Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4635 del 19/02/2021

Cassazione civile sez. VI, 19/02/2021, (ud. 15/01/2021, dep. 19/02/2021), n.4635

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1962-2019 proposto da:

G.M.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE

FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato CORINNA MARZI, e

rappresentata e difesa dall’avvocato MAURIZIO LIOTTA giusta procura

in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

G.A., domiciliato in ROMA, presso la Cancelleria della Corte

di Cassazione, e rappresentato e difeso unitamente dall’avvocato

GUGLIELMO LI CALZI giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2151/2018 della CORTE d’APPELLO di PALERMO,

depositata il 30/10/2018;717

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/01/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate dalla ricorrente.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Il Tribunale di Agrigento con sentenza del 24 giugno 2014 dichiarava che la quota di legittima dell’attrice G.M.R.L. era stata lesa nella misura di Euro 91.517,99, disponendo la reintegra della quota stessa con l’attribuzione in natura dei beni ivi indicati, con condanna del convenuto G.A. al versamento di un conguaglio in denaro; dichiarava altresì lo scioglimento della comunione ereditaria della defunta F.T.C., madre delle parti in causa, disponendo l’estrazione a sorte delle quote individuate in sentenza.

Infine, rigettava la domanda di invalidità del testamento olografo.

La Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza n. 2151 del 30/10/2018 ha rigettato l’appello principale dell’attrice nonchè quello incidentale del convenuto, condannando l’appellante al rimborso in favore della controparte delle spese del grado.

Nel merito rilevava che mentre il primo ed il terzo motivo dell’atto di appello principale soddisfacevano i requisiti di forma – sostanza prescritti dall’art. 342 c.p.c., anche alla luce del tenore della norma, come novellato nel 2012, non altrettanto era a dirsi quanto al secondo motivo di appello. Con lo stesso, infatti, a fronte dell’affermazione del Tribunale secondo cui “le allegazioni fatte dall’attrice nella memoria ex art. 184 c.p.c. relative alle presunte donazioni indirette di immobili in favore di G.A. fatte da entrambi i genitori tra il 1984 ed il 1986, nonchè la produzione documentale effettuata dall’attrice in comparsa conclusionale, non potevano essere prese in considerazione in quanto le prime erano state fatte successivamente al maturare delle preclusioni assertive mentre i documenti nuovi erano stati versati dopo il maturare delle preclusioni istruttorie”, non erano state formulate specifiche critiche rispetto a tale ragionamento, essendosi l’appellante limitata a riproporre la propria tesi in merito all’esistenza di una donazione indiretta della madre in favore del figlio derivante dal dedotto pagamento del debito di cui alle cambiali agrarie che gravavano sui beni in precedenza donati sempre al convenuto dal padre.

Quanto al primo motivo che investiva la dedotta invalidità del testamento, e che esula ormai dall’attuale materia del contendere, la Corte riteneva corretta la conclusione del giudice di prime cure circa l’insussistenza della dedotta incapacità.

Infatti, dall’insieme degli elementi istruttori acquisiti emergeva che la de cuius era stata in buone condizioni di salute, anche mentale, sino al 2002, allorquando a far data dai primi mesi dell’anno era iniziato un decadimento fisico che l’aveva poi resa incapace di attendere anche alle più elementari funzioni.

In relazione al terzo motivo, la sentenza d’appello rilevava che le critiche alla CTU, quanto alla corretta individuazione del valore dei beni, non meritavano accoglimento, ben potendo il giudice attenersi alle indicazioni del consulente d’ufficio, anche in assenza di una specifica motivazione, che invece si impone allorchè intenda discostarsene.

Nè apparivano condivisibili le osservazioni svolte dal consulente di parte, trattandosi di mere allegazioni difensive, prive di autonomo valore probatorio.

Era infine disatteso anche l’appello incidentale, con il quale ci si doleva della compensazione delle spese di lite, atteso che la domanda di riduzione, sia pure in misura inferiore rispetto a quanto richiesto dall’attrice, era stata accolta, evidenziandosi quindi una reciproca soccombenza.

