Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4645 del 21/02/2020

Cassazione civile sez. trib., 21/02/2020, (ud. 12/03/2019, dep. 21/02/2020), n.4645

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. D’AURIA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 7824/2013 R.G. proposto da:

I.L.C.A. – Industria Lavorazioni Carni Abruzzo s.r.l., in persona del

suo legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv.

Giuliano Milia, elettivamente domiciliata in Roma, via Giuseppe

Ferrari n. 11, presso lo studio dell’avv. Erika Giovannetti;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, in persona del Direttore p.t., con domicilio

eletto presso gli uffici della predetta Avvocatura, in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale

dell’Abruzzo depositata il 30 agosto 2012, n. 960.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 marzo 2019

dal Consigliere Dott. Leuzzi Salvatore.

Fatto

RILEVATO

CHE:

– La Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo, con la sentenza n. 960 del 30 agosto 2013, ha respinto ha respinto l’appello proposto da I.L.C.A., Industria Lavorazione Carni Abruzzo s.r.l., contro la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Pescara che aveva, a sua volta, rigettato il ricorso della contribuente volto ad ottenere l’annullamento dell’avviso di accertamento notificatole dall’Agenzia delle Entrate per il recupero a tassazione per l’anno 2003 – dell’IVA indebitamente detratta in relazione ad operazioni soggettivamente inesistenti nonchè dei maggiori importi da essa dovuti per IRPEG ed IRAP.

– La CTR ha in primo luogo dichiarato infondato il motivo d’ appello che lamentava il rigetto dell’eccezione di decadenza dell’Agenzia dal potere di accertamento, affermando che nella specie era applicabile la proroga legale dei termini introdotta dal D.L. n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 248 del 2006, allorchè il termine era ancora pendente, in quanto le violazioni contestate comportavano l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.c; ha quindi ritenuto, nel merito, che l’amministrazione avesse pienamente fornito la prova dei fatti posti a fondamento dell’avviso, rilevando: che nel processo penale promosso per i medesimi fatti, anche se in relazione agli anni di imposta 2005/2006, il principale imputato, B.M., gestore occulto di una serie di società c.d. cartiere, aveva dichiarato che queste si interponevano fittiziamente fra l’effettivo fornitore estero delle carni ed ILCA, non versavano l’IVA sugli acquisti formalmente loro corrisposta e dividevano poi il provento del reato con l’interponente/acquirente, cui (per il tramite dello stesso B. o di altri soggetti, fra i quali il procuratore di ILCA F.D.) veniva restituito circa il 60% dell’imposta evasa, in buste chiuse contenenti il denaro; che tali dichiarazioni erano state confermate anche dagli imputati B.C.G. e M.L., bracci operativi di B. nelle truffe fiscali (i quali avevano altresì precisato che le “cartiere” venivano da questi costituite ed estinte di anno in anno, potendo essere utilizzate solo fino a quando l’Ufficio non si accorgeva dell’evasione) ed avevano trovato precisi riscontri sia documentali che logici; che la piena consapevolezza di ILCA dell’inesistenza soggettiva delle operazioni era provata anche dal fatto che la contribuente risultava aver acquistato le forniture, nel 2002 e nel 2003, da due diverse società coinvolte nella frode ed entrambe riconducibili a B., il quale era dunque, in sostanza, l’unico soggetto con il quale essa intratteneva rapporti; che, alla luce di tali elementi, che dimostravano la partecipazione di ILCA all’illecito, era indifferente accertare chi fosse la persona fisica che si era in concreto accordata con B.; che era, del pari, irrilevante che l’indagine penale non avesse riguardato l’annualità in contestazione, in quanto il sistema descritto era andato avanti per anni, ivi compreso il 2003; ha infine escluso che ILCA potesse detrarre il costo degli acquisti, “frutto di illeciti penali”, dagli imponibili IRPEG ed IRAP.

– ILCA propone ricorso per la cassazione della sentenza, affidato a sei motivi.

