Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4605 del 22/02/2017


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Cassazione civile, sez. I, 22/02/2017, (ud. 14/12/2016, dep.22/02/2017),  n. 4605

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALVAGO Salvatore – rel. Presidente –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5099/2010 proposto da:

MINISTERO DELLA DIFESA, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

ASTALDI S.P.A., UNICREDIT CORPORATE BANKING S.P.A.;

– intimati –

nonchè da:

ASTALDI S.P.A., in proprio e nella qualità di mandataria della

Associazione Temporanea costituita con la Lodigiani S.p.a., in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA A. BERTOLONI 35, presso l’avvocato GREGORIO

CRITELLI (STUDIO LEGALE BIAGETTI), che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato FEDERICO CAPPELLA, giusta procura speciale

per Notaio Dott. G.I. di ROMA – Rep. n. (OMISSIS) del

14.1.2013;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

UNICREDIT CORPORATE BANKING S.P.A., MINISTERO DELLA DIFESA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 833/2009 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 23/02/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/12/2016 dal Presidente Dott. SALVATORE SALVAGO;

udito, per la controricorrente e ricorrente incidentale, l’Avvocato

CRITELLI che si riporta al controricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di

ragione dei motivo quattordicesimo e quindicesimo, inammissibilità

del resto e dell’incidentale, in subordine rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Tribunale di Roma con sentenza del 29 luglio 2004, condannò il Ministero della Difesa al pagamento in favore della s.p.a. Astaldi, affidataria di un appalto in data 14 settembre 1989 per la costruzione della stazione navale nel mar grande di Taranto, della complessiva somma di Euro 809.031,034 per compensi ulteriori in accoglimento di altrettante riserve poste dall’impresa; e riconobbe per converso al Ministero un credito di Euro 229.740,84 per detrazioni legittime.

Con sentenza del 23 febbraio 2009, la Corte di appello di Roma ha respinto l’impugnazione principale del Ministero ed accolto quella incidentale dell’Astaldi relativamente alle riserve 2,4,5 (in parte), 7, 8, 14 e 20 (per un importo di oltre 2 milioni di Euro), osservando per quanto qui ancora interessa: a)andava accolta la riserva n. 2 per la tardata contabilizzazione e pagamento dell’aggiornamento prezzi, trattandosi di ritardo imputabile alla stazione appaltante ai sensi del D.P.R. n. 1063 del 1962, artt. 35 e 36; b) erroneamente il Tribunale aveva disatteso le riserve 4, 7 e 14 senza considerare che il c.t.u. ne aveva accertato la fondatezza con riguardo sia all’effettuazione dello scavo della darsena via terra, che agli oneri di stoccaggio dei cassoni ed al ridragaggio del materiale refluito temporaneamente all’interno della darsena: in relazione ai quali nessuna responsabilità era addebitabile all’appaltatore; c) per quest’ultima ragione anche la revisione prezzi doveva essere liquidata in base all’andamento effettivo dei lavori e non a quello teorico calcolato dalla stazione appaltante; d)non poteva ritenersi legittima la detrazione relativa al subappalto ai sensi della L. n. 55 del 1990, art. 18, comma 4, perchè applicabile soltanto ai lavori pubblici aggiudicati o affidati prima della sua entrata in vigore. Nessuna somma spettava, infine all’impresa nè per la riserva n. 5 relativa alla 2^ e 3^ sospensione dei lavori perchè non dimostrate (senza considerare che l’ultima non le aveva arrecato alcun danno); nè per quella n. 6 relativa alla ridotta produzione perchè intempestiva, e perchè il Ministero aveva regolarmente formulato sia pure in termini non formali, l’eccezione di decadenza.

Per la cassazione della sentenza,il Ministero della Difesa ha proposto ricorso per 15 motivi; cui resiste l’Astaldi con controricorso, illustrato da memoria, con il quale ha formulato altresì ricorso incidentale per 7 motivi.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2.Per evidenti ragioni di logica giuridica vanno esaminati con precedenza il 3^ e 4^ motivo del ricorso con i quali il Ministero, deducendo mancanza assoluta di motivazione su di un fatto decisivo della controversia, censura la sentenza impugnata per avere attribuito all’impresa gli speciali interessi di cui al D.P.R. n. 1063 del 1962, artt. 35 e 36, per ritardata contabilizzazione e ritardato pagamento dell’aggiornamento dei prezzi di contratto, senza considerare che tra le parti era intervenuta controversia sulla spettanza di detto aggiornamento, risolta in sede amministrativa in modo favorevole all’appaltatore; per cui doveva trovare applicazione l’art. 46 Condizioni generali per l’appalto dei lavori del Genio militare che ne esclude la corresponsione in tutti i casi in cui la ritardata contabilizzazione dipende dalla necessità di risolvere una controversia sul contenuto giuridico del contratto.

