Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4648 del 21/02/2020

Cassazione civile sez. trib., 21/02/2020, (ud. 12/03/2019, dep. 21/02/2020), n.4648

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. D’AURIA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15761/2015 R.G. proposto da:

I.L.C.A. – Industria Lavorazioni Carni Abruzzo s.r.l., in persona del

suo legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv.

Giuliano Milia, elettivamente domiciliata in Roma, via Giuseppe

Ferrari n. 11, presso lo studio dell’avv. Erika Giovannetti;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, in persona del Direttore p.t., con domicilio

eletto presso gli uffici della predetta Avvocatura, in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale

dell’Abruzzo depositata il 5 dicembre 2014, n. 1359.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 marzo 2019

dal Consigliere Dott. Leuzzi Salvatore.

Fatto

RILEVATO

CHE:

– La Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo, con la sentenza n. 1359 del 5 dicembre 2014, previa riunione dei procedimenti, ha parzialmente respinto gli appelli proposti da I.L.C.A., Industria Lavorazione Carni Abruzzo s.r.l., contro le sentenze della CTP di Pescara che avevano rigettato i ricorsi della contribuente avverso gli avvisi di accertamento notificatile dall’Agenzia delle Entrate per il recupero a tassazione – per gli anni di imposta 2005 e 2007- dell’IVA indebitamente detratta in relazione ad operazioni soggettivamente inesistenti, nonchè delle maggiori IRAP ed IRES dovute, ed ha parzialmente accolto quello dell’Agenzia avverso altra sentenza di primo grado che aveva invece annullato l’avviso, di uguale contenuto, relativo all’anno di imposta 2006, rideterminando le pretese erariali.

– La CTR ha ritenuto che l’amministrazione avesse pienamente fornito la prova dei fatti posti a fondamento degli avvisi, rilevando: che nel procedimento tributario sono sicuramente utilizzabili le dichiarazioni rese da terzi nell’ambito di procedimenti diversi o nella fase amministrativa, non ostandovi il disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, che, nel processo penale promosso per i medesimi fatti, il principale imputato, B.M., gestore occulto di una serie di società c.d. cartiere, aveva dichiarato che queste si interponevano fittiziamente fra l’effettivo fornitore estero delle carni ed ILCA, non versavano l’IVA sugli acquisti formalmente loro corrisposta e dividevano poi il provento del reato con l’interponente/acquirente, cui (per il tramite di soggetti ad essa riconducibili) veniva restituito circa il 60% dell’imposta evasa, in buste chiuse contenenti il denaro; che tali dichiarazioni erano state confermate anche dagli imputati C. e M. ed avevano trovato precisi riscontri sia documentali che logici; che M. aveva precisato di aver personalmente consegnato le buste ai clienti, fra cui il procuratore di ILCA F.D.; che, alla luce di tali elementi, che dimostravano la partecipazione della contribuente all’illecito, era indifferente accertare chi fosse la persona fisica che si era in concreto accordata con B..

– Tanto premesso in fatto, il giudice a quo ha poi rilevato in diritto che trovava applicazione nella specie il testo dell’art. 14 bis TUIR novellato dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, convertito dalla L. n. 44 del 2012, che consente la deducibilità dei costi relativi all’acquisizione di beni e servizi che, ancorchè documentati da fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, non sono stati utilizzati per il compimento di un reato ed ha pertanto rideterminato i redditi imponibili ai fini Ires ed Irap, accertati a carico della società contribuente per ciascuna annualità, aderendo però alla tesi dell’Agenzia secondo cui i costi effettivamente sostenuti da ILCA ed oggettivamente inerenti l’attività di impresa andavano ridotti del 12%, imputabile al costo del reato.

– Contro la sentenza ILCA propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.

