Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4625 del 19/02/2021

Cassazione civile sez. I, 19/02/2021, (ud. 04/11/2020, dep. 19/02/2021), n.4625

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 4346/2019 R.G. proposto da:

D.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Enrica

Inghilleri, con domicilio eletto in Roma, piazza dei Consoli, n. 62;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e

difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in

Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze n. 1583/18,

depositata il 28 giugno 2018.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 4 novembre

2020 dal Consigliere Mercolino Guido.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 28 giugno 2018, la Corte d’appello di Firenze ha rigettato il gravame interposto da D.A., cittadino del Gambia, avverso l’ordinanza emessa il 4 agosto 2017 dal Tribunale di Firenze, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato o, in subordine, della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dall’appellante.

Premesso che a sostegno della domanda il D. aveva riferito di essersi allontanato dal proprio Paese dopo essere evaso dal carcere in cui era detenuto per essere stato arrestato mentre trasportava per conto di uno zio una scatola contenente marijuana, la Corte ha ritenuto irrilevanti le deduzioni concernenti la credibilità dei fatti narrati, osservando che la situazione esposta non era riconducibile alle fattispecie previste dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a) e b) e ritenendo priva di riscontro l’affermazione secondo cui, qualora fosse stato tradotto in carcere in Gambia, l’appellante avrebbe corso il rischio di essere sottoposto a torture o a trattamenti inumani o degradanti. Ha ritenuto parimenti insussistente la fattispecie di cui all’art. 14 cit., lett. c), osservando, in ordine alla protezione umanitaria, che non risultava provata nè l’esistenza in Gambia di una situazione di violazione dei diritti umani nè l’integrazione lavorativa dell’appellante in Italia, essendosi egli dedicato esclusivamente ad attività di volontariato ed alla frequentazione di corsi di italiano e di formazione professionale.

2. Avverso la predetta sentenza il D. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi. Il Ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), e del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, censurando la sentenza impugnata per aver escluso il rischio di sottoposizione a tortura o a trattamenti inumani o degradanti in virtù della mera qualificazione dell’illecito da lui commesso come reato comune, senza tener conto delle informazioni da lui fornite, provenienti da fonti internazionali accreditate ed aggiornate, da cui risultavano il sovraffollamento delle carceri del Gambia e la conseguente gravità delle condizioni igienico-sanitarie, nonchè le modalità di trattamento dei detenuti, la corruzione delle guardie carcerarie ed il sistematico ricorso alla tortura ed a trattamenti inumani e degradanti. Rileva che la Corte d’appello si è limitata a richiamare le informazioni fornite da fonti internazionali con esclusivo riferimento all’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), senza disporre una ricognizione della situazione carceraria del Gambia da parte della Commissione nazionale per il diritto d’asilo e senza tener conto della persistente situazione d’instabilità politica in atto nel suo Paese, nonostante il processo di transizione alla democrazia avviato a seguito delle ultime elezioni presidenziali.

1.1. Il motivo è parzialmente fondato.

Nell’escludere la riconducibilità della vicenda personale allegata dal ricorrente alle fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), ai fini del rigetto della domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, la sentenza impugnata si è infatti limitata ad osservare che i timori prospettati dal D. per l’ipotesi in cui fosse stato rimpatriato avevano ad oggetto la sottoposizione a processo penale ed all’espiazione di una pena per la commissione di un reato comune, rilevando inoltre la mancata indicazione di fonti a sostegno dell’affermazione secondo cui, se tradotto in carcere in Gambia, il ricorrente avrebbe corso il rischio di essere assoggettato a tortura o a un trattamento inumano.

Tale ragionamento può ritenersi sostanzialmente condivisibile in riferimento alla fattispecie di cui all’art. 14 cit., lett. a), la quale postula l’esposizione del richiedente al rischio di subire una condanna a morte o l’esecuzione della pena di morte, nella specie mai prospettato, essendosi il ricorrente limitato ad allegare il timore di dover affrontare un processo e di essere condannato ad una pena detentiva, in conseguenza dell’arresto per essere stato trovato in possesso di sostanze stupefacenti. Coerente con questa impostazione deve ritenersi anche l’affermazione dell’irrilevanza delle censure proposte dal ricorrente in ordine all’attendibilità della vicenda personale allegata a sostegno della domanda, dal momento che la veridicità della stessa non consentirebbe comunque di pervenire al riconoscimento della protezione sussidiaria, non ricorrendo i requisiti prescritti dalla norma invocata.