La doglianza è fondata.

La Corte di appello ha accolto la richiesta dell’impresa di pagamento degli interessi in questione,oggetto della riserva n. 2 per il solo fatto che il ritardato aggiornamento dei prezzi, come aveva riconosciuto il c.t. nella relazione suppletiva, era imputabile alla stessa amministrazione appaltante.

In tal modo ha disapplicato le disposizioni del D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 35, pur invocate, che tanto nell’epigrafe, quanto nel successivo testo della norma richiedono per l’attribuzione degli speciali interessi previsti non soltanto la mancata tempestiva contabilizzazione dei lavori per motivi attribuibili all’amministrazione, ma anche che il loro oggetto sia costituito dai “certificati di pagamento delle rate di acconto” indicati dal precedente art. 33 secondo il quale “Nel corso dell’esecuzione dei lavori sono fatti all’appaltatore (in base ai dati risultanti dai documenti contabili), pagamenti in conto del corrispettivo dell’appalto, nei termini o nelle rate stabilite dal capitolato speciale ed a misura dell’avanzamento dei lavori regolarmente eseguiti”. Analoga disposizione è contenuta nell’art. 36, per il pagamento della rata di saldo.

Per cui questa Corte, dal tenore letterale della normativa ha ricavato la regola che la previsione degli speciali interessi di mora, con le particolari decorrenze di cui agli artt. 35 e 36 del cap. gen. oo. pp., appr. con D.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, che postula la determinazione certa del prezzo dei lavori, riguarda unicamente il ritardo nel pagamento delle rate di acconto e di saldo del corrispettivo; e non è analogicamente ed estensivamente applicabile ad altre diverse ipotesi di ritardato pagamento nè al caso di inadempimenti sostanziali ad obblighi assunti dall’amministrazione appaltante, ovvero sulla stessa gravanti per legge: per i quali, viceversa, ove si accerti che le sono addebitabili, tornano ad applicarsi le regole ordinarie di cui agli artt. 1218 c.c. e segg. (Cass. 9545/2014; 11297/2010; 3768/2006).

Siffatta interpretazione letterale, che la Corte pienamente condivide, trova del resto conferma in quella logico-sistematica delle citate disposizioni, le quali, per un verso hanno istituito una peculiare categoria di interessi moratori comprensivi anche del maggior danno ex art. 1224 c.c. e, conseguentemente satisfattivi di ogni ulteriore pregiudizio da ritardo nell’adempimento; e per altro verso, individuandone parametri, entità e decorrenza a seconda dei ritardi dell’Amministrazione nell’emissione del titolo di spesa a favore dell’appaltatore ed, assicurando a quest’ultimo un ristoro correlato al costo del denaro, sono da considerarsi complete rispetto alla materia disciplinata e speciali, in quanto derogatorie rispetto alla disciplina generale dettata dal codice civile nella stessa materia,che dunque sostituiscono (Cass. 19960/2011; 5936/2010; 9747/2005); sicchè solo il legislatore potrebbe includervi fattispecie aggiuntive,come quella dell’aggiornamento dei prezzi contrattuali, rispetto a quelle da dette norme stabilite. Così come ha fatto con la L. n. 700 del 1974, che ne ha esteso la corresponsione (esclusivamente) “agli acconti” per revisione dei prezzi dovuta all’appaltatore ai sensi della L. 21 giugno 1964, n. 463, art. 2 (Cass. 1097/2010; sez. un. 27186/2007): lasciando immutato il regime della revisione definitiva perchè non menzionata dalla legge, che ha perciò continuato (fino alla sua abolizione ad opera della L. n. 359 del 1992, art. 3) a restare collegata alla facoltà discrezionale dell’amministrazione committente di riconoscerla (Cass. sez. un. 1996/2003; 512/2000). E ad attribuire all’imprenditore fino all’eventuale provvedimento concessorio un mero interesse legittimo,che solo da tale momento (se ed in quanto sopravvenga) si trasforma in ordinario diritto di credito a conseguirla: soggetto unicamente alla disciplina generale delle obbligazioni.