– L’Agenzia delle Dogane resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

– Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame del fatto decisivo costituito dall’impossibilità (definita “anche ontologica”) del suo coinvolgimento in una frode fiscale integrante il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000m, art. 10 ter (commesso attraverso l’artificio – comportante anche l’imputazione per il reato di truffa aggravata di cui all’art. 640 c.p., comma 2 – di esporre in dichiarazione versamenti mai eseguiti) realizzata da soggetti a sè non riconducibili, atteso che l’unico reato contestato a F.D., soggetto peraltro estraneo alla sua compagine sociale, è stato quello di ricettazione; aggiunge che l’effettività degli acquisti da essa effettuati emergeva da numerosi riscontri di natura documentale (fatture emesse dal venditore estero verso l’acquirente italiana GIAL e da quest’ultima a suo carico; pagamenti da essa eseguiti tramite assegni bancari) e, soprattutto, dalla richiesta del P.M. (riportata per ampi stralci nel motivo) di applicazione della misura cautelare per i reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter e art. 640 c.p., comma 2, nei soli confronti del gestore delle società fittiziamente interposte.

– Con il secondo motivo, ILCA lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione dell’art. 2697 c.c., anche in riferimento all’art. 116 c.p.c., per avere i giudici di secondo grado ritenuto assolto l’onere probatorio a carico dell’Amministrazione finanziaria “accordando valore di prova alle dichiarazioni rese nell’ambito del procedimento penale da soggetti che risultavano indagati”, benchè dette dichiarazioni si palesassero inutilizzabili in quanto non rese da terzi “disinteressati”.

– Con il terzo motivo, la contribuente denuncia la violazione dell’art. 116 c.p.c., per avere la CTR utilizzato “dichiarazioni rese da terze persone, che non sono state nemmeno riversate agli atti del giudizio”, che “essendo semplicemente richiamate, peraltro in forma riassuntiva, nell’accertamento e nel p.v.c.”, non erano idonee ad “assurgere a valore di prova, tanto meno esclusiva”.

– Come ripetutamente affermato da questa Corte, in tema di frode IVA per operazioni soggettivamente inesistenti la prova, che incombe sull’amministrazione, dell’interposizione dell’apparente fornitore (circostanza non contestata dalla ricorrente) e della consapevolezza del cessionario della fittizietà della cessione può essere fornita anche per presunzioni semplici (purchè gravi, precise e concordanti), che possono derivare dalle stesse risultanze di fatto attinenti al ruolo di “cartiera” del cedente, gravando senz’altro sul contribuente, a fronte di siffatte dimostrazioni, la prova contraria (v. Cass. n. 11873 del 2018; Cass. n. 18118 del 2016; Cass. n. 25778 del 2014).

– Nel caso di specie il giudice d’appello ha indicato, con motivazione ampia ed esaustiva, gli elementi, dettagliatamente riportati nel p.v.c., in base ai quali ha ritenuto che l’Agenzia avesse pienamente adempiuto al proprio onere, valorizzando, fra l’altro, le dichiarazioni concordemente rese dagli imputati B., C. e M. – di per sè sufficienti a provare il coinvolgimento di ILCA nell’illecito fiscale – secondo cui il 60% circa delle somme apparentemente versate dalla società a titolo di IVA sugli acquisti le veniva restituita in denaro contante, consegnatole in busta chiusa per il tramite del procuratore F. o di altri soggetti ad essa riconducibili.

– Ciò premesso, va escluso che la circostanza, sottolineata a più riprese dalla ricorrente, che al F. non sia stato ascritto il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, ma solo quello di ricettazione, integri il fatto decisivo omesso che, ove considerato dal giudice, avrebbe determinato un diverso esito della controversia.

– Si tratta, infatti, di circostanza del tutto irrilevante rispetto all’oggetto dell’accertamento spettante alla CTR, posto che il giudice tributario non è vincolato dalle imputazioni formulate in sede penale, ma è invece tenuto a vagliare per proprio conto – come puntualmente accaduto nel caso che occupa – se le prove acquisite nel processo penale e riportate nel p.v.c. siano idonee a fondare il proprio convincimento in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria (Cass. n. 6918 del 2013; Cass. n. 12577 del 2000; Cass. n. 2409 del 2005).

