Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4609 del 25/02/2010

Cassazione civile sez. lav., 25/02/2010, (ud. 14/01/2010, dep. 25/02/2010), n.4609

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere –

Dott. COLETTI DE CESARE Gabriella – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

T.G., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE DELLE

BELLE ARTI 8, presso lo studio dell’avvocato PELLICANO’ ANTONINO, che

la rappresenta e difende, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati FABIANI

GIUSEPPE, TRIOLO VINCENZO,giusta mandato in calce alla copia

notificata del ricorso;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 53/2006 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 31/01/2006 r.g.n. 799/01;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

14/01/2010 dal Consigliere Dott. ULPIANO MORCAVALLO;

udito l’Avvocato PELLICANO’ ANTONINO;

udito l’Avvocato CORETTI ANTONIETTA per delega VINCENZO TRIOLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per

quanto di ragione.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 1921 del 7 novembre 2000 il Tribunale di Palmi, in funzione di giudice del lavoro, nel condannare l’INPS al pagamento in favore di T.G. delle somme corrispondenti all’adeguamento della indennità di disoccupazione agricola percepita nella misura di L. 800 giornaliere, oltre agli interessi e alla rivalutazione monetaria, per gli anni 1986, 1987, 1990, 1992, condannava altresì il medesimo Istituto alla rifusione dei due terzi delle spese di lite, liquidate per l’intero in L. 300.000, di cui L. 200.000 per onorario e L. 100.000 per diritti e spese, da distrarsi ai sensi dell’art. 93 c.p.c., in favore del procuratore della ricorrente, e compensava il rimanente terzo.

Su appello proposto dalla lavoratrice, la Corte d’appello di Reggio Calabria, con sentenza n. 53 depositata il 31 gennaio 2006, rilevato che la determinazione dei diritti ed onorari liquidati dal primo giudice risultava ictu oculi inferiore ai minimi, affermava che dovevano essere riconosciute le voci tariffarie indicate nelle note spese allegate, ma, considerata la facile trattazione della causa, i diritti e gli onorari dovevano essere attribuiti in misura inferiore al minimo ai sensi del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 60, con determinazione, per l’intero, di euro 55,00 per diritti, di Euro 104,00 per onorari e di euro 10 per spese; riteneva inammissibile, invece, la censura relativa alla compensazione parziale delle spese, in quanto sollevata solo con le note illustrative; compensava, infine, le spese del giudizio d’appello.

Avverso detta sentenza la T. propone ricorso per Cassazione deducendo quattro motivi, illustrati con memoria.

L’INPS ha depositato procura ai difensori.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 60, in relazione all’art. 111 Cost., comma 2, nonchè mancanza assoluta di motivazione, motivazione apparente ed omessa motivazione su un punto decisivo.

Si sostiene che l’applicazione del citato art. 60, è palesemente errata, in quanto onnicomprensiva, ossia operata su tutte le voci indicate in ciascuna nota spese (onorari, diritti e spese vive), laddove la stessa norma conferisce al giudice il potere di riduzione, al di sotto del minimo previsto dalle tabelle professionali, soltanto per la voce relativa agli onorari di avvocato.

Si aggiunge che in ogni caso il giudice d’appello non ha correttamente applicato la medesima disposizione, da leggersi in correlazione con il D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, art. 4, non essendo ravvisabili nel caso di specie i presupposti di legge, cioè la natura di facile trattazione delle cause, la manifesta sproporzione fra l’attività svolta dall’avvocato e gli onorari previsti in tabella e l’acquisizione del parere o della richiesta di parere del Consiglio dell’ordine.

Ulteriore profilo di illegittimità, ad avviso della ricorrente, è rinvenibile nella decisione della Corte territoriale di attribuire all’appellante operata la riduzione ai sensi del citato art. 60 – le somme liquidate per diritti, onorari ed esborsi, in maniera forfettaria ed a prescindere dal valore della causa.

La ricorrente rileva inoltre che il giudice d’appello è venuto meno all’obbligo – imposto dalla stessa norma – di motivare la decisione di liquidare l’onorario in misura inferiore al minimo, avendo ottemperato a tale obbligo solo apparentemente limitandosi a ripetere l’inciso normativo.

Con il secondo motivo, denunciando vizio di motivazione, la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata, pur avendo riconosciuto la violazione dei minimi tariffar da parte del Tribunale, abbia finito per procedere a una liquidazione delle spese del tutto equivalente a quella operata dal primo giudice.

Il terzo motivo denuncia “omessa decisione” e vizio di motivazione, lamentandosi che la Corte territoriale – interpretando non correttamente l’atto di appello – abbia ritenuto non proposta con tale atto la censura relativa alla compensazione di un terzo delle spese.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., e vizi di motivazione; la ricorrente si duole che la sentenza impugnata abbia compensato le spese del giudizio d’appello, senza specifica motivazione e in presenza di un integrale accoglimento del gravame da lei proposto.

I primi due motivi, da esaminare congiuntamente, si rivelano fondati per alcuni dei profili evidenziati dalla ricorrente, alla stregua di un consolidato orientamento espresso da questa Corte in analoghe controversie (cfr. Cass., ex plurimis, 21 ottobre 2008, n. 27804; 4 agosto 2009, n. 17920).

Va premesso che il ricorso non indica il valore della causa, al fine di consentire a questa Corte la verifica del rispetto dei minimi tariffari, e tuttavia il mancato rispetto dei minimi risulta dalla stessa sentenza impugnata, che proprio a tal fine ha fatto applicazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 60 (cfr. Cass. 7 settembre 2007, n. 18829).