Consegue che, trattandosi nella fattispecie non di pagamenti in conto del corrispettivo certo dell’appalto nei termini e/o nelle rate stabilite dal capitolato speciale ed indicate nei singoli S.A.L. da parte della D.L., ma di compensi aggiuntivi rispetto a questi ultimi,riconosciuti all’appaltatore – pur in conformità a pattuizioni contrattuali – a seguito di procedimento amministrativo, gli speciali interessi c.d. di capitolato non gli spettavano comunque,ostandovi in radice proprio il disposto del D.P.R. n. 1063, art. 35, a prescindere dall’interpretazione dell’art. 46 cond. Gen. App. per il Genio militare, che pearltro la Corte di appello non ha neppure esaminato.

3. Con il quinto ed il sesto motivo, il Ministero, deducendo analoghi vizi della motivazione, in realtà del tutto omessa, censura la sentenza di appello per avere sia pure parzialmente accolto la riserva n. 5 dell’impresa relativa alla sospensione parziale dei lavori per il periodo 1 giugno 1993-11 luglio 1993 ed averne perciò stesso addebitato la responsabilità alla stazione appaltante senza neppure individuare alcun fatto o inadempimento alla stessa addebitabile: ciò attraverso il mero rinvio alla c.t.u. che tale fatto aveva individuato semplicemente nell’ultimazione dei lavori via terra da parte dell’impresa; ed in mancanza di qualsiasi prova, esclusa dal Tribunale di responsabilità al riguardo della committente.

Per converso l’Astaldi con i primi tre motivi del ricorso incidentale, deducendo violazione di legge, nonchè del D.M. 9 maggio 1895 ed infine vizi di motivazione, lamenta che la Corte di appello abbia riconosciuto da un lato l’illegittimità di tre periodi di fermo dei lavori, ma dall’altro abbia disconosciuto il risarcimento del danno anche per il secondo ed il terzo, senza considerare che vi era la prova della permanenza del cantiere con uomini e mezzi anche durante questi periodi;e che in ogni caso si poteva ricorrere alla valutazione discrezionale ex art. 1226 c.c., applicando i parametri di cui al menzionato D.M. soprattutto per la liquidazione delle spese generali.

4. La Corte ritiene infondate le censure del ricorso incidentale e che vadano invece accolte quelle del Ministero.

Tanto l’Astaldi, quanto la Corte territoriale (ed il c.t.u.) hanno fatto promiscuamente riferimento agli istituti della sospensione illegittima dei lavori (ad opera della stazione appaltante) e del loro fermo (ad opera dell’appaltatore), come se ne fossero identici la funzione e gli effetti soprattutto ai fini della responsabilità dell’amministrazione committente.

Può infatti convenirsi che, siccome il contratto di appalto di o.p. è caratterizzato dall’obbligo dell’appaltatore di eseguire la prestazione senza interruzione onde assicurare il tempestivo e regolare compimento dell’opera e da quello speculare della stazione appaltante della continua cooperazione onde rendere possibile alla controparte la regolare esecuzione (ed ultimazione) dei lavori (Cass. 12235/2003; 16368/2014), la loro sospensione non consentita di regola neppure all’amministrazione: con la sola eccezione già individuata dal R.D. n. 350 del 1895, art. 16, di sopravvenienza di “circostanze speciali che impediscano temporaneamente che i lavori procedano utilmente a regola d’arte”. La quale è stata trasferita nel D.P.R. n. 1063, art. 30, comma 1, che vi ha aggiunto una seconda ipotesi, costituita (comma 2) da “ragioni di pubblico interesse o necessità”,ed entrambe le eccezioni sono state recepite senza apprezzabili modifiche dal D.P.R. n. 554 del 1999, art. 133 (successivo ai fatti di causa).

Perchè tuttavia l’istituto sia configurabile e possa apprezzarsi la causa legittima o meno della sospensione, necessario non solo che la disposizione di arrestare i lavori provenga dall’amministrazione, ma che sia preceduta a monte dal procedimento amministrativo indicato dalle menzionate norme cui segua il relativo provvedimento e soprattutto che questo si traduca “in un verbale di sospensione” (che richiede l’intervento dell’appaltatore): nel quale peraltro devono essere indicate “le ragioni che hanno indotto a sospendere i lavori”.

Atteso il carattere tipico del procedimento, consegue che lo stesso non ammette equipollenti, tanto meno ad iniziativa dell’appaltatore; e principalmente che ne assume efficacia costitutiva il verbale di sospensione dei lavori redatto dall’ingegnere capo o dal direttore dei lavori (cui peraltro nella ricostruzione della legge si contrappone analogo successivo “verbale di ripresa dei lavori”: Cass. 10997/2010): perciò comportando che la sua stessa emissione, la sua data e le ragioni in esso esplicitate divengono componente indefettibile (e non altrimenti dimostrabile) della sospensione disposta dalla stazione appaltante (legittima o illegittima che sia): In mancanza del quale nella forma vincolata imposta dalla legge,la stessa non è neppur configurabile, e non è di conseguenza ipotizzabile alcun giudizio di corrispondenza delle ragioni del fermo con quelle individuate dal R.D. n. 350, art. 16 e D.P.R. n. 1063, art. 30, nè infine di responsabilità dell’amministrazione per illegittimità iniziale o sopravvenuta della sospensione; che se di fatto attuata resta imputabile all’appaltatore (che ne è l’autore).

