Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4646 del 21/02/2020

Cassazione civile sez. trib., 21/02/2020, (ud. 12/03/2019, dep. 21/02/2020), n.4646

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. D’AURIA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 7826/2013 R.G. proposto da:

I.L.C.A. – Industria Lavorazioni Carni Abruzzo s.r.l., in persona del

suo legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv.

Giuliano Milia, elettivamente domiciliata in Roma, via Giuseppe

Ferrari n. 11, presso lo studio dell’avv. Erika Giovannetti;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, in persona del Direttore p.t., con domicilio

eletto presso gli uffici della predetta Avvocatura, in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale

dell’Abruzzo depositata il 30 agosto 2012, n. 962.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 marzo 2019

dal Consigliere Dott. Leuzzi Salvatore.

Fatto

RILEVATO

CHE:

– La Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo, con la sentenza n. 962 del 30 agosto 2012, ha respinto l’appello proposto da I.L.C.A., Industria Lavorazione Carni Abruzzo s.r.l., contro la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Pescara che aveva, a sua volta, rigettato il ricorso della contribuente volto ad ottenere l’annullamento dell’avviso di accertamento notificatole dall’Agenzia delle Entrate per il recupero a tassazione – per l’anno 2004 – dell’IVA indebitamente detratta in relazione ad operazioni soggettivamente inesistenti nonchè dei maggiori importi da essa dovuti per IRPES ed IRAP.

– La CTR ha ritenuto che l’amministrazione avesse pienamente

fornito la prova dei fatti posti a fondamento dell’avviso, rilevando: che nel processo penale promosso per i medesimi fatti, anche se in relazione ad anni di imposta successivi, il principale imputato, B.M., gestore occulto di una serie di società c.d. cartiere, aveva dichiarato che queste si interponevano fittiziamente fra l’effettivo fornitore estero delle carni ed ILCA, non versavano l’IVA sugli acquisti formalmente loro corrisposta e dividevano poi il provento del reato con l’interponente/acquirente, cui (per il tramite dello stesso B. o di altri soggetti, fra i quali il procuratore di ILCA F.D.) veniva restituito circa il 60% dell’imposta evasa, in buste chiuse contenenti il denaro; che tali dichiarazioni erano state confermate anche dagli imputati B.C.G. e M.L., bracci operativi di B. nelle truffe fiscali (i quali avevano altresì precisato che le “cartiere” venivano da questi costituite ed estinte di anno in anno, potendo essere utilizzate solo fino a quando l’Ufficio non si accorgeva dell’evasione) ed avevano trovato precisi riscontri sia documentali che logici; che la piena consapevolezza di ILCA dell’inesistenza soggettiva delle operazioni era provata anche dal fatto che la contribuente risultava aver acquistato le forniture, negli anni 2002/2004, da tre diverse società coinvolte nella frode ed entrambe riconducibili a B., il quale era dunque, in sostanza, l’unico soggetto con il quale essa intratteneva rapporti; che, alla luce di tali elementi, che dimostravano la partecipazione di ILCA all’illecito, era indifferente accertare chi fosse la persona fisica che si era in concreto accordata con B.; che era, del pari, irrilevante che l’indagine penale non avesse riguardato l’annualità in contestazione, in quanto il sistema descritto era andato avanti per anni, ivi compreso il 2004.

– Tanto premesso in fatto, il giudice a quo ha poi respinto in diritto il motivo col quale IL.CA. aveva contestato di essere tenuta al pagamento delle maggiori IRES ed IRAP accertate, affermando che il principio invocato dall’appellante, secondo cui, nel caso di operazione soggettivamente inesistente, il costo dell’acquisto, in quanto effettivamente sopportato, va comunque riconosciuto ai fini delle imposte dirette, poichè ciò che va tassato è il reddito e non il ricavo lordo, non trova applicazione allorchè l’acquisto sia frutto di un illecito penale, la cui conseguenza è, per l’appunto, la perdita del diritto alla detrazione.

– ILCA propone ricorso per la cassazione della sentenza, affidato a cinque motivi.