– Tanto, del resto, in virtù del principio generale secondo cui, in mancanza di un esplicito divieto di legge, il giudice del merito ben può utilizzare anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse o altre parti, al fine di trarne non solo semplici indizi ma anche valore di prova esclusiva (Cass. n. 8585 del 1999), essendo sua prerogativa esclusiva l’individuazione degli elementi probatori ritenuti rilevanti ed atti a sostenere la decisione (ex plurimis, Cass., sez. un., n. 898 del 1999), purchè egli illustri il procedimento di ordine logico e giuridico che lo ha condotto ad assumerla.

– Dall’applicazione di tali principi discende l’infondatezza anche delle censure con le quali la ricorrente contesta l’utilizzabilità delle dichiarazioni, trasfuse nel p.v.c., rese da terzi in sede penale.

– Non depone in senso contrario la disposizione contenuta nel D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 4, secondo cui nel processo tributario “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”, che è limitativa dei poteri delle commissioni tributarie e non pure dei poteri degli organi amministrativi di verifica e vale, dunque, solo per la diretta assunzione, da parte del giudice tributario, nel contraddittorio delle parti, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo, non anche in rapporto alle dichiarazioni dei terzi raccolte dai verificatori, quand’anche nell’ambito di un procedimento penale, e inserite anche per riassunto – o per “stralci” – nel p.v.c., avendo esse natura di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative e palesandosi, pertanto, pienamente utilizzabili quali elementi di prova (Cass. n. 21812 del 2018; Cass. n. 20032 del 2011).

– Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, come sostituito dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8 comma 1, convertito dalla L. n. 44 del 2012, anche in relazione al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1; lamenta che la CTR, dopo aver correttamente affermato che la disposizione novellata, nel caso di fatture emesse per operazioni inesistenti, circoscrive l’indeducibilità ai soli costi relativi all’acquisto di beni e servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti e dopo aver accertato che nella specie difettava la condizione essenziale, imposta dalla medesima disposizione, costituita dall’esercizio dell’azione penale, ha poi ritenuto indeducibili una parte dei costi, in misura pari all’incirca al 12%, aderendo immotivatamente alle conclusioni assunte sul punto dall’Agenzia delle Entrate.

– Con il quinto motivo, che denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., ILCA rileva che, sul punto, la CTR ha pronunciato ultra petita, posto che l’Agenzia, dopo aver contestato la deducibilità dei costi per l’intero corso del giudizio, ha dato atto solo nella memoria depositata in fase di discussione che i costi erano deducibili, salvo che nella misura del 12%, richiesta però sulla base di una diversa causa petendi (non più frode carosello, ma “costo del reato”).

– Il quarto motivo è fondato, con conseguente assorbimento del quinto.

– Questa Corte ha già rilevato, sulla scorta della relazione al disegno di legge di conversione del D.L. n. 16 del 2012, che la nuova normativa comporta che, poichè nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, i beni acquistati – di regola – non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati, non è più sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perchè non siano deducibili, ai fini delle imposte dirette, i costi relativi a dette operazioni; ferma, restando, tuttavia, la verifica della concreta deducibilità dei costi stessi in relazione ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (Cass. n. 16528 del 2018; Cass. n. 25249 del 2016).

La CTR, pur avendo citato il predetto principio e pur avendo espressamente accertato che nella specie non ricorrevano neppure le condizioni per l’indetraibilità dei costi riferiti a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti (non essendo stata esercitata l’azione penale), ha dunque del tutto contraddittoriamente concluso per la solo parziale deducibilità dei costi documentati dalla fatture emesse a carico di ILCA, peraltro senza illustrare in alcun modo le ragioni della propria adesione alla tesi dell’Agenzia delle Entrate.

– All’accoglimento del quarto motivo di ricorso conseguono la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio della causa, alla Commissione Tributaria regionale dell’Abruzzo in diversa composizione, che accerterà l’ammontare dei costi detraibili attenendosi al principio sopra enunciato ed agli accertamenti di fatto già compiuti, coperti da giudicato in quanto non impugnati dall’Agenzia delle Entrate, e procederà anche alla liquidazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, rigetta i primi tre motivi di censura, accoglie il quarto e dichiara assorbito il quinto. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo anche per le spese di questo giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 12 marzo 2019.

Depositato in cancelleria il 21 febbraio 2020

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