Nel caso, il Tribunale ha escluso la ricorrenza di detto istituto (sul quale l’Astaldi ha fondato i tre motivi di ricorso), rilevando che la stessa impresa aveva invocato “una sospensione parziale in nessun modo formalizzata” e tale accertamento non è stato modificato dalla sentenza impugnata che l’ha attribuita a volontà dell’appaltatore, ritenendo tuttavia giustificato il solo primo periodo dalla situazione di fatto riportata nel verbale di constatazione dell’1 giugno 1993 (che non va confuso con quello di sospensione, nè considerato con questo fungibile), il quale aveva dato atto che “le opere da effettuare a terra erano subordinate alla effettuazione di parte delle restanti opere a mare”. Per cui, mancando in radice per il periodo in questione un provvedimento di sospensione – totale o parziale – dei lavori, non ricavabile neppure dal riferimento della ricorrente ad una generica “formalizzazione” successiva, non era ipotizzabile alcuna responsabilità dell’amministrazione ad essa conseguente non solo per i c.d. secondo e terzo periodo di asserito fermo del cantiere,menzionato nella corrispondenza intercorsa tra le parti e tuttavia smentito in punto di fatto da entrambi i giudici del merito, ma neppure per il primo periodo (1 giugno – 14 luglio 1993), perciò imputabile a scelte dell’appaltatore e non al formale verbale di cui al R.D. n. 350 del 1895, art. 16; che, soltanto se illegittimo avrebbe peraltro giustificato l’attribuzione all’impresa della somma calcolata dal c.t.u. per il pregiudizio dalla stessa lamentato (motivo 7).

5.Tutt’altra disciplina vige per l’arresto o fermo dei lavori ad opera dell’appaltatore, nonchè per la loro volontaria sospensione di fatto,trovando in ciascuna di queste fattispecie a maggior ragione applicazione la regola che nessuna tipologia di ostacoli al regolare svolgimento dell’appalto e fino alla sua ultimazione, è consentita a quest’ultimo (Cass. 9794/1994; 9246/2012): anche per la mancanza nella normativa pubblicistica ricordata, di fattispecie simmetriche a quelle appena considerate, in cui l’imprenditore è autorizzato ad avvalersi di detti istituti, i quali lo espongono all’applicazione delle misure coercitive in suo danno previste fin dalla L. n. 2248 del 1865, artt. 340 e 341, All. F, oltre che a tutte le conseguenze sfavorevoli stabilite dal codice civile per il contraente inadempiente: quali la risoluzione del contratto a lui addebitabile, il risarcimento del danno cagionato alla committente, l’applicazione della penale nonchè di ogni altra sanzione stabilita dal contratto.

E tuttavia, poichè l’appalto di opere p. rientra pur sempre nell’attività privatistica – contrattuale della p.a., trovano altresì applicazione le disposizioni del codice civile sulle obbligazioni in generale, fra cui quella dell’art. 1218 c.c., che esclude la responsabilità del debitore allorquando il suo inadempimento (o ritardo nella esecuzione della prestazione) è determinato “da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

Sennonchè detta norma comporta, allorquando ricorra tale fattispecie, la sola conseguenza di esimere da responsabilità il contraente inadempiente, e quindi di sottrarlo all’obbligo del risarcimento del danno,altrimenti dovuto alla controparte: non anche quella ulteriore di trasferire su quest’ultima la responsabilità connessa all’inadempimento in questione. E doveva quindi indurre la Corte di appello, in merito al primo fermo dei lavori che, anche a ritenere corretta l’apodittica affermazione che l’ha ritenuto “giustificato” senza spiegarne le ragioni,il relativo intendimento attuato dall’Astaldi la esonerava dall’obbligo di ristorarne le conseguenze pregiudizievoli arrecate alla stazione appaltante (quali il danno di cui alla penale, infatti eliminato dal primo giudice), ma non ne riversava automaticamente su quest’ultima la responsabilità in base ad un paradossale principio peraltro applicabile al solo appalto di o.p., che la committente (a dispetto del menzionato art. 1218 c.c.) sia sempre e comunque responsabile della mancata ritardata) prosecuzione dei lavori a prescindere dalla causa;il quale risulta estraneo ai principi fondamentali del vigente ordinamento, perfino dal raffronto con le ipotesi eccezionali di responsabilità oggettiva di cui all’art. 44 c.p., posto che in ciascuna di queste l’evento pur se non voluto,è tuttavia causato dall’autore:laddove nella costruzione dei giudici di appello, manca perfino un fatto addebitabile all’amministrazione committente chiamata a risponderne, ed a maggior ragione il nesso di causalità con il pregiudizio sofferto dall’impresa.

