Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4627 del 22/02/2017

Cassazione civile, sez. lav., 22/02/2017, (ud. 01/12/2016, dep.22/02/2017),  n. 4627

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28704-2013 proposto da:

F.A. & FIGLI S.P.A., P.I. (OMISSIS), in persona del

legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR

presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO FINOCCHIARO, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

AL.PA.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1248/2012 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 10/12/2012 R.G.N. 936/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/12/2016 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso, in subordine rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di Catania, con la sentenza n. 1248 del 2012, depositata il 10 dicembre 2012, ha rigettato l’impugnazione proposta dalla società A.F. & Figli spa nei confronti di A.P., in ordine alla sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Catania.

2. Il giudice di primo grado aveva accolto la domanda, proposta dal lavoratore, dipendente dal 1998 della suddetta società, inquadrato al quarto livello del CCNL commercio, con la qualifica di banconista di macelleria, di declaratoria dell’illegittimità del licenziamento disciplinare irrogato al medesimo, con lettera del 5 luglio 2004, in relazione agli addebiti già oggetto di contestazione del 4 giugno 2004, consistenti:

nel non avere provveduto a esporre adeguatamente la carne nei banchi del reparto macelleria il 1 giugno 2004;

nell’avere disatteso le direttive datoriali impartite lo stesso giorno alle h. 18.15, non provvedendo all’immediata esposizione della merce sui banchi macelleria e al riassortimento degli stessi in vista della successiva giornata lavorativa;

nel non aver ottemperato alle direttive datoriali comportanti l’obbligo del dipendente di attivarsi per l’approvvigionamento della carne suina;

nel non aver provveduto alla rimozione dalla cella frigorifera di Kg. 3,1 di salsiccia avariata.

3. Il Tribunale aveva accolto la domanda e aveva ordinato la reintegra nel posto di lavoro e il pagamento della retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegra, oltre al versamento dei contributi previdenziali assistenziali.

4. La Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado.

5. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la società A.F. & Figli spa, prospettando cinque motivi di ricorso (indicati in ricorso con i numeri 1, 2, 3, 5, 6).

6. Il lavoratore è rimasto intimato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il motivo n. 1 di ricorso è dedotto il vizio di omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti e, segnatamente, in relazione al fatto che tutti gli addetti al reparto macelleria avevano il compito di garantire la sicurezza alimentare, in ordine ai tempi di effettuazione dei controlli e della cadenza con cui gli addetti dovevano relazionare circa la presenza di carne avariata, e circa le modalità di smaltimento della carne avariata (art. 360 c.p.c., n.5).

Con riguardo all’addebito relativo alla salsiccia avariata, rileva la ricorrente che anche sull’ Al. gravavano gli obblighi di sicurezza per igiene alimentare, e che non era stato avvisato il superiore gerarchico che poteva dare l’ordine di distruzione della merce che era stata trovata su un vassoio nella cella frigorifera e non nella scatola dove dovevano essere messe le materie di scarto, se superiori a Kg. 1,5, per poi essere collocate in specifica cella frigorifera.

2. Il motivo non è fondato.

Occorre rilevare che nel caso in esame, la sentenza impugnata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012. Trova dunque applicazione il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, le Sezioni Unite hanno chiarito che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito dalla L. n. 134 del 2012, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Il vizio di motivazione si restringe a quello di violazione di legge. La legge in questo caso è l’art. 132 c.p.c., che impone al giudice di indicare nella sentenza “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”. Perchè la violazione sussista, secondo le Sezioni Unite, si deve essere in presenza di un vizio “così radicale da comportare con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per mancanza di motivazione”.

Ciò non ricorre nel caso di specie.

La Corte d’Appello ha affermato, vagliate le risultanze istruttorie secondo corretti canoni, che il ricorrente non era responsabile del reparto, perciò non era tenuto al controllo dell’operato degli altri addetti al reparto macelleria e che non era provato che egli avesse messo da parte le salsicce avariate. Era plausibile la circostanza riferita dal ricorrente che tale attività fosse stata posta in essere da altro dipendente in attesa dell’intervento del responsabile. Comunque non era provato che i dipendenti avessero a disposizione una scatola sigillata dove mettere la merce avariata.

3. Con il motivo n. 2 è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 110 c.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume la ricorrente che si verteva in ipotesi di violazione omissiva, per cui anche l’ Al. avrebbe dovuto attivarsi, dando notizia della merce avariata da rimuovere.

4. Il motivo non è fondato in quanto la Corte d’Appello ha ritenuto non ravvisabile in capo all’ Al. quanto allo stesso disciplinarmente contestato, nè poteva ampliarsi l’oggetto della contestazione.

Nella sentenza d’appello, si rileva che la lettera di contestazione affermava, con riguardo al capo in esame: “in occasione della verifica della cella frigorifera l’unica carne rinvenuta erano 3,1 Kg. di salsiccia putrescente fetida maleodorante perciò non commerciabili in quanto rifiuto che doveva già essere stato eliminato secondo le disposizioni reiteratamente impartite e l’attenzione al pieno rispetto della normativa in materia igienico alimentare”.

Dunque, veniva contestato all’ Al. uno specifico inadempimento contrattuale, che, attesa l’immutabilità della contestazione, non può comprendere comportamenti ulteriori, come dedotti dalla ricorrente in ragione delle disposizioni invocate.

La Corte d’Appello, nel fare corretta applicazione dei principi in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, ha affermato che nel caso in esame, la carne avariata pesava oltre 1,5 Kg, e che, in conformità alla prassi riferita dagli addetti al reparto, era stata collocata in una vaschetta nella cella frigorifera in attesa che il direttore disponesse in ordine alla eliminazione.

Il ricorrente non era responsabile del reparto, non era pertanto tenuto al controllo dell’operato degli altri addetti al reparto macelleria e non era provato che il ricorrente medesimo avesse messo da parte la salsiccia avariata. Era plausibile la circostanza che tale attività fosse stata posta in essere da altro dipendente in attesa dell’intervento del responsabile. Comunque non era provato che i dipendenti avessero a disposizione una scatola da sigillare ove collocare la merce avariata.

In tale situazione, doveva ritenersi non provato l’inadempimento consistente nel non aver provveduto alla eliminazione della merce avariata. La collocazione della merce avariata in una vaschetta in attesa del controllo del responsabile corrispondeva alla prassi seguita nel punto vendita. Non risultava, peraltro, neanche provato quando tale merce fosse stata messa da parte.

5. Con il motivo n. 3 è dedotta la censura di omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti e, segnatamente, in ordine al mancato approvvigionamento della carne e sul riassortimento dei banchi (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5).

La Corte d’appello, in particolare, ha ritenuto non sussistere l’addebito disciplinare perchè la responsabilità dell’ordine per il riassortimento della carne era di altri. Il ricorso censura tale statuizione atteso che nella testimonianza del R. non si rintraccerebbe che era il F. il responsabile degli ordini, sia perchè il lavoratore una volta chiamato dal titolare dell’azienda, che gli aveva segnalato la mancanza, aveva taciuto in ordine alle condizioni in cui si trovava la macelleria, e quindi era venuto meno a quei doveri di correttezza buona fede e diligenza che dovevano caratterizzare anche la propria prestazione.

6. Il motivo che ricade nel testo novellato dell’art. 360 c.p.c., n. 5, secondo l’interpretazione datane dalle Sezioni Unite, come esposto nell’esame del motivo n. 1, non è fondato, atteso che la sentenza espone le ragioni della decisione assunta all’esito della complessiva corretta valutazione delle risultanze istruttorie.

La Corte d’Appello ha affermato che dall’esame complessivo delle dichiarazioni testimoniali, e non dunque dalla sola testimonianza del teste R., emergeva che compito dell’approvvigionamento era affidato al F. soltanto in caso di sua assenza ad altri dipendenti. Il F. era in servizio il giorno 1 giugno 2004 e anzi lo stesso giorno aveva telefonato al responsabile delle vendite per anticipare la consegna di carne suina; i dipendenti erano tenuti a segnalare la carenza ma è evidente che se tale segnalazione era stata effettuata dal caporeparto F. doveva ritenersi che gli altri non fossero tenuti a effettuare la segnalazione.