Orbene, tale disposizione, nel disciplinare la liquidazione degli onorari, stabilisce al quinto comma che quando la causa risulta di facile trattazione il giudice può attribuire l’onorario in misura inferiore al minimo e, in tal caso, la decisione deve essere motivata.

L’esame della norma ha consentito alla giurisprudenza di questa Corte l’affermazione di due principi, ognuno distintamente violato dalla sentenza qui impugnata.

Anzitutto, poichè la regola posta dalla disposizione in esame è limitativa del diritto della parte al rimborso delle spese processuali sostenute per l’affermazione del proprio diritto (cfr.

art. 24 Cost. e art. 91 c.p.c.), deve ritenersi che la facoltà di scendere al di sotto dei minimi sia limitata alla sola voce, espressamente menzionata, dell’onorario (v., a superamento di un risalente indirizzo, Cass. 18 giugno 2007, n. 14070; Cass. 20 giugno 2007, n. 14311; Cass. 7 settembre 2007, n. 18829).

In secondo luogo, il giudice ha l’obbligo di motivare espressamente la sua decisione, con riferimento alle circostanze di fatto del processo, e non può, per converso, limitarsi ad una pedissequa enunciazione del criterio legale. Nè potrebbe sostenersi che il menzionato obbligo di motivazione sia venuto meno per effetto della disposizione di cui alla L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 4, che, nel prevedere la riduzione dei minimi tariffari per le controversie di particolare semplicità, dispone che la riduzione degli onorari non possa superare il limite della metà; tale disposizione, invero, integra la previsione contenuta nel R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 60, comma 5, indicando il limite massimo della riduzione degli onorari, e dunque presuppone che questa sia stata motivata (cfr., con riguardo al collegamento fra le due disposizioni, Cass. 26 ottobre 1974, n. 3179).

Va aggiunto, poi, che la sentenza impugnata è erronea anche per avere proceduto alla liquidazione delle spese – una volta operata la riduzione – in modo forfettario, senza procedere alla necessaria determinazione del valore della causa.

Infondato, invece, è il richiamo della ricorrente all’onere di allegazione del parere del Consiglio dell’ordine atteso che – come da consolidata giurisprudenza di questa Corte – tale allegazione, prevista dal D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, art. 4, si riferisce alla liquidazione delle spese a carico del cliente, e non si estende alla liquidazione delle spese a carico del soccombente nel giudizio e ad opera del giudice (v. Cass. 23 marzo 2004, n. 5802, nonchè le già citate Cass. n. 14070, 14311 e 18829 del 2007).

Il terzo motivo è infondato.

La questione prospettata dalla ricorrente consiste nello stabilire se nell’atto di appello fosse stata o meno censurata la statuizione di compensazione parziale delle spese processuali adottata dal giudice di primo grado, non essendo in discussione (perchè non contestata) l’affermazione del giudice del gravame, secondo cui l’ingiustizia della sentenza del primo giudice sul punto doveva essere denunciata con uno specifico motivo di impugnazione, sì che irrilevante era da ritenere la relativa censura perchè formulata dall’appellante per la prima volta solo in note illustrative depositate nel proseguo del giudizio di secondo grado.

Orbene l’interpretazione che la sentenza impugnata ha dato del contenuto dell’atto di appello non merita le censure che le sono rivolte.

Come ripetutamente affermato dalla più recente giurisprudenza di questa Corte nel giudizio di appello – che non è un novum iudicium – la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici motivi e tale specificità esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono. Ne consegue che, nell’atto di appello, ossia nell’atto che, fissando i limiti della controversia in sede di gravame, consuma il diritto potestativo di impugnazione, alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame, rilevabile di ufficio e non sanabile per effetto dell’attività difensiva della controparte, una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, al qual fine non è sufficiente che l’atto di appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità, da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata (cfr., da ultimo, Cass. n. 9244 del 2007, n. 12984 del 2006, n. 24817 del 2005, n. 3538 del 2005).

Nel caso concreto – come, del resto, riferisce la stessa parte ricorrente – il giudice di primo grado aveva disposto la compensazione parziale delle spese processuali, così come liquidate, in ragione della ritenuta esistenza di una soccombenza parziale essendo la domanda fondata solo in parte.

A questa specifica motivazione nessuna esplicita censura viene mossa nell’atto di appello dall’odierna ricorrente, che, significativamente, insiste nel sostenere la sufficienza – ai fini di una corretta impugnazione (anche) della statuizione di compensazione – della prospettata illegittimità, nella sua interezza, del capo della sentenza relativo alla regolamentazione delle spese e della sua conclusiva espressa richiesta di riforma di tale capo. Il fatto poi che, nelle note illustrative depositate nel corso del giudizio di appello, la disposta compensazione sia stata censurata come errata, illogica, ingiusta e totalmente immotivata è, per le ragioni già dette, irrilevante; così come irrilevanti, in quanto svolte solo nel ricorso per Cassazione, sono le considerazioni intese a dare supporto alla tesi della mera pretestuosità della motivazione di compensazione, a fronte dell’asserito totale accoglimento della pretesa azionata.

In conclusione, vanno accolti i primi due motivi di ricorso nei profili sopra evidenziati e va respinto il terzo motivo, mentre rimane assorbito il quarto motivo relativo alla compensazione delle spese del giudizio d’appello.

In relazione alle censure accolte la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte d’appello di Catanzaro, che procederà, alla stregua dei principi sopra indicati, a rideterminare le spese del giudizio di primo grado, nonchè a statuire su quelle del secondo grado di giudizio.

Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 3.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, rigetta il terzo e dichiara assorbito il quarto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Catanzaro anche per le spese del giudizio di Cassazione.

Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2010

 

 

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