G.M.R.L. ha proposto ricorso avverso la sentenza di appello sulla base di tre motivi illustrati da memorie.

G.A. ha resistito con controricorso.

Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 737 c.c. e degli artt. 183 e 342 c.p.c., nonchè omessa pronuncia su di una domanda della parte con la violazione dell’art. 112 c.p.c..

Il motivo verte intorno al mancato accoglimento della richiesta di considerare ai fini della collazione la donazione indiretta consistita nel fatto che la de cuius, a seguito della donazione fatta in favore del convenuto di un bene immobile, che garantiva un debito rappresentato da cambiali agrarie di notevole entità, aveva, anche dopo la morte del coniuge, provveduto al versamento delle somme necessarie ad estinguere il debito garantito, e ciò animata da spirito di liberalità in favore del figlio.

Si deduce che con la prima memoria ex art. 183 c.p.c. del 6/3/2007 aveva evidenziato tale situazione ai fini di tenere conto della donazione in vista della domanda proposta, e che le relative richieste istruttorie erano state poi reiterate anche in sede di precisazione delle conclusioni ed in appello.

La decisione alla quale è pervenuta la Corte d’Appello, quanto all’inammissibilità del relativo motivo di appello, è però erronea, in quanto non tiene conto del fatto che la memoria nella quale la questione è stata sollevata non era una memoria di cui all’art. 184 c.p.c., ma la prima delle memorie autorizzate ai sensi dell’art. 183, comma 5, nella formulazione anteriore alle modifiche del 2005.

Ne consegue che erano tempestive sia la deduzione in fatto che la produzione documentale effettuata con la medesima memoria, con la conseguenza che la decisione dei giudici di appello si sostanzia in un’omissione di pronuncia su di uno specifico motivo di appello, attesa anche la necessità di tenere conto delle donazioni ai fini della collazione, stante l’automaticità del relativo meccanismo legale.

Il motivo è infondato.

Premesso che la dedotta violazione del combinato disposto dell’art. 737 c.c. e dell’art. 183 c.p.c., non si confronta con la giurisprudenza di questa Corte che ha invece affermato che (Cass. n. 29372/2011), successivamente alla costituzione dei convenuti non può più essere chiesta una formazione delle quote diversa da quella cui il giudice debba attenersi in relazione al patrimonio del “de cuius” individuato dalle parti nei loro scritti difensivi iniziali, così che la deduzione del fatto che un condividente sia tenuto alla collazione di un bene donato, costituendo eccezione in senso proprio, in quanto diretta a paralizzare la pretesa di tale condividente a partecipare alla divisione secondo quanto gli spetterebbe ove tale donazione non avesse avuto luogo, è soggetta alle preclusioni di cui all’art. 167 c.p.c., comma 2 (dal che se ne ricava che la deduzione di altre donazioni ai fini della collazione compiuta anche con la prima memoria di cui al previgente art. 183 c.p.c., comma 5, sarebbe tardiva), occorre sottolineare che la ratio decidendi assunta sul punto dalla Corte d’Appello è nel senso dell’inammissibilità del motivo di appello per la mancata confutazione delle ragioni addotte dal Tribunale.

L’affermazione resa al riguardo, con la specifica dichiarazione dell’inammissibilità del motivo di gravame denota altresì come sia insussistente la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., essendo evidentemente esclusa la ricorrenza del vizio di omessa pronuncia.

Residua unicamente la possibilità di dover valutare la violazione dell’art. 342 c.p.c. che ad avviso della Corte è però da escludere.

In tal senso, come riportato nella narrazione che precede, i giudici di appello hanno sottolineato come già il Tribunale avesse escluso la possibilità di potere esaminare la ricorrenza di una donazione indiretta in relazione al pagamento di cui alle cambiali agrarie gravanti sul bene donato al convenuto (e di poter esaminare i documenti oggetto invece del terzo motivo del presente ricorso) in quanto rappresentava una deduzione svolta allorquando erano maturate le preclusioni assertive.