– L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

– Con il primo motivo di ricorso ILCA denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame del fatto decisivo costituito dall’impossibilità (definita “anche ontologica”) del suo coinvolgimento in una frode fiscale integrante il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter (commesso attraverso l’artificio – comportante anche l’imputazione per il reato di truffa aggravata di cui all’art. 640 c.p., comma 2 – di esporre in dichiarazione versamenti mai eseguiti) realizzata da soggetti a sè non riconducibili, atteso che l’unico reato contestato a F.D., soggetto peraltro estraneo alla sua compagine sociale, è stato quello di ricettazione; aggiunge che l’effettività degli acquisti da essa effettuati emergeva da numerosi riscontri di natura documentale (fatture emesse dal venditore estero verso l’acquirente italiana GIAL e da quest’ultima a suo carico; pagamenti da essa eseguiti tramite assegni bancari) e, soprattutto, dalla richiesta del P.M. (riportata per ampi stralci nel motivo) di applicazione della misura cautelare per i reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter e art. 640 c.p., comma 2 nei soli confronti del gestore delle società fittiziamente interposte.

– Con il secondo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione dell’art. 2697 c.c., anche in riferimento all’art. 116 c.p.c., per avere i giudici di secondo grado ritenuto assolto l’onere probatorio a carico dell’Amministrazione finanziaria “accordando valore di prova alle dichiarazioni rese nell’ambito del procedimento penale da soggetti che risultavano indagati”, benchè dette dichiarazioni si palesassero inutilizzabili in quanto non rese da terzi “disinteressati”.

– Con il terzo motivo, la contribuente denuncia la violazione dell’art. 116 c.p.c., per avere la CTR utilizzato “dichiarazioni rese da terze persone, che non sono state nemmeno riversate agli atti del giudizio”, che “essendo semplicemente richiamate, peraltro in forma iassuntiva, nell’accertamento e nel p.v.c.”, non erano idonee ad “assurgere a valore di prova, tanto meno esclusiva”.

– Con il quarto ed il quinto motivo, la ricorrente deduce violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, anche in relazione al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1, per avere la sentenza impugnata affermato il principio dell’indetraibilità ai fini delle imposte dirette anche del costo di acquisto dei beni, sebbene effettivamente sopportato.

– I primi tre motivi di ricorso, che si prestano ad un esame unitario in quanto contestano tutti, ancorchè sotto distinti profili, il ragionamento probatorio del giudice del merito, devono essere respinti.

– Come ripetutamente affermato da questa Corte, in tema di frode IVA per operazioni soggettivamente inesistenti la prova, che incombe sull’amministrazione, dell’interposizione dell’apparente fornitore (circostanza non contestata dalla ricorrente) e della consapevolezza del cessionario della fittizietà della cessione può essere fornita anche per presunzioni semplici (purchè gravi, precise e concordanti), che possono derivare dalle stesse risultanze di fatto attinenti al ruolo di “cartiera” del cedente, gravando senz’altro sul contribuente, a fronte di siffatte dimostrazioni, la prova contraria (v. Cass. n. 11873 del 2018; Cass. n. 18118 del 2016; Cass. n. 25778 del 2014).

– Nel caso di specie il giudice d’appello ha indicato, con motivazione ampia ed esaustiva, gli elementi, dettagliatamente riportati nel p.v.c., in base ai quali ha ritenuto che l’Agenzia avesse pienamente adempiuto al proprio onere, valorizzando, fra l’altro, le dichiarazioni concordemente rese dagli imputati B., Carletti e M. – di per sè sufficienti a provare il coinvolgimento di ILCA nell’illecito fiscale – secondo cui il 60% circa delle somme apparentemente versate dalla società a titolo di IVA sugli acquisti, le veniva restituita in denaro contante, consegnatole in busta chiusa per il tramite del procuratore F. o dello stesso B. o di soggetti terzi che agivano per conto di questi.

– Ciò premesso, va escluso che la circostanza, sottolineata a più riprese dalla ricorrente, che al F. non sia stato ascritto il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, ma solo quello di ricettazione, integri il fatto decisivo omesso che, ove considerato dal giudice, avrebbe determinato un diverso esito della controversia.