Quanto invece alla fattispecie di cui alla lett. b), consistente nell’esposizione al rischio di essere sottoposto a tortura o a un trattamento inumano o degradante, l’impossibilità di ritenere ingiustificati o discriminatori l’esercizio dell’azione penale e l’esecuzione della pena, alla luce della mancata contestazione da parte del ricorrente dell’avvenuta commissione del reato ascrittogli e della mancata allegazione dell’inadeguatezza delle garanzie assicurate dal sistema giudiziario del Paese di origine, nonchè della non riconducibilità dell’accusa ai motivi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, non consente di escludere, in linea di principio, la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura di protezione, in relazione alla denunciata disumanità del sistema penitenziario del Gambia e delle gravi condizioni nelle quali il ricorrente verrebbe conseguentemente a trovarsi nell’espiazione della pena detentiva. Contrariamente a quanto sostenuto dalla sentenza impugnata, l’allegazione di tali condizioni non era rimasta del tutto sfornita di supporto probatorio, avendo il ricorrente invocato, sia in primo grado che nell’atto di appello, informazioni fornite da fonti internazionali autorevoli ed aggiornate (rapporti di Amnesty International relativi agli anni 2013, 2015 e 2016, rapporto di Human Rights Watch del 16 settembre 2015), da cui si desumevano la precarietà della situazione igienico-sanitaria degl’istituti di pena del Gambia e le degradanti modalità di trattamento dei detenuti. In quanto idoneo a confortare le dichiarazioni rese dal ricorrente, il richiamo a tali informazioni avrebbe imposto alla Corte d’appello di attivarsi, conformemente a quanto previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, adoperando i propri poteri istruttori officiosi per verificare la fondatezza dei timori prospettati a sostegno della domanda di protezione, mediante la consultazione delle fonti indicate e l’eventuale reperimento di informazioni ulteriori, tali da consentire il riscontro dell’effettiva sussistenza delle denunciate condizioni. Nei giudizi in materia di protezione internazionale, all’onere del richiedente di allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda fa infatti riscontro la previsione di un dovere di integrazione istruttoria officiosa, che impone al giudice di procedere alla valutazione della situazione sociopolitica del Paese d’origine del richiedente, attraverso l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche, di cui dispone e di quelle che può procurarsi mediante il ricorso alle fonti di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, che risultino pertinenti al caso ed aggiornate al momento dell’adozione della decisione (cfr. Cass., Sez. IL 20/05/2020, n. 9230; Cass., Sez. I, 22/05/2019, n. 13897; Cass., Sez. VI, 10/04/2015, n. 7333). E’ pur vero che tale dovere opera esclusivamente sul versante della prova, e non si estende a quello dell’allegazione dei fatti, la cui narrazione deve risultare adeguatamente circostanziata ed intrinsecamente coerente, sicchè, ove il richiedente si sia sottratto al proprio onere, attraverso un’esposizione generica, contraddittoria o implausibile, resta escluso anche il dovere del giudice di procedere di propria iniziativa ad approfondimenti istruttori, non essendo ipotizzabile alcuna cooperazione officiosa laddove sia stato lo stesso interessato a declinare la propria collaborazione, fornendo una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile (cfr. Cass., Sez. II, 11/08/2020, n. 16925; Cass., Sez. I, 20/ 12/2018, n. 33096; Cass., Sez. VI, 27/06/2018, n. 16925). Nella specie, tuttavia, il mancato compimento di tali approfondimenti non trova giustificazione neppure in un giudizio di inattendibilità della vicenda personale allegata a sostegno della domanda, avendo la Corte territoriale ritenuto superflua ogni valutazione al riguardo, proprio in virtù dell’erronea affermazione dell’insussistenza di fonti idonee a far ritenere che il regime carcerario vigente nel Gambia potesse giustificare i timori prospettati.

2. Il ricorso va pertanto accolto, restando assorbito il secondo motivo, con cui il ricorrente ha dedotto la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria.

3. La sentenza impugnata va conseguentemente cassata, nei limiti segnati dalle censure accolte, con il rinvio della causa alla Corte d’appello di Firenze, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

accoglie parzialmente il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte, e rinvia alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 4 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2021

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