Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4639 del 19/02/2021

Cassazione civile sez. VI, 19/02/2021, (ud. 15/01/2021, dep. 19/02/2021), n.4639

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2694-2019 proposto da:

S.L., domiciliato in ROMA, presso la Cancelleria della Corte

di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI MURRU,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

SE.LE., S.V., S.Z., S.A.L., domiciliati

in ROMA, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione,

rappresentati e difesi dall’avvocato PIERGIORGIO FRAU, giusta

procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

nonchè

C.R.T.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 873/2018 della CORTE d’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 19/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/01/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate dai controricorrenti.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Il 24/02/2004 Se.Le., S.V., S.Z. e S.A.L. convenivano in giudizio S.L., dinnanzi al Tribunale di Cagliari, rivendicando la proprietà di alcuni terreni siti in (OMISSIS) e della costruzione insistente su uno di essi, arbitrariamente occupati dal convenuto (nello specifico, un capannone, il cortile e la strada), affinchè quest’ultimo fosse condannato al rilascio delle porzioni occupate.

Gli attori sostenevano di essere comproprietari della metà dei fondi distinti al foglio (OMISSIS), mappali (OMISSIS) e foglio (OMISSIS) mappale (OMISSIS), per acquisto mortis causa dai genitori ( S.G. e C.D.), e che la restante parte fosse di proprietà del loro cugino C.R.T., per successione ereditaria da C.L..

Si costituiva il convenuto chiedendo il rigetto della domanda, eccependo che i terreni contesi fossero di esclusiva proprietà di C.R.T. e che gli attori ne fossero al più cointestatari catastali, in virtù di un frazionamento effettuato dai rispettivi danti causa, C.L. e C.D., successivamente al quale al primo spettava il possesso del foglio (OMISSIS) mappali (OMISSIS) ed alla seconda del solo mappale (OMISSIS).

Sosteneva inoltre di essere legittimamente nel possesso del fabbricato distinto dal foglio (OMISSIS) mappale (OMISSIS) per averlo ricevuto in donazione da C.L..

Chiedeva quindi di chiamare in causa C.R.T..

Autorizzata la chiamata in causa, il terzo rimaneva contumace in tutti i gradi del giudizio.

Il Tribunale di Cagliari, ritenute inammissibili le istanze istruttorie delle parti, decidendo sulla base delle sole prove documentali, con la sentenza n. 1641/2015 del 22/05/2015, accoglieva la domanda degli attori con condanna di S.L. al rilascio degli immobili occupati.

Avverso la suddetta sentenza, proponeva appello il soccombente, chiedendo di accertare l’insussistenza del diritto di proprietà in capo agli attori sui beni oggetto della controversia e conseguentemente la carenza della loro legittimazione ad agire, nonchè, in via riconvenzionale, di dichiarare l’intervenuta usucapione in suo favore dei beni suddetti, in virtù di un possesso duraturo dal 1993, nonchè per accessione rispetto al possesso del dante causa C.L. e per aver ricevuto in dono da C.L. il capannone contestato, con vittoria di spese, sospensione dell’esecutorietà della sentenza e reiterazione delle istanze istruttorie formulate in primo grado.

Si costituivano gli appellati i quali chiedevano che l’appello fosse dichiarato inammissibile o comunque infondato e che fosse confermata la sentenza di primo grado.

La Corte d’Appello di Cagliari, con la sentenza n. 873/2018 del 19/10/2018, confermava la sentenza di primo grado con condanna dell’appellante alla refusione delle spese del giudizio. La Corte riteneva che, trattandosi di azione di rivendica di un bene illegittimamente occupato, gravasse sugli attori l’onere della prova della proprietà sul bene in contestazione, e che gli attori avessero correttamente assolto detto onere probatorio essendo sufficiente, a fronte dell’eccezione riconvenzionale di usucapione del convenuto successiva all’acquisto degli attori, la prova del titolo e della mancanza di un successivo acquisto per usucapione da parte del convenuto – con la produzione documentale dell’atto di acquisto del loro dante causa e dei successivi acquisti mortis causa.

Quanto all’usucapione, la Corte, in primo luogo, escludeva che il possesso di C.L. potesse ritenersi valido ai fini dell’usucapione, dal momento che, trattandosi di possesso su un bene in comunione esercitato in un contesto domestico e familiare, perchè potesse essere qualificato come esclusivo era necessario dimostrare che il non uso dei beni da parte degli altri comunisti non fosse dovuto a un atteggiamento di mera tolleranza (prova che non era stata fornita dall’appellante). La richiesta di accessione pertanto era destituita di fondamento.

In secondo luogo, insussistente era la donazione di fatto del capannone, per mancanza di prova, non potendo attribuirsi rilievo alla scrittura privata prodotta in primo grado, riguardante il trasferimento di un bene diverso e con sottoscrizione del solo C..