Infine, siffatto regime della sospensione dei lavori, del tutto disapplicato dalla sentenza impugnata,non riguarda all’evidenza, la diversa fattispecie neppure prospettata dall’appaltatore (pag. 26-28 controric.), dell’impedimento alla loro prosecuzione causato da un fatto della stazione appaltante, ovvero da una sua colpevole inerzia,anche in relazione al dovere di cooperazione gravante su di essa per legge o per contratto,che si traduce in un normale inadempimento delle obbligazioni a carico del committente regolato dai menzionati artt. 1218 c.c. e segg.. E che, tuttavia, nel caso doveva quanto meno essere allegato dall’impresa, nonchè menzionato dalla Corte di merito: invece limitatasi a riferire al riguardo (pag. 11) soltanto della avvenuta esecuzione ed ultimazione delle prime opere da effettuare a terra prima di quelle successive (subordinate alla esecuzione di parte delle restanti opere via mare) involgenti esclusivamente l’ambito di prestazioni contrattualmente assunte dall’appaltatore. Anche sotto questo profilo si appalesa del tutto ingiustificata ed immotivata la traslazione della responsabilità per la c.d. prima sospensione in capo alla controparte.

6. Vanno a questo punto esaminati i restanti motivi del ricorso incidentale, con cui l’Astaldi deducendo violazioni di legge anche con riferimento al R.D. n. 366 del 1962, artt. 33 e 41, nonchè vizi di motivazione, si duole che in merito alla riserva n. 6 relativa alla tardiva esecuzione dei lavori (pag. 29 controric.), e/o alla ridotta produzione che ne sarebbe conseguita (pag. 11 sent.), la Corte di appello abbia confermato la decisione di primo grado, ritenendola tardiva senza considerare: a) che tale statuizione poteva al più condividersi per tutti i lavori antecedenti all’11^ SAL concernente quelli eseguiti all’8 luglio 1993, ma non anche a quelli successivi per i quali la riserva doveva essere considerata tempestiva; b) che successivamente a tale iscrizione era stata concessa all’impresa una proroga di 510 giorni, per cui almeno nell’ambito di detto periodo di tempo l’eccezione dell’amministrazione doveva ritenersi rinunciata.

Le censure sono in parte inammissibili ed in parte infondate: inammissibili anzitutto per avere l’impresa omesso di riportare il contenuto della riserva o quanto meno delle specifiche doglianze in essa contenute; quindi per non aver spiegato quale correlazione intercorresse tra l’istituto della proroga concessa per modificare il termine finale di ultimazione dei lavori (di cui non sono peraltro riferite le ragioni) e la sua pretesa rivolta (tramite la riserva) a compensare un asserito danno sofferto in conseguenza di specifici inadempimenti addebitati alla committente. Ed infine per avere invocato una “generale ritardata esecuzione dei lavori” senza allegarne neppure le cause o quanto meno indicare fatti e comportamenti imputabili alla committente,nè riferire per quali ragioni ed in quale misura avessero contribuito alla loro tardiva ultimazione; nessuno dei quali d’altra parte è stato menzionato dalla sentenza impugnata (cfr. p. 5).

7. La censura è invece inconsistente laddove pretende di limitare la decadenza alla richiesta inerente ai lavori antecedenti all’iscrizione della riserva (8 luglio 1993), escludendone invece quelli successivi come fonte della lamentata ridotta produzione durante l’intero corso dell’appalto, per i quali si assume tempestivamente formulata.