– L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

– Con il primo motivo di ricorso, che denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, ILCA lamenta il rigetto dell’eccezione di decadenza. Rileva al riguardo che, poichè in sede penale è stato contestato a F.D. unicamente il reato di ricettazione, quand’anche la condotta di questi le fosse astrattamente ascrivibile, essa risulterebbe estranea ai fatti integranti gli illeciti previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, cui consegue l’obbligo di denuncia ed il raddoppio dei termini di prescrizione ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43; assume inoltre che la disposizione non poteva essere applicata in via retroattiva, ovvero con riferimento all’annualità 2003, in presenza di una notitia criminis concernente reati commessi negli anni 2005/2006.

– Il motivo è fondato, anche se per ragioni di diritto diverse da quelle dedotte dalla ricorrente, unicamente in relazione all’eseguito recupero dell’IRAP: in tema di accertamento di tale imposta, infatti, il cd. “raddoppio dei termini” previsto, per le imposte dirette, dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 come modificato dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 24, convertito non può trovare applicazione, in quanto le violazioni delle disposizioni ad essa relative non sono presidiate da sanzioni penali (Cass. n. 10483 del 2018; v. anche Cass. n. 16728 del 2016).

– Per ciò che attiene al recupero dell’IVA e dell’IRPEG il motivo deve invece essere respinto.

– Costituisce, in primo luogo, principio già enunciato da questa Corte, che deve in questa sede essere ribadito, che, in tema di accertamento tributario, i termini previsti del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 per l’IRPEF e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57 per l’IVA, nella versione modificata dal D.L. 223 del 2006, art. 37, comma 24, convertito con modificazioni dalla L. n. 248/06, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche con riferimento alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore (4 luglio 2006) del predetto decreto, tanto derivando non dalla natura retroattiva della novella, ma, secondo la lettura di tali disposizioni data dalla sentenza della Corte costituzionale n. 247 del 2011, dalla circostanza che, stabilendo il prolungamento dei termini non ancora scaduti alla data dell’entrata in vigore del decreto, essa incide necessariamente (protraendoli) sui termini di accertamento delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data, nel rispetto del principio cristallizzato dall’art. 11 disp. prel. al c.c., comma 1, (cfr. Cass. nn. 27629/018, 26037/016).

– E’ inoltre privo di rilievo, ai fini dell’operatività del raddoppio dei termini, che i fatti costituenti reato ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000 vengano specificamente imputati ad una persona fisica titolare di una carica sociale o, comunque, riconducibile alla persona giuridica nei cui confronti è compiuto l’accertamento: ciò che unicamente rileva, infatti, è che l’avviso si fondi su addebiti astrattamente integranti le fattispecie delittuose previste dal D.Lgs. n. citato, in relazione alle quali è previsto l’obbligo di denuncia penale (fra le quali indubbiamente rientra l’omesso versamento dell’IVA), senza che rilevi l’esito del relativo procedimento e nonostante l’eventuale prescrizione del reato, atteso il regime c.d. di “doppio binario” tra giudizio penale e giudizio tributario (cfr. Cass. n. 9322/017, n. 11171/016).

– Sempre ai fini del raddoppio dei termini, va da ultimo precisato che sugli avvisi di accertamento relativi a periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016 e già notificati non incidono le modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, commi da 130 a 132, attesa la disposizione transitoria ivi contenuta, che richiama l’applicazione del D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2, che, per l’appunto, fa salvi gli effetti degli avvisi già notificati (Cass. nn. 16728/016, 26037/016).

– Con il secondo motivo la contribuente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame del fatto decisivo costituito dall’impossibilità (definita “anche ontologica”) del suo coinvolgimento in una frode fiscale integrante il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter (commesso attraverso l’artificio – comportante anche l’imputazione per il reato di truffa aggravata di cui all’art. 640 c.p., comma 2 – di esporre in dichiarazione versamenti mai eseguiti) realizzata da soggetti a sè non riconducibili, atteso che l’unico reato contestato a F.D., soggetto peraltro estraneo alla sua compagine sociale, è stato quello di ricettazione; aggiunge che l’effettività degli acquisti effettuati emergeva da numerosi riscontri di natura documentale (fatture emesse dal venditore estero verso l’acquirente italiana GIAL e da quest’ultima a suo carico; pagamenti da essa eseguiti tramite assegni bancari) e, soprattutto, dalla richiesta del P.M. (riportata per ampi stralci nel motivo) di applicazione della misura cautelare per i reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter e art. 640 c.p., comma 2 nei soli confronti del gestore delle società fittiziamente interposte.