Infine, la Corte negava che il possesso di S.L., iniziato nel maggio 1993 (data della presunta donazione), anche ammettendo che avesse i requisiti necessari, potesse essere considerato utile ai fini dell’usucapione, dal momento che la notificazione dell’atto di citazione il 24/02/2004 aveva interrotto il decorso del termine, cosicchè non era integrato nè quello breve nè quello ordinario.

S.L. ricorre per la cassazione della suddetta sentenza sulla base di tre motivi.

I resistenti si sono difesi con controricorso nel presente giudizio.

Non ha svolto difese l’intimato C.R.T..

I controricorrenti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione degli artt. 24 e 111 Cost., dell’art. 112c.p.c. e art. 115 c.p.c., comma 1, n. 4, degli artt. 2697 e 2907 c.c., nonchè omessa pronuncia sul motivo di gravame relativo alla mancata ammissione, da parte del giudice di primo grado, delle istanze istruttorie proposte.

Il ricorrente aveva censurato la sentenza del Tribunale di Cagliari con uno specifico motivo di appello per aver violato le norme in tema di ammissione delle prove e, segnatamente, per non aver tenuto conto dei documenti prodotti e per la mancata ammissione delle prove orali a dimostrazione dei propri assunti difensivi, con riguardo all’insussistenza in capo agli originari attori della proprietà e della legittimazione ad agire. In tale sede chiedeva in via subordinata l’ammissione delle richieste istruttorie già avanzate in primo grado. Ciononostante, la Corte d’Appello di Cagliari avrebbe omesso di esplicitare le ragioni per le quali non ha ammesso le istanze probatorie reiterate e l’omessa pronuncia sarebbe confortata dal fatto che nella sentenza mancherebbe la trascrizione delle conclusioni dell’appellante in ordine alle istanze istruttorie.

Con il secondo motivo lamenta la nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione degli artt. 24 e 111 Cost., dell’art. 112c.p.c. e art. 115 c.p.c., comma 1, n. 4, degli artt. 2697 e 2907 c.c., nonchè l’omessa pronuncia sul motivo di gravame relativo alla mancata ammissione, da parte del giudice di primo grado, delle istanze istruttorie proposte.

Le prove non ammesse nel primo e secondo grado, ove espletate, avrebbero consentito alla Corte d’Appello di giungere a una decisione diversa in ordine al secondo motivo di appello relativo all’usucapione, dal momento che sarebbe stata dimostrata la carenza della tolleranza invece ipotizzata in sentenza.

I primi due motivi che, per la connessione delle questioni sollevate, possono essere trattati congiuntamente, sono entrambi inammissibili.

Innanzitutto, si esclude la possibilità della configurazione di un vizio ai sensi dell’art. 112 c.p.c., il quale ha rilievo esclusivamente rispetto alle domande di merito che richiedano una statuizione di accoglimento o rigetto, non anche in relazione alle richieste istruttorie, per le quali l’omissione è denunciabile soltanto per vizi di motivazione (cfr. Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 13716 del 05/07/2016; Sez. L, Sentenza n. 6715 del 18/03/2013).

In ogni caso, il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale ovvero per omesso esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, quando la prova non ammessa ovvero non esaminata sia in concreto idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 3075 del 13/02/2006; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 11501 del 17/05/2006; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 4178 del 22/02/2007; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 11457 del 17/05/2007).

Peraltro, nemmeno sarebbe deducibile nella fattispecie il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, trovando applicazione la previsione di cui all’art. 348 ter c.p.c., u.c., trattandosi di appello introdotto in data successiva al 12 settembre 2012, e nel quale la sentenza ha confermato quella di primo grado sulla base delle medesime ragioni inerenti alle questioni di fatto.

Deve inoltre richiamarsi il principio affermato da costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo il quale il giudice di merito non è tenuto a respingere espressamente e motivatamente le richieste di tutti i mezzi istruttori avanzate dalle parti, qualora nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, insindacabili in sede di legittimità, ritenga sufficientemente istruito il processo. Al riguardo, la superfluità dei mezzi non ammessi può implicitamente dedursi dal complesso delle argomentazioni contenute nella sentenza (Cass., sez. 3, sent. n. 14611 del 2005).

In tal senso, l’omessa motivazione circa la reiezione delle istanze di ammissione di mezzi istruttori non assume rilievo allorchè, dal complesso delle ragioni svolte nella sentenza, possa argomentarsi la superfluità, l’inconcludenza e l’irrilevanza delle prove dedotte (cfr. Cass., Sez. 2, Sentenza n. 18025 del 2019; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 11176 del 08/05/2017; Cass., Sez. L, Sentenza n. 6570 del 02/04/2004; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 4718 del 29/08/1984).