Neppure la ricorrente mostra, infatti, di dubitare del contenuto del R.D. n. 350 del 1895, artt. 16, 53 e 54 e D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 26, che obbligano l’appaltatore di opera pubblica,ove voglia contestare la contabilizzazione dei corrispettivi effettuata dall’amministrazione e/o avanzare pretese comunque idonee ad incidere sul compenso complessivo spettantegli, ad iscrivere tempestivamente apposita riserva nel registro di contabilità o in altri similari documenti contabili; (Cass. 23670/2006; 4702/2006; 18070/2004); nè che il relativo onere insorge quando emerga la concreta idoneità del fatto a produrre i suddetti pregiudizi o esborsi: e quindi anche con riferimento a quelle situazioni di non immediata portata onerosa, la potenzialità dannosa delle quali si presenti, peraltro, già dall’inizio obbiettivamente apprezzabile, secondo criteri di media diligenza e di buona fede dall’interessato, sicchè possa ritenersi che questi disponga di dati sufficienti per segnalare alla parte committente il presumibile maggiore esborso che essa deve prepararsi ad affrontare, salvo poi a precisare l’entità di tale esborso nelle registrazioni successive o in sede di chiusura del conto finale (16367/2014; 4566/2012; 6443/2009; 17906/2004).

La stessa impresa ha poi ricordato il R.D. n. 366 del 1932, che ha istituito identica disciplina per gli appalti dei lavori del genio miliatare;e tuttavia ha ritenuto di eluderla attraverso l’espediente di frazionare l’opera, così come il susseguirsi degli interventi costruttivi o delle lavorazioni destinati a realizzarla, in una serie di atti progressivi, ma del tutto autonomi l’uno dagli altri, almeno nell’ambito dei diversi SAL: a ciascuno dei quali è quindi attribuita l’arbitraria funzione di garantire una specifica soluzione di continuità tra i lavori precedenti e quelli successivi, smentita già dal R.D. n. 350 del 1895, artt. 57 e 58, nonchè art. 40 segg. Cond. gen. lavori cit. che gli assegnano invece quella (meramente amministrativa) di riassumere tutte le lavorazioni e tutte le somministrazioni eseguite dal principio dell’appalto fino all’emissione del documento (nonchè di calcolare i corrispettivi contrattualmente spettanti all’imprenditore). Con la conseguenza,semmai di rafforzare l’onere della riserva in capo all’imprenditore perchè ormai a conoscenza,con l’emissione del certificato, dei compensi che gli saranno corrisposti o negati (Cass. 5253/2016; 10949/2014); e non certamente di rimetterlo in termini per l’iscrizione di quelle per le quali è maturata la decadenza per il solo fatto che la lavorazione non è esaurita, ma prosegue con tutti i maggiori oneri che essa aveva palesato fin dalle fasi precedenti. In contrasto con la principale finalità dell’istituto, notoriamente rivolto, specialmente nell’interesse pubblico a consentire all’amministrazione appaltante la tempestiva verifica delle contestazioni della controparte, attesa la necessità della continua evidenza della spesa dell’opera in funzione della corretta utilizzazione e della eventuale integrazione dei mezzi finanziari per essa predisposti (sent. da 2613/1976; sez. un. 2168/1973; da ultimo 9328/2016; 16367/2014; 15013/2011). Ed il contrasto risulta ancor più evidente proprio nelle tipologie di riserve,introdotte dalla prassi arbitrale ed oggi invocate dall’Astaldi, quali “la ridotta produttività” o “l’andamento anomalo dell’appalto” in cui l’evento di danno non è collegato a singole inadempienze, scindibili l’una dall’altra, bensì a fatti e comportamenti continuativi o progressivi e tra di essi interdipendenti della stazione appaltante, il cui risultato costituisce il complessivo pregiudizio causato e rivendicato dall’imprenditore: perciò pur esso da denunciare nei termini e con le modalità imposte dalla menzionata normativa, nel caso non osservata, ferma poi la facoltà di aggiornarne via via l’ammontare in occasione degli stati di avanzamento o di altri atti contabili successivi (Cass. 2316/2016; 14510/2007; 14110/2003).