– Con il terzo motivo, ILCA lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione dell’art. 2697 c.c., anche in riferimento all’art. 116 c.p.c., per avere i giudici di secondo grado ritenuto assolto l’onere probatorio a carico dell’Amministrazione finanziaria “accordando valore di prova alle dichiarazioni rese nell’ambito del procedimento penale da soggetti che risultavano indagati”, richiamate nel p.v.c. ma non prodotte in giudizio, non corroborate da riscontri oggettivi e, comunque, inutilizzabili in quanto provenienti da terzi “non disinteressati”.

– Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 116 c.p.c., ribadendo che i giudici d’appello non potevano fondare il loro convincimento su “dichiarazioni rese da terze persone, che non sono state nemmeno riversate agli atti del giudizio” e che “essendo semplicemente richiamate, peraltro in forma riassuntiva, nell’accertamento e nel p.v.c.”, non erano idonee ad “assurgere a valore di prova, tanto meno esclusiva”.

– I motivi, che si prestano ad un esame unitario in quanto contestano tutti, ancorchè sotto distinti profili, il ragionamento probatorio del giudice del merito, devono essere respinti.

– Come ripetutamente affermato da questa Corte, in tema di frode IVA per operazioni soggettivamente inesistenti la prova, che incombe sull’amministrazione, dell’interposizione del fornitore (circostanza non contestata dalla ricorrente) e della consapevolezza in capo al cessionario della fittizietà della cessione può essere fornita anche per presunzioni semplici (purchè gravi, precise e concordanti), che possono derivare dalle stesse risultanze di fatto attinenti al ruolo di “cartiera” del cedente, gravando senz’altro sul contribuente, a fronte di siffatte dimostrazioni, la prova contraria (v. Cass. n. 11873 del 2018; Cass. n. 18118 del 2016; Cass. n. 25778 del 2014);

– Nel caso di specie il giudice d’appello ha indicato, con motivazione ampia ed esaustiva, gli elementi, dettagliatamente riportati nel p.v.c., in base ai quali ha ritenuto che l’Agenzia avesse pienamente adempiuto al proprio onere, valorizzando, fra l’altro, le dichiarazioni concordemente rese dagli imputati B., C. e M. – di per sè sufficienti a provare il coinvolgimento di ILCA nell’illecito fiscale – secondo cui il 60% circa delle somme apparentemente versate dalla società a titolo di IVA sugli acquisti, le veniva restituita in denaro contante, consegnatole in busta chiusa per il tramite del procuratore F. o dello stesso B. o di soggetti terzi che agivano per conto di questi.

– Ciò premesso, va escluso che la circostanza, sottolineata a più riprese dalla ricorrente, che al F. non sia stato ascritto il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, ma solo quello di ricettazione, integri il fatto decisivo omesso che, ove considerato dal giudice, avrebbe determinato un diverso esito della controversia.

– Si tratta, infatti, di circostanza del tutto irrilevante rispetto all’oggetto dell’accertamento spettante alla CTR, posto che il giudice tributario non è vincolato dalle imputazioni formulate in sede penale, ma è invece tenuto a valutare per proprio conto – come puntualmente accaduto nel caso che occupa – se le prove acquisite nel processo penale e riportate nel p.v.c. siano idonee a fondare il proprio convincimento in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria (Cass. n. 6918 del 2013; Cass. n. 12577 del 2000; Cass. n. 2409 del 2005).