Nelle argomentazioni con cui la pronuncia impugnata ha risolto il merito della lite era implicita la conferma del giudizio di irrilevanza delle prove già espresso dal Tribunale, non occorrendo una motivazione esplicita o un ulteriore provvedimento di rigetto.

A ciò deve aggiungersi che le Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 8054/2014) hanno precisato, alla luce della novella del 2012 ratione temporis applicabile, che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie. Nel caso di specie, la Corte ha puntualmente richiamato le ragioni alla base dell’accertamento del diritto di proprietà degli attori e del conseguente rigetto della domanda riconvenzionale per usucapione, richiamando gli elementi istruttori dai quali deduceva la relativa prova (produzioni documentali degli originari attori dell’atto di acquisto del loro dante causa e dell’acquisto mortis causa degli immobili, ricevute degli affitti percepiti da C.L. sul capannone; la scrittura privata dalla quale avrebbe dovuto emergere la donazione di fatto). La Corte, pertanto, ha fatto corretta applicazione della norma ricavabile dall’art. 116 c.p.c., in base alla quale, in tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonchè la facoltà di escludere, anche attraverso un giudizio implicito, la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (così Cass. n. 16499/2009; Cass. n. 11176/2017, per la quale, nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove salvo che non abbiano natura di prova legale – il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati).

I due motivi in conclusione devono essere dichiarati inammissibili, in quanto si traducono nel tentativo di ottenere una diversa e più favorevole valutazione delle prove, operazione non consentita in sede di legittimità.

Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 948 c.c., art. 115 c.p.c. e art. 2697, ex art. 360, comma 1, n. 3, per aver ritenuto che la prova della proprietà, ai fini dell’esercizio dell’azione di rivendica, possa essere fornita con la mera produzione di un titolo negoziale risalente nel tempo, nonostante la contestazione circostanziata da parte del convenuto circa l’avvenuta estinzione del preteso diritto di proprietà.

Anche questo motivo è inammissibile.

La Corte d’Appello ha correttamente richiamato il principio in materia di onere probatorio, in base al quale, in tema di azione di rivendicazione, ove il convenuto spieghi (come nel caso di specie) una domanda ovvero un’eccezione riconvenzionale, invocando un possesso ad usucapionem iniziato successivamente al perfezionarsi dell’acquisto ad opera dell’attore in rivendica (o del suo dante causa), l’onere probatorio gravante su quest’ultimo si riduce alla prova del suo titolo d’acquisto, nonchè della mancanza di un successivo titolo di acquisto per usucapione da parte del convenuto, attenendo il thema disputandum all’appartenenza attuale del bene al convenuto in forza dell’invocata usucapione e non già all’acquisto del bene medesimo da parte dell’attore (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8215 del 22/04/2016; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 7529 del 30/03/2006).

Così anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5161 del 10/03/2006, secondo la quale l’onere probatorio posto a carico dell’attore si attenua, poichè si riduce alla prova di un valido titolo di acquisto da parte sua e dell’appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assuma di aver iniziato a possedere, nonchè alla prova che quell’appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto.

A ciò si deve aggiungere che lo stesso convenuto ha affermato che i beni oggetto della controversia fossero in comproprietà di C.L. e C.D., oltre trent’anni prima dell’atto di citazione (cfr. ricorso p. 4), cioè dei danti causa degli attori. Appare, pertanto, opportuno richiamare il principio in tema di prova nell’azione di rivendicazione, secondo il quale il rigore di tale prova è attenuato se il convenuto riconosca che il bene rivendicato apparteneva un tempo ad una determinata persona, essendo sufficiente in tal caso che il rivendicante dimostri, mediante gli occorrenti atti di acquisto, il passaggio della proprietà da quella determinata persona fino a lui; al fine di tale dimostrazione non è necessaria, nè sufficiente, la continuità delle risultanze catastali ed ipotecarie, trattandosi di forme di pubblicità prive di effetti costitutivi sulla titolarità del diritto dominicale (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25793 del 14/12/2016; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 4774 del 13/07/1983).

Parimenti inconferente è il richiamo agli artt. 115 e 2697 c.p.c., con il quale si lamenta soltanto erronea valutazione di risultanze probatorie.

Per consolidato orientamento giurisprudenziale, la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie, basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. S.U. n. 16598/2016).

Nel giudizio in esame, non sono ravvisabili tali presupposti, dal momento che la Corte ha accertato la proprietà dei beni in capo agli attori sulla base dei titoli di acquisto del loro dante causa e tenuto conto del loro acquisto mortis causa, ha ritenuto, poi, non provata l’usucapione dei beni suddetti nè da parte di C.L. nè da parte del ricorrente.

