraverso un criterio inadeguato.

16. In conclusione, la sentenza va cassata per il riesame del merito delle questioni oggetto del ricorso qui accolto, con rinvio alla Corte di appello di L’Aquila in diversa composizione, la quale provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata in parte qua e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di L’Aquila in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 11 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2021

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