Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 461 del 13/01/2010

Cassazione civile sez. II, 13/01/2010, (ud. 12/11/2009, dep. 13/01/2010), n.461

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – rel. Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. DE CHAIRA Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 18989/2008 proposto da:

ISTITUTO DELLA CROCE E DELLA MISERICORDIA (OMISSIS), in persona

del suo legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato

in ROMA, VIA RASELLA 155, presso lo studio dell’avvocato CUSUMANO

DARIO, rappresentato e difeso dall’avvocato BENENATI Anna Maria,

giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

ISTITUTO DELLE FIGLIE DELLA MISERICORDIA E DELLA CROCE, R.I.

E.;

– intimati –

ISTITUTO DELLE FIGLIE DELLA MISERICORDIA E DELLA CROCE, in persona

del suo legale rappresentante, Ente ecclesiastico civilmente

riconosciuto, elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CORTE DI

CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’Avvocato GURRERA LELIO,

giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

ISTITUTO DELLA CROCE E DELLA MISERICORDIA REGINA ELENA, R.I.

E.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 576/2008 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, del

14/3/08 depositata il 30/04/2008;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

12/11/2009 dal Presidente Relatore Dott. GIOVANNI SETTIMJ;

udito per il controricorrente e ricorrente incidentale l’Avvocato

Gurrera che si riporta agli scritti;

è presente il P.G. in persona del Dott. PIERFELICE PRATIS che

concorda con la relazione scritta.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con ricorso notificato il 16/17.7.08, L’Istituto della Croce e della Misericordia Regina Elena ha impugnato per cassazione la sentenza 30.4.08 con la quale la corte d’appello di Palermo ha deciso una controversia in materia d’usucapione tra lo stesso e l’Istituto delle Figlie della Misericordia e della Croce.

Ha censurato l’impugnata sentenza per:

“1 – Violazione e falsa applicazione degli artt. 163 bis, 164, 331 e 291 c.p.c.. Inosservanza dei termini per impugnare; nullità del contraddittorio. Nullità della citazione del giudizio di Appello per mancato rispetto dei termini ad impugnare.

2 – Violazione di legge in relazione all’animus detinendi ai modi di esternare il titolo di possedere. Violazione degli artt. 1158 e 1164 c.c..

3 – Falsa applicazione di legge in ordine all’interpretazione delle effettive attività di possedere uti domini. Violazione degli artt. 1158 e 1164 c.c. sulla interversione del possesso e mera detenzione;

erronea valutazione giuridica dei comportamenti indicati nella sentenza di primo grado come prova del possesso uti domini”.

Ha, conclusivamente, posto i seguenti quesiti:

“1) Si verte nel caso de quo in ipotesi di litisconsorzio necessario? 2)La notifica all’appellato – verso cui è proposta domanda diversa e divisibile, effettuato dopo oltre anni due mesi dieci, introduce regolarmente e il giudizio o si verte invece nel caso di specie in ipotesi di nullità della citazione e di tutti gli atti consequenziali e collegati? 3) I comportamenti assunti dall’Istituto della Croce e della Misericordia Regina Elena sono manifestazioni di possesso uti domini o di mera detenzione? 4) Gli atti in base a cui si attesta l’esercizio dell’Istituto della Croce e della Misericordia Regina E lena sulla cosa sono qualificabili come atti compiuti in nome e nell’interesse del proprietario? Si verte nel caso di specie in tema di possesso o di detenzione? Era necessario l’elemento psicologico e la prova dell’interversione del possesso? 5) Il riconoscimento di controparte della detenzione unito alla signoria sulla cosa equivale a riconoscimento del titolo in capo all’Istituto della Croce e della Misericordia Regina Elena? 6) La sentenza di appello è stata emessa in violazione di legge in relazione all’animus detenendi ed ai modi di esternare il titolo di possedere? 7) Si verte nel caso di specie in ipotesi di falsa applicazione di legge in ordine all’interpretazione delle effettive attività di possedere uti domini? 8) L’interversione del possesso rileva nel caso di specie? 9) Gli atti posti in essere dall’Istituto della Croce e della Misericordia Regina Elena sono atti qualificabili ex art. 1140 e 1141 c.c., come manifestazioni del potere sulla cosa e di disposizione?”.

L’Istituto delle Figlie della Misericordia e della Croce ha resistito con controricorso notificato il 6.10.08, successivamente depositando, il 7.7.09, istanza di sollecita trattazione.

Provvedendo sull’istanza, il Consigliere delegato ha ritenuto d’avviare la trattazione in Camera di consiglio redigendo relazione ex art. 380 bis c.p.c., nella quale ha osservato quanto segue.

“Il ricorso è stato proposto per impugnare una sentenza depositata dopo il 2.3.2006, data di entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, onde trova applicazione l’art. 366 bis CPC quale introdotto dall’art. 6 del detto decreto.

Il ricorso si articola su tre motivi e nove quesiti nei quali si denunciano violazioni di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3.

Detti quesiti non rispondono a quanto prescritto dall’art. 366 bis c.p.c., in quanto una formulazione appropriata del quesito di diritto, aderente alla sua funzione, richiede che la parte, rispetto a ciascun punto della sentenza investito da un motivo di ricorso, dopo avere riassunto di quel punto gli aspetti di fatto rilevanti ed averne indicato i modo in cui il giudice lo ha deciso, esprima la diversa regola di diritto sulla cui base il punto controverso andrebbe, invece, deciso.

Non può, per contro, ritenersi che un corretto quesito di diritto sia ravvisabile quando, onde comprenderne il senso ed il contenuto, si renda necessario far ricorso all’esposizione del motivo.

Osta a tale interpretazione dell’art. 366 bis c.p.c., il rilievo che il dettato normativo impone che l’esposizione del motivo si debba “concludere” con un quesito da solo sufficiente a svolgere una propria funzione di individuazione della questione di diritto posta alla Corte, sicchè è necessario che tale individuazione sia assolta da una parte specifica del ricorso, a ciò deputata attraverso espressioni puntuali che siano idonee ad evidenziare alla Corte la questione, ed esclude, invece, che la questione possa risultare da un’operazione d’individuazione delle implicazioni della esposizione del motivo di ricorso affidata al lettore di tale esposizione e non rivelata direttamente dal quesito stesso.

In sostanza, se il legislatore avesse voluto prevedere soltanto che il quesito si evincesse dall’esposizione del motivo, non avrebbe previsto che quest’ultima si concludesse con la formulazione del quesito, che implica palesemente un quid che non può coincidere con detta esposizione; avrebbe detto, dunque, che l’esposizione del motivo deve proporre un quesito di diritto, lasciando così alla Corte di Cassazione l’opera di individuazione del medesimo, cioè, in definitiva, la valutazione della idoneità dell’esposizione a prospettare il quesito.

Incontroverso, dunque, che il quesito di diritto non possa essere desunto per implicito dalle argomentazioni a sostegno della censura, ma debba essere esplicitamente formulato, nell’elaborazione dei canoni di redazione di esso la giurisprudenza di questa Suprema Corte è ormai chiaramente orientata nel ritenere che ognuno dei quesiti formulati per ciascun motivo di ricorso debba consentire l’individuazione tanto del principio di diritto che è alla base del provvedimento impugnato, quanto, correlativamente, del principio di diritto, diverso dal precedente, la cui auspicata applicazione ad opera della Corte medesima possa condurre ad una decisione di segno inverso rispetto a quella impugnata; id est che il giudice di legittimità debba poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la diversa regola da applicare.

Ove tale articolazione logico-giuridica manchi, il quesito si risolve in un’astratta petizione di principio che, se pure corretta in diritto, risulterebbe, ciò nonostante, inidonea sia ad evidenziare il nesso tra la fattispecie concreta, l’errore di diritto imputato al giudice a qua ed il difforme criterio giuridico di soluzione del punto controverso che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione del principio cui la Corte deve pervenire nell’esercizio della funzione nomofilattica.

Il quesito non può, pertanto, consistere in una mera richiesta d’accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte medesima in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione d’una regula iuris che aia, in quanto tale, suscettibile, al contempo, di risolvere il caso in esame e di ricevere applicazione generale, in casi analoghi a quello deciso.

Nella specie, come si è già rilevato, i quesiti non rispondono agli evidenziati requisiti ed il ricorso può, pertanto, essere deciso sollecitamente, come richiesto nell’istanza, con la procedura in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c.”.

La relazione è stata ritualmente comunicata alle parti ed al P.M..

Le prime non hanno fatto pervenire osservazioni critiche, ciò cui avrebbero potuto provvedere giusta quanto loro consentito dal terzo comma dell’art. 380 bis c.p.c.; è appena il caso di rilevare come nessun rilievo possa attribuirsi, in questa sede, alla rinunzia al mandato comunicata dal difensore di parte ricorrente al cliente ed a questa Corte con nota 10.9.09, dacchè la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente evidenziato che, per effetto del principio della cosiddetta perpetuatio dell’ufficio di difensore del quale è espressione l’art. 85 c.p.c., nessuna efficacia può dispiegare nell’ambito del giudizio di cassazione, oltretutto caratterizzato da uno svolgimento per impulso d’ufficio, la sopravvenuta rinuncia che il difensore del ricorrente abbia comunicato alla Corte prima dell’udienza di discussione già fissata (Cass. 9.7.09 n. 16121, 3.4.04 n. 6614, 2.3.00 n. 2309).

Nè osservazioni critiche ha fatto pervenire il P.M., che, anzi, ha concluso in udienza per la conferma delle conclusioni alle quelli è pervenuta la relazione.

Tali conclusioni ritiene il Collegio di poter integralmente recepire, considerato il tenore dei quesiti sopra testualmente riportati, in quanto del tutto conformi all’ormai cospicua giurisprudenza di legittimità formatasi in ordine all’interpretazione da darsi alla disciplina del giudizio di cassazione quale introdotta con il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40.

Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile ex art. 366 bis c.p.c., primo periodo, e parte ricorrente va condannata alla refusione delle spese, liquidate come in dispositivo, in favore della controparte resistente.

P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in complessivi Euro 2.700,00, dei quali Euro 2.500,00 per onorari, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2010

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