8. Con l’ottavo ed il nono motivo del ricorso principale il Ministero, denunciando omessa ovvero insufficiente o ancora contraddittoria motivazione in ordine all’accoglimento delle riserve 4, 7 e 20 relative all’impossibilità per l’impresa di svolgere l’attività del dragaggio secondo la programmazione e le modalità previste con conseguenti maggiori esborsi e notevole ritardo nell’esecuzione dei relativi lavori, addebita alla sentenza impugnata: a) di non aver tenuto in alcun conto le ragioni per le quali il Tribunale aveva escluso sotto ogni profilo il diritto dell’imprenditore a ricevere ulteriori compensi oltre a quelli contrattuali per i lavori compiuti nonchè per il ritardo nella loro esecuzione; ed anzi addebitando al primo giudice di avere omesso di pronunciarsi sull’effettuazione dello scavi di cui alla riserva 4, sugli oneri di stoccaggio dei cassoni dovuti costruire di cui alla riserva 7 e sul ridragaggio del materiale refluito temporaneamente all’interno della darsena; b) di avere per tale motivo recepito gli importi a tale titolo liquidate dal c.t.u. senza altra indagine; e senza considerare che quest’ultimo aveva fondato la determinazione sull’apodittico presupposto che il ritardo nel dragaggio ed i maggiori esborsi che ne erano conseguiti fossero dovuti a responsabilità e ritardi della stazione appaltante nell’ottenere il rilascio delle opportune autorizzazioni da parte delle autorità competenti; c) di non aver considerato che proprio tale presupposto era stato disatteso dal Tribunale sia con riferimento alla correlazione tra i lavori di bonifica degli ordigni bellici e quelli di dragaggio motivatamente esclusa, sia con riferimento al conseguimento delle autorizzazioni al dragaggio ed allo sverso al mare, perchè di competenza dell’ATI, sia con riguardo alla vera causa del ritardo nelle relative operazioni di dragaggio,invece individuata nell’opposizione degli ambientalisti.

Anche queste censure sono fondate.

Il Tribunale, infatti, la cui decisione è stata interamente riportata nel ricorso, aveva escluso in radice il diritto dell’Astaldi al maggior corrispettivo per le suddette operazioni(scavo della darsena,oneri di stoccaggio dei cassoni, operazioni di ridragaggio ecc.) perchè trattatasi di lavori extracontrattuali non ordinati dalla committente, perciò non rientranti neppure nell’ambito degli indennizzi di cui al D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 13 e art. 1664 c.c… Aveva inoltre disatteso la disamina del c.t. anche in ordine ai ritardi nell’affidamento dei relativi lavori (e quindi al dedotto andamento anomalo dell’appalto), in quanto: a) quelli per la bonifica dei fondali da ordigni bellici avevano costituito oggetto fin dal disciplinare di specifiche pattuizioni tra le parti che non ne consentivano alcun collegamento con quelli di dragaggio; b) questi ultimi regolarmente affidati il 25 febbraio 1991, non avevano potuto avere comunque inizio prima del 22 luglio 1992 a causa delle opposizioni di pescatori ed ambientalisti, perciò non imputabili alla stazione appaltante; c) ogni altro ostacolo al compimento di dette attività, come il conseguimento delle opportune autorizzazioni (quella allo scarico a mare era stata ottenuta il 29 maggio 1991) riguardava comunque il rapporto tra l’impresa ed amministrazioni terze sicchè gli eventuali ritardi che ne erano conseguiti non erano imputabili a responsabilità della committente.

Mostrando di non aver compreso alcuna di dette analitiche ragioni che avevano indotto il primo giudice a ritenere insussistenti sotto ogni profilo (corrispettivo, indennitario e risarcitorio) gli stessi presupposti dei diritti di credito pretesi dall’Astaldi, la Corte di appello gli ha addebitato di non essersi pronunciato sulla determinazione dei maggiori oneri (oggetto delle tre riserve) che erano derivati dalle non programmate operazioni di dragaggio eseguite nonchè dagli ostacoli dovuti superare (pag. 10): senza considerare che dopo avere escluso l’an, il giudice di merito non è comunque tenuto ad esaminare (o riesaminare) presupposti di fatto e di diritto per la valutazione del quantum,ormai preclusa; in relazione ai quali, peraltro, la sentenza impugnata si è limitata ancora una volta a recepire gli importi proposti dal c.t. senza altra indagine.

9. Ma così statuendo,è incorsa nel vizio di omessa motivazione,denunciato dal Ministero, il quale è configurabile non solo quando il giudice abbia completamente omesso di esaminare una questione proposta, ma anche quando sia reso impossibile il controllo del criterio logico in base al quale egli ha affermato il proprio convincimento; e, perciò, sussiste quando detto giudice si sia limitato ad affermazioni apodittiche non corredate dall’indicazione degli elementi a sostegno della decisione. A questa situazione è, peraltro, equiparabile quella in cui la sentenza argomenta sulla base di elementi di prova menzionati in modo tale da presupporre che essi siano già conosciuti, perchè li fa oggetto di mero richiamo, invece che di una descrizione sufficiente a dar conto della loro rilevanza: posto che anche in tal caso non è ricostruibile l’iter logico attraverso cui si è formato il convincimento del giudice e non è quindi esercitabile il controllo della sufficienza e coerenza delle ragioni che lo sorreggono.