– Si tratta, infatti, di circostanza del tutto irrilevante rispetto all’oggetto dell’accertamento spettante alla CTR, posto che il giudice tributario non è vincolato dalle imputazioni formulate in sede penale,

ma è invece tenuto a vagliare per proprio conto – come puntualmente accaduto nel caso che occupa – se le prove acquisite nel processo penale e riportate nel p.v.c. siano idonee a fondare il proprio convincimento in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria (Cass. n. 6918 del 2013; Cass. n. 12577 del 2000; Cass. n. 2409 del 2005).

– Tanto, del resto, in virtù del principio generale secondo cui, in mancanza di un esplicito divieto di legge, il giudice del merito ben può utilizzare anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse o altre parti, al fine di trarne non solo semplici indizi ma anche valore di prova esclusiva (Cass. n. 8585 del 1999), essendo sua prerogativa esclusiva l’individuazione degli elementi probatori ritenuti rilevanti ed atti a sostenere la decisione (ex plurimis, Cass., sez. un., n. 898 del 1999), purchè egli illustri il procedimento di ordine logico e giuridico che lo ha condotto ad assumerla.

– Dall’applicazione di tali principi discende l’infondatezza anche delle censure con le quali la ricorrente contesta l’utilizzabilità delle dichiarazioni, trasfuse nel p.v.c., rese da terzi in sede penale.

– Non depone in senso contrario la disposizione contenuta nel D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 4, secondo cui nel processo tributario “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”, che è limitativa dei poteri delle commissioni tributarie e non pure dei poteri degli organi amministrativi di verifica e vale, dunque, solo per la diretta assunzione, da parte del giudice tributario, nel contraddittorio delle parti, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo, non anche in rapporto alle dichiarazioni dei terzi raccolte dai verificatori, quand’anche nell’ambito di un procedimento penale, e inserite anche per riassunto – o per “stralci” – nel p.v.c., avendo esse natura di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative e palesandosi, pertanto, pienamente utilizzabili quali elementi di prova (Cass. n. 21812 del 2018; Cass. n. 20032 del 2011).

– Il quarto e il quinto motivo di ricorso, che pongono la medesima questione, devono invece essere accolti.

– Questa Corte ha già affermato che, in tema di imposte sui redditi, a norma della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, nella formulazione introdotta con il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, conv. con L. n. 44 del 2012, l’acquirente dei beni può dedurre i costi di beni o servizi, non utilizzati direttamente per commettere il reato, relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti anche nell’ipotesi in cui sia consapevole del carattere fraudolento dei dette operazioni, salvo che si tratti di costi che, a norma del TUIR approvato con D.P.R. n. 917 del 1986, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (Cass. n. 4164 del 2019; Cass. n. 27566 del 2018).

– La norma novellata, operando quale “ius superveniens”, trova applicazione in tutti i casi in cui il rapporto tributario controverso non è ancora esaurito.

– Infatti, dello stesso art. 8, comma 3 ha stabilito che le disposizioni di cui al citato comma 1 “si applicano, in luogo di quanto disposto dall’art. 14, comma 4 bis, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore” dello stesso comma 1, “ove più favorevoli, tenuto conto degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4 bis previgente non si siano resi definitivi”.

– Pertanto, alla luce della nuova disciplina, ai cessionari coinvolti nella frode, che usualmente utilizzano i beni acquistati per porli in commercio e venderli, non è più contestabile la deducibilità dei costi, ferma restando la facoltà dell’amministrazione di fornire prova contraria, nel caso di specie, peraltro, neppure offerta.

– All’accoglimento del quarto e del quinto motivo di ricorso conseguono la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio della causa alla Commissione Tributaria regionale dell’Abruzzo, in diversa composizione, che, previo accertamento dell’ammontare dei costi detraibili, provvederà a rideterminare il reddito imponibile di ILCA per l’anno 2004 e le imposte dirette eventualmente ancora dovute dalla società e liquiderà anche le spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto e il quinto motivo di ricorso e rigetta gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo in diversa composizione, anche per le spese di questo giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione tributaria della Suprema Corte di Cassazione, il 12 marzo 2019.

Depositato in cancelleria il 21 febbraio 2020

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