La Corte d’Appello correttamente ha escluso che S.L. potesse avvalersi dell’accessione del possesso rispetto al dante causa C.L., proprio perchè il possesso di quest’ultimo non era idoneo a integrare i requisiti richiesti per l’acquisto della proprietà per usucapione. La valutazione della Corte è conforme alla giurisprudenza di legittimità che ha costantemente affermato che in tema di comunione, il comproprietario che sia nel possesso del bene comune può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri comunisti, senza necessità di interversione del titolo del possesso ex art. 1164 c.c., ma, se già possiede animo proprio ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, a tal fine occorrendo che goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare in modo univoco la volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, senza che possa considerarsi sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall’uso della cosa comune (cfr. Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 24781 del 19/10/2017; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 23539; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 12260 del 20/08/2002).

L’utilizzazione della cosa comune da parte di uno dei partecipanti alla comunione, anche se più intensa o diversa da quella degli altri (comportamento questo che deve presumersi compiuto per mera tolleranza degli altri partecipanti alla comunione, secondo Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12231 del 25/11/1995) non vale di per sè sola a mutare il titolo del possesso, e, quindi, ad attrarre la cosa comune o parte di essa nella sfera della disponibilità esclusiva del singolo comunista, il quale, ove intenda espandere il suo possesso in via esclusiva sul bene, pur non dovendo necessariamente compiere gli atti di interversione del possesso previsti dagli artt. 1141 e 1164 c.c., rispettivamente per la mutazione della detenzione in possesso, e del possesso di un diritto reale su cosa altrui in possesso corrispondente all’esercizio della proprietà, deve tuttavia concretarsi in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo, animo domini, sulla cosa, incompatibile con il permanere del compossesso altrui (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5127 del 26/05/1999).

A tal fine non sono sufficienti atti soltanto di gestione consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri, o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo a un’estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 9100 del 12/04/2018; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16841 del 11/08/2005; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 27287 del 09/12/2005).

La Corte d’Appello correttamente ha escluso la rilevanza delle ricevute degli affitti percepiti da C.L. sul capannone, poichè trattandosi di atti di mera gestione, ben potevano essere effettuati nella tolleranza degli altri comproprietari. Neppure le prove addotte e non ammesse dal ricorrente conforterebbero la connotazione del possesso come esclusivo, vertendo quasi esclusivamente sulla dimostrazione che il capannone era stato locato e che il C. ne percepiva il canone.

In secondo luogo, la Corte d’Appello ha ritenuto provata la proprietà dei beni controversi in capo agli attori a causa dell’impossibilità di attribuire rilevanza alla asserita donazione di fatto del capannone o in subordine all’usucapione del bene da parte di S.L..

La ratio decidendi rispetto alla prima questione è ravvisabile nel fatto che il bene donato fosse diverso da quello oggetto di causa (affermazione questa non contestata dal ricorrente) e soprattutto che fosse una scrittura sottoscritta dal solo asserito donante e quindi priva di tutti i requisiti di forma previsti per la donazione, con la conseguenza che, rispetto alla seconda questione, non è ravvisabile un titolo astrattamente idoneo a giustificare l’usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c..

L’applicazione della norma, infatti, postula l’identità tra l’immobile posseduto e quello acquistato in buona fede a non domino, corrispondenza che va accertata in base a una distinta valutazione del titolo di acquisto e del possesso, rimanendo preclusa la possibilità di integrare le risultanze dell’uno con quelle dell’altro (Cass., Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 16152 del 17/06/2019; Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 10873 del 07/05/2018; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 874 del 17/01/2014; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 866 del 26/01/2000). Ne consegue che non è titolo idoneo, ai sensi del citato art. 1159 c.c., quello relativo ad immobile del tutto e in parte diverso dall’immobile oggetto del possesso decennale (cfr. Cass., sez. 2, Sentenza n. 3362 del 06/06/1985).

Inoltre, affinchè possa invocarsi la previsione di cui all’art. 1159 c.c., è necessario che l’atto traslativo non sia affetto da nullità, poichè solo a tale condizione è possibile individuare un titolo astrattamente idoneo, con la conseguenza che l’atto invocato dal ricorrente, rappresentato da una pretesa donazione sottoscritta dal solo donante e priva dei requisiti di forma previsti per l’atto di donazione, essendo affetto da nullità strutturale (e non anche come per il caso di donazione di cosa altrui per la quale la nullità è correlata al difetto di titolarità del bene donato ricadente poi sulla causa della donazione), non consente di invocare gli effetti in tema di acquisto a titolo originario in tempo ridotto (così Cass. n. 3466/1982, in tema di donazione priva dei requisiti di forma, attesa l’assenza dei testimoni)

Alla luce di ciò, correttamente è stata esclusa la possibilità di invocare l’usucapione sia ordinaria che abbreviata.

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Nulla a disporre quanto alle spese nei confronti della parte rimasta intimata.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2021

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