Il che si è verificato nel caso concreto con il mero rinvio (per di più implicito) della sentenza di appello, agli accertamenti ed alla valutazione del c.t. che, se esteso ai presupposti dei crediti dedotti dall’appaltatore e ritenuti con congrua motivazione insussistenti dal Tribunale, si risolve, di per sè, in una violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, posto che il giudice deve attenersi al limite intrinseco alla consulenza tecnica, consistente nella sua funzionalità alla risoluzione di questioni di fatto presupponenti cognizioni di ordine tecnico e non giuridico; per cui, non può risolvere la controversia in base ad un (implicito) richiamo alle conclusioni al riguardo del consulente stesso, ma può condividerle soltanto ove formuli una propria autonoma motivazione basata sulla valutazione degli elementi di prova legittimamente acquisiti al processo e dia sufficiente ragione del proprio convincimento difforme da quello del primo giudice.

Pertanto nel caso la Corte territoriale, in presenza di operazioni di dragaggio via terra che il primo giudice aveva dichiarato “pacificamente non previste in contratto”, non avendo smentito la correttezza di detto accertamento, tanto se si fosse trattato di interventi nuovi e diversi da quelli programmati, quanto se fossero consistiti in lavori aggiuntivi e variazioni di queste unilateralmente introdotti dalla società appaltatrice, non poteva sottrarsi alla applicazione della legislazione tuttora vigente, fondata sul noto divieto posto dai primi due commi del L. n. 2248, art. 342, per il quale “1. Non può l’appaltatore sotto verun pretesto introdurre variazioni o addizioni di sorta al lavoro assunto senza averne ricevuto l’ordine per iscritto dall’ingegnere direttore, nel qual ordine sia citata la intervenuta superiore approvazione. 2. Mancando una tale approvazione gli appaltatori non possono pretendere alcun aumento di prezzo od indennità per le variazioni od addizioni avvenute, e sono tenuti ad eseguire senza compenso quelle riforme che in conseguenza l’Amministrazione credesse opportuno di ordinare, oltre il risarcimento dei danni recati”.

E se è vero che tale regola subisce un’eccezione nell’ipotesi prevista dal R.D. n. 350 del 1895, art. 103, di variazioni ed addizioni che, in sede di collaudo vengano riconosciute dal collaudatore indispensabili per l’esecuzione dell’opera e semprechè l’importo totale della stessa, compresi i lavori extra contratto, rientri nei limiti di spesa approvata ed intervenga infine la volontà/approvazione in tali sensi dell’organo competente della p.a. ad esprimerla nelle forme di legge, (Cass. 15221 e 5278/2007; 11501/2006; 11365/1999),e pur vero che la ricorrenza di dette condizioni non è stata neppur allegata nè dal c.t.u., nè dall’impresa;per cui il menzionato divieto non solo impediva l’attribuzione a quest’ultima del richiesto compenso o risarcimento per i maggiori costi o oneri e comunque per i possibili pregiudizi conseguenti alle attività di dragaggio a terra non corrispondenti a quelle contrattualmente stabilite, ma non consentiva altresì l’elusione della norma attraverso la modificazione del titolo di dette pretese correlandolo ad un ritardo complessivo nella organizzazione ed esecuzione dei relativi lavori, ed in ogni caso ad un andamento anomalo dell’appalto: posto che anche in tale prospettiva i maggiori oneri da risarcire avrebbero dovuto essere eziologicamente dipendenti dall’esecuzione non modificata dall’impresa, di attività e lavorazioni come individuate nei capitolati e nel contratto.

10. Ove poi il programma effettivamente attuato dei lavori di dragaggio (scavi della darsena, stoccaggio dei cassoni, nuovo dragaggio del materiale ed altre operazioni complementari), contrariamente al giudizio del Tribunale, fosse stato ritenuto conforme a quello ivi predisposto, ovvero, in alternativa, fosse stato imposto di fatto da comportamenti positivi ovvero omissivi dell’amministrazione appaltante, per l’accoglimento delle riserve in esame non bastava l’opinione in tali sensi del c.t.u. anche perchè motivatamente disattesa dal primo giudice: occorrendo invece che entrambe le categorie di fatti si traducessero nella violazione di obblighi assunti per contratto o per legge dalla committente. Laddove quanto all’eventualità di ostacoli materiali al compimento del dragaggio come programmato via mare, non ne risulta prospettato alcuno neppure da parte dell’Astaldi; mentre per quanto riguarda il mancato o ritardato conseguimento delle relative autorizzazioni, il Tribunale ha escluso che detti provvedimenti fossero di competenza della stazione appaltante, ed accertato che la loro concessione spettava ad amministrazioni terze, comunque estranee al Ministero della Difesa: e la sentenza impugnata non ha contraddetto alcuno di detti accertamenti, perