Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4639 del 25/02/2011

Cassazione civile sez. trib., 25/02/2011, (ud. 12/01/2011, dep. 25/02/2011), n.4639

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6878-2006 proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrenti –

contro

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA SPA, in persona del Presidente del

Consiglio di Amministrazione e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIALE B. BUOZZI 102, presso lo

studio dell’avvocato FRANSONI GUGLIELMO, rappresentato e difeso

dall’avvocato RUSSO PASQUALE, con procura speciale autenticata dal

Not. Dr. COPPINI RICCARDO in SIENA, rep. n. 44734 del 24/03/2006;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1/2005 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE,

depositata il 07/02/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/01/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CARACCIOLO;

udito per il ricorrente l’Avvocato DETTORI, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato ALIBERTI, per delega dell’Avvocato

RUSSO, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1) Gli atti del giudizio di legittimità.

Il 2.3.2006 è stato notificato alla “Banca Monte dei Paschi di Siena spa” un ricorso del Ministero delle Finanze e dell’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza descritta in epigrafe (depositata il 7.2.2005), che ha accolto parzialmente l’appello della contribuente contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Prato n. 114/05/1999, che aveva integralmente respinto il ricorso della contribuente avverso avviso di rettifica e liquidazione.

Il 30.3.2006 è stato notificato al Ministero ed all’Agenzia ricorrenti il controricorso della società contribuente.

La controversia è stata discussa alla pubblica udienza del 12.1.2011, in cui il PG ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

2. I fatti di causa.

Con il menzionato avviso di rettifica e liquidazione l’Ufficio aveva rideterminato ai fini INVIM il valore finale al 31.12.1992 di un immobile, secondo il criterio del valore venale anzicchè quello risultante dalla somma dei canoni di leasing proposto dalla contribuente, ed aveva poi applicato la sanzione prevista dal D.P.R. n. 643 del 1997, art. 24. La parte contribuente aveva impugnato il provvedimento sia sotto il profilo della erroneità del criterio di determinazione del valore sia sotto il profilo dell’irrogata sanzione, siccome prevista da disposizione poi abrogata, a mezzo del D.Lgs. n. 473 del 1997. La sentenza di rigetto della CTP di Prato era stata impugnata dalla contribuente ed era stata parzialmente riformata dalla Commissione Regionale di Firenze, che aveva dichiarato non dovuta la sanzione amministrativa.

3. La motivazione della sentenza impugnata.

La sentenza della CTR, oggetto del ricorso per cassazione, è motivata nel senso che la fattispecie di causa non può considerarsi “compresa tra quelle previste e punibili a termini dell’art. 23, come modificato con il D.Lgs. 473 del 1997, art. 3″. Si era infatti trattato della semplice applicazione di un criterio errato ed opinabile per la determinazione del valore finale dell’immobile e non certamente di omessa o infedele dichiarazione.

4. Il ricorso per cassazione.

Il ricorso per cassazione è sostenuto con unico motivo d’impugnazione e, dichiarato il valore della causa nella misura di circa Euro 14.000,00, si conclude con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con affermazione del seguente principio di diritto:”Ai sensi del D.P.R. n. 643 del 1972, art. 24 prima della modifica legislativa di cui al D.Lgs. n. 473 del 1997, si ha infedele dichiarazione ogni volta che il contribuente dichiari un valore dell’immobile superiore ad oltre un quarto quello accertato”.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

5. Questione preliminare.

Preliminarmente necessita rilevare l’inammissibilità del ricorso proposto dal Ministero delle Finanze.

Quest’ultimo non è stato parte del processo di appello (instaurato dopo il 1 gennaio 2001 – data di inizio dell’operatività delle Agenzie fiscali – dal solo Ufficio locale dell’Agenzia) sicchè non ha alcun titolo che lo legittimi a partecipare al presente grado.

Sussistono giusti motivi, in considerazione del fatto che la giurisprudenza di questa Corte in tal senso si è formata in epoca successiva alla proposizione del ricorso, per disporre la compensazione delle spese del presente giudizio di cassazione.

6. Il motivo d’impugnazione.

Il primo ed unico motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 643 del 1972, art. 24 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”.

La parte ricorrente lamenta che il giudice di secondo grado abbia escluso l’esistenza di una “infedele dichiarazione”, per quanto il D.P.R. n. 643 del 1997, art. 24 – vigente all’epoca di causa – preveda che si ha infedele dichiarazione quando l’incremento di valore del bene è definito in misura superiore di oltre un quarto rispetto all’incremento dichiarato.