– Tanto, del resto, in virtù del principio generale secondo cui, in mancanza di un esplicito divieto di legge, il giudice del merito ben può utilizzare anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse o altre parti, al fine di trarne non solo semplici indizi ma anche valore di prova esclusiva (Cass. n. 8585 del 1999), essendo sua prerogativa esclusiva l’individuazione degli elementi probatori ritenuti rilevanti ed atti a sostenere la decisione (ex plurimis, Cass., sez. un., n. 898 del 1999), purchè egli illustri il procedimento di ordine logico e giuridico che lo ha condotto ad assumerla.

– Dall’applicazione di tali principi discende l’infondatezza anche delle censure con le quali la ricorrente contesta l’utilizzabilità delle dichiarazioni, trasfuse nel p.v.c., rese da terzi in sede penale.

– Non depone in senso contrario la disposizione contenuta nel D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 4, secondo cui nel processo tributario “non sono ammessi il giuramento e la prova testimonia/e”, che è limitativa dei poteri delle commissioni tributarie e non pure dei poteri degli organi amministrativi di verifica e vale, dunque, solo per la diretta assunzione, da parte del giudice tributario, nel contraddittorio delle parti, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo, non anche in rapporto alle dichiarazioni dei terzi raccolte dai verificatori, quand’anche nell’ambito di un procedimento penale, e inserite anche per riassunto – o per “stralci” – nel p.v.c., avendo esse natura di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative e palesandosi, pertanto, pienamente utilizzabili quali elementi di prova (Cass. n. 21812 del 2018; Cass. n. 20032 del 2011).

– Con il quinto ed il sesto motivo la contribuente lamenta la violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1, per avere la CTR affermato il principio dell’indetraibilità ai fini delle imposte dirette del costo di acquisto delle carni, sebbene effettivamente sopportato.

– I motivi, che pongono la medesima questione e vanno congiuntamente esaminati, sono fondati.

– Questa Corte ha infatti già affermato che in tema di imposte sui redditi, a norma della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, nella formulazione introdotta con il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, conv. con L. n. 44 del 2012, l’acquirente dei beni può dedurre i costi di beni o servizi, non utilizzati direttamente per commettere il reato, relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti anche nell’ipotesi in cui sia consapevole del carattere fraudolento dei dette operazioni, salvo che si tratti di costi che, a norma del TUIR approvato con D.P.R. n. 917 del 1986, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (Cass. n. 4164 del 2019; Cass. n. 27566 del 2018).

– La norma novellata, operando quale “ius superveniens”, trova applicazione in tutti i casi in cui il rapporto tributario controverso non è ancora esaurito.

– Infatti, dello stesso art. 8, comma 3 ha stabilito che le disposizioni di cui al citato comma 1 “si applicano, in luogo di quanto disposto dall’art. 14, comma 4 bis, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore” dello stesso comma 1, “ove più favorevoli, tenuto conto degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4 bis previgente non si siano resi definitivi”.

– Pertanto, alla luce della nuova disciplina, ai soggetti coinvolti nella frode, che usualmente non utilizzano i beni acquistati “al fine di commettere il reato”, ma per porli in commercio e venderli, non è più contestabile la deducibilità dei costi, ferma restando la facoltà dell’amministrazione di fornire prova contraria, nel caso di specie, peraltro, neppure offerta.

– All’accoglimento parziale del primo motivo di ricorso e del quinto e del sesto motivo conseguono la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio della causa alla Commissione Tributaria regionale dell’Abruzzo, in diversa composizione, che, accertata l’eventuale decadenza dell’amministrazione dalla possibilità di agire per il recupero dell’IRAP e verificato l’ammontare dei costi detraibili, provvederà a rideterminare il reddito imponibile di ILCA per l’anno 2003 e le imposte dirette eventualmente ancora dovute dalla società e liquiderà anche le spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie, nei termini di cui in motivazione, il primo motivo di ricorso, nonchè il quinto ed il sesto motivo e rigetta nel resto. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo anche per le spese di questo giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria della Suprema Corte di Cassazione, il 12 marzo 2019.

Depositato in cancelleria il 21 febbraio 2020

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