La Corte d’Appello riteneva che la valutazione del materiale istruttorio effettuata dal giudice di primo grado fosse condivisibile. Infatti il datore di lavoro aveva contestato al lavoratore di non aver provveduto a rifornire il banco della carne dopo l’espressa richiesta effettuata dal signor A.. Al riguardo, dall’istruttoria era emerso che l’ispettore B. e il signor A., intorno alle 17,15-17,30 constatarono che il banco della carne era poco assortito, mancava quasi del tutto la carne di suino. L’Ateo richiamò F. e Al. invitandoli ad assortire il banco al fine di garantire la varietà della merce esposta. Alle 21 l’ispettore A. e il responsabile del punto vendita controllarono lo stato del banco e riscontrarono che lo stesso era ancora sguarnito. Il lavoratore assumeva di aver provveduto a riempire banco sia durante la mattina (il proprio turno finiva alle h. 12,00) sia dopo il richiamo dell’Ateo con la carne che era disponibile. La merce fu regolarmente venduta per tale ragione alle 21 era nuovamente sfornito il banco. L’ Al. negava di aver ricevuto l’ordine di lasciare alle 21 il banco pronto per l’apertura il giorno successivo, nè tale circostanza è stata riferita da alcun teste. Inoltre gli altri dipendenti avevano riferito che non vi era una direttiva aziendale che imponeva ai dipendenti di riassorbire i banchi la sera precedente o quanto meno preparare la merce da esporre.

I banchi venivano riassortiti la mattina prima dell’apertura e poi, via via, durante il corso della giornata. La deposizione del teste B., ispettore, che aveva riferito di una direttiva nel senso di preparare i banchi dal giorni prima era rimasta rimasta isolata e non confermata da altri testi.

La Corte d’Appello, dunque, con compiuta motivazione che conferma la valutazione del giudice di primo grado alla luce del sopra richiamato vaglio istruttorio, ha ritenuto che non fosse provata alcuna inadempienza dell’ Al. in quanto l’aver trovato i banchi di carne sfornite alle h. 17,30 non poteva essere addebitate ricorrente che aveva finito il turno alle 12, e dunque era normale che nelle ore precedenti la carne fosse stata venduta, e allo stesso modo la circostanza che alle 21.00 il banco fosse nuovamente vuoto poteva dipendere dal fatto che la merce fosse stata regolarmente venduta e dall’assenza (non addebitabile) ricorrente di carne suina all’interno della cella frigorifera.

7. Con il motivo n. 5 (manca un motivo n. 4) è dedotta la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 e dell’art. 1364 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e omesso esame circa il licenziamento collettivo successivamente intervenuto (art. 360 c.p.c., n. 5).

La ricorrente deduce che il lavoratore veniva poi licenziato, in ragione di licenziamento collettivo del 1 aprile 2010 (ricezione da parte del lavoratore in data 8 aprile 2010), e che tale licenziamento collettivo non veniva impugnato, per cui la Corte di Appello non avrebbe potuto ordinare la reintegra e il risarcimento fino alla reintegra.

Gli effetti della reintegra dovevano essere limitati all’8 aprile 2010.

8. Il motivo è fondato e deve essere accolto.

La Corte d’Appello nello svolgimento del fatto dà atto che la società datrice di lavoro, alla prima udienza, aveva esposto di aver proceduto a licenziamento collettivo per chiusura dell’azienda, che non era stato contestato, per cui il rapporto di lavoro doveva ritenersi cessato alla data del licenziamento collettivo.

Il giudice di secondo grado, tuttavia, non ha statuito in merito a tale deduzione, con riguardo alle ricadute sull’accertata illegittimità del licenziamento disciplinare rispetto a reintegra e risarcimento.

9. All’accoglimento del motivo n. 5, consegue l’assorbimento del motivo n. 6, con il quale, attraverso la deduzione del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, si contesta il rigetto della doglianza relativa all’aliunde perceptum, atteso che il lavoratore aveva specifiche competenze per cui si poteva ritenere che non fosse rimasto senza lavoro e spettava allo stesso provare di non aver avuto altra occupazione.

10. La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso (motivo n. 5), assorbito il sesto (motivo n. 6), rigetta gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Catania in diversa composizione.

PQM

La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, assorbito il sesto, rigetta gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Catania in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 1 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2017

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