Di fatto, l’indicazione da parte del contribuente “di un incremento dell’immobile in misura inferiore al valore venale del bene e tale da determinare un imponibile inferiore di oltre un quarto a quello accertato”, doveva considerarsi sintomo della volontà di “pagare un’aliquota notevolmente inferiore a quella dovuta”, senza bisogno di indagini sul “comportamento doloso del denunciante”. rilevando unicamente la differenza di oltre un quarto.

D’altronde, l’Amministrazione aveva irrogato “la sanzione più favorevole al contribuente in base alla normativa vigente al momento in cui fu commessa la violazione”.

Il motivo di censura è inammissibile.

Per quanto la parte ricorrente non si soffermi sulla distinzione, la censura qui in esame (pur nella sua non perspicua formulazione) deve essere intesa quale censura di “falsa applicazione” di norme di diritto, alla stregua del notorio insegnamento di questa Corte secondo cui: “Le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, descrivono e rispecchiano i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto, cioè quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto ed il secondo l’applicazione della norma stessa al caso concreto una volta correttamente individuata ed interpretata. In relazione al primo momento il vizio (violazione di legge) investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non ha riguardo alla fattispecie in essa delineata. Con riferimento al secondo momento il vizio (falsa applicazione di legge) consiste o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma in relazione alla fattispecie concreta conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Estranea a questo secondo momento è la censura di vizio di motivazione, che concerne l’erronea ricognizione da parte del giudice del merito della fattispecie concreta attraverso le risultanze di causa” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18782 del 26/09/2005).

Nella censura qui in esame, infatti, la critica alla decisione del giudice di merito (che ha ritenuto di giudicare la vicenda alla luce del D.P.R. n. 643 del 1972, art. 23 anzicchè alla luce dell’art. 24 del medesimo D.P.R.) è appunto centrata sulla erronea sussunzione della concreta fattispecie nel parametro nominativo di riferimento.

Senonchè, proprio in riferimento alla necessaria premessa ai fini dell’esame della censura (e cioè la delineazione della fattispecie concreta, che costituisce il substrato di fatto della valutazione giuridica che compete a questa Corte) il ricorso introduttivo di questo grado di giudizio deve essere ritenuto contrario al requisito di necessaria autosufficienza, siccome disciplinato dall’art. 366 c.p.c., n. 4 nel lesto all’epoca vigente.

Invero, la norma di cui si postula la violazione prevede che:

“Quando l’incremento di valore definito supera di oltre un quarto l’incremento risultante dalla dichiarazione del contribuente, è dovuta una soprattassa pari al cinquanta per cento della maggiore imposta dovuta.

Ai fini del confronto di cui al precedente comma e della determinazione della soprattassa si tiene conto del valore iniziale già definito ai sensi dell’art. 6, commi 2 e 4 ferma restando l’applicazione della soprattassa di cui all’art. 23, comma 3, nei casi ivi previsti”.

Di tutti questi elementi di fatto, imprescindibili ai fini di poter valutare la coerenza tra la fattispecie concreta e la norma di legge nell’ambito della quale – in tesi – sussumerla, la parte ricorrente non ha proposto alcuna specifica indicazione, limitandosi (con descrizione totalmente riassuntiva e stringata degli antefatti di causa) a dare per presupposto e pacifico ciò che invece non è, e perciò contrapponendo alla valutazione asseritamente apodittica del giudice di secondo grado una valutazione non meno apodittica, nonchè indifferente rispetto ai concreti elementi di fatto che sono oggetto di controversia tra le parti (la stessa parte qui ricorrente ha dato atto, nella narrativa del ricorso, che la parte contribuente ha contestato sin dal primo grado di giudizio che il valore finale dichiarato fosse inferiore a quello computato dall’Ufficio secondo il criterio del valore di mercato).

Non resta che ritenere che il ricorso per cassazione proposto dall’Agenzia non può essere accolto, fondato com’è su un unico ed inammissibile motivo di censura.

La regolazione delle spese di lite è informata al criterio della integrale compensazione tra le parti, tenuto conto delle modificazioni del tessuto normativo da cui muovono le ragioni del ricorso.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Ministero delle Finanze e compensa tra le parti le relative spese di lite.

Rigetta il ricorso dell’Agenzia. Compensa integralmente tra le parti le spese di lite.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2011

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