Ritiene il Collegio che il giudizio espresso dalla sentenza gravata quanto alla mancata formulazione nel secondo motivo di appello di “pertinenti ragioni di dissenso con riferimento agli accertati errori procedurali, limitandosi a riproporre la propria tesi concernente la pretesa donazione indiretta in favore dell’appellato…” sia incensurabile.

Come si ricava dalla lettura dell’atto di appello, il cui accesso è consentito alla Corte in ragione della denuncia di un error in procedendo, e come emerge anche dalla stessa esposizione della ricorrente a pag. 11, l’appellante non ha adeguatamente colto il reale contenuto della decisione resa sul punto dal Tribunale, che aveva sostanzialmente rilevato l’inammissibilità della deduzione per la sua tardiva formulazione, dolendosi invece dell’erroneità di un rigetto, lamentando che non vi fosse stato un adeguato apprezzamento delle risultanze documentali, senza trarre quindi le dovute conseguenze dalle circostanze fattuali che dalle stesse emergevano.

Viceversa, ai fini dell’ammissibilità dell’appello, avrebbe dovuto in quella sede lamentare l’erronea soluzione in rito alla quale era pervenuto il giudice di prime cure, e non anche dolersi dell’erroneità della decisione sul presupposto che fosse intervenuto un rigetto nel merito.

Le considerazioni solo in questa sede svolte per sostenere la tempestività dell’allegazione circa l’esistenza di una donazione indiretta avvenuta con la memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 5, avrebbero dovuto essere dedotte correttamente come motivo di appello, di tal che tale omissione, a fronte della valutazione di inammissibilità del motivo di appello per difetto di specificità, non può essere ora recuperata, essendone preclusa la deduzione per effetto del giudicato interno venutosi a formare in ragione dell’incensurabilità del rilievo di inammissibilità del motivo di appello.

Analoghe considerazioni vanno svolte anche in relazione al terzo motivo di ricorso con il quale si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 184 bis e 345 c.p.c., con omessa pronuncia su di una domanda della parte e conseguente violazione dell’art. 112 c.p.c..

Assume la ricorrente che, con la comparsa conclusionale in Tribunale del 22/5/2014, aveva evidenziato una questione non esplorata nella CTU, e scaturente dal fatto che solo a seguito di richieste di informazioni a vari istituti di credito era venuta ad apprendere che la de cuius era titolare di vari rapporti bancari dei quali occorreva tenere conto ai fini della determinazione del patrimonio della de cuius, anche in vista del calcolo della quota di legittima.

Di tale documentazione aveva chiesto tenersene conto anche con l’atto di appello con la conseguenza che la decisione gravata ha violato l’art. 112 c.p.c. per non essersi pronunciata su tale richiesta.

Osserva il Collegio che i giudici di appello, nel dichiarare l’inammissibilità del secondo motivo di appello, hanno fatto riferimento sia alla pretesa della ricorrente di tenere conto di una presunta donazione indiretta effettuata in favore del convenuto, sia alla richiesta di utilizzare i documenti depositati unitamente alla comparsa conclusionale (cfr. pag. 11).

La Corte d’Appello ha però rilevato che il Tribunale aveva escluso l’utilizzo di tale documentazione in quanto prodotta a preclusioni istruttorie abbondantemente maturate, aggiungendo che tale ratio di carattere processuale non era stata confutata con un motivo specifico di appello.

Tale conclusione risulta incensurabile alla luce del fatto che la stessa ricorrente non riferisce di uno specifico motivo di appello sul punto, ma si limita a richiamare il contenuto delle conclusioni dell’atto di appello, nelle quali sollecitava l’ammissione della documentazione in esame, senza però prendere specifica posizione quanto al rilievo di tardività della sua produzione.

Va quindi esclusa la violazione dell’art. 112 c.p.c., sia perchè risultava carente un motivo di appello specificamente mirato alla decisione resa dal Tribunale, sia perchè comunque una risposta è stata data dalla Corte d’Appello.

Ma la censura è infondata anche in relazione alla dedotta violazione delle regole di rito, atteso che, come si ricava evidentemente dalla narrazione della ricorrente, i documenti di cui la parte intende avvalersi altro non sono che le risposte date dai vari istituti di credito alle richieste di informazioni che la G. aveva avanzato in ordine alla individuazione dei rapporti bancari intrattenuti in vita dalla de cuius. E’ pur vero che tali risposte recano una data successiva alla maturazione delle preclusioni istruttorie, ma è anche vero che ciò è dovuto al fatto che la richiesta di informazioni è stata tardivamente avanzata dalla ricorrente, sebbene potesse essere formulata in epoca di gran lunga anteriore trattandosi di un diritto spettantele in qualità di (co)erede nei confronti degli istituti di credito.

Ne deriva che la documentazione attestante l’esistenza dei rapporti bancari facenti capo alla de cuius era preesistente al maturare delle preclusioni e che la ricezione delle risposte da parte delle banche a preclusioni maturate è circostanza imputabile all’inerzia della stessa ricorrente, il che esclude anche la possibilità di invocare il dettato dell’art. 345 c.p.c., avuto riguardo al fatto che nella fattispecie (trattandosi di giudizio di appello introdotto in data successiva al 12 settembre 2012), trova applicazione la nuova formulazione dell’art. 345 c.p.c. che consente alla parte le nuove prove in appello solo se non proposte o prodotte in primo grado per causa ad essa non imputabile, condizione questa, per quanto detto, che nella fattispecie non ricorre.

Il secondo motivo di ricorso denuncia l’omessa pronuncia su una domanda formulata dalla parte con la violazione dell’art. 112 c.p.c..

Si deduce che con il terzo motivo di appello si lamentava che il Tribunale non avesse tenuto conto dei rilievi mossi dal proprio CTP all’elaborato peritale d’ufficio, e che tale censura era stata disattesa dalla sentenza gravata, assumendosi che ben poteva il giudice limitarsi ad aderire alle conclusioni dell’ausiliario d’ufficio, non potendosi prendere in considerazione le critiche del CTP, posto che la relativa consulenza costituisce una mera allegazione difensiva di carattere tecnico priva di valore probatorio.

Anche a tal riguardo, tenuto conto del contenuto della sentenza impugnata, deve escludersi che ricorra il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice di appello che ha fornito risposta espressa al motivo di appello volto a riproporre la necessità di tenere conto delle osservazioni del consulente di parte.

Quanto invece alla dedotta carenza di adeguata motivazione per disattendere le osservazioni del proprio consulente, si rileva che secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 15147/2018) qualora il giudice del merito aderisca al parere del consulente tecnico d’ufficio, non è tenuto ad esporne in modo specifico le ragioni poichè l’accettazione del parere, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce adeguata motivazione, non suscettibile di censure in sede di legittimità, ben potendo il richiamo, anche “per relationem” dell’elaborato, implicare una compiuta positiva valutazione del percorso argomentativo e dei principi e metodi scientifici seguiti dal consulente, mentre nell’ipotesi in cui alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio siano state avanzate critiche specifiche e circostanziate, sia dai consulenti di parte che dai difensori, il giudice del merito, per non incorrere nel vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5, è tenuto a spiegare in maniera puntuale e dettagliata le ragioni della propria adesione all’una o all’altra conclusione (conf. Cass. n. 23637/2016; Cass. n. 10688/2008).

Tuttavia, una volta esclusa la ricorrenza di un’ipotesi di motivazione apparente ovvero abnorme, in contrasto con il principio del minimo costituzionale della motivazione, quale delineato da Cass. S.U. n. 8054/2014, il vizio potrebbe essere dedotto solo ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1, il che però risulta precluso nella fattispecie in ragione dell’applicabilità ratione temporis dell’art. 348 ter c.p.c., u.c., atteso che si tratta di sentenza di appello resa all’esito di un giudizio di impugnazione introdotto in data successiva al 12 settembre 2012, e che ha confermato quella di primo grado sulla base delle medesime ragioni inerenti alle questioni di fatto poste a base della decisione del Tribunale.

Anche tale motivo deve quindi essere disatteso.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater, – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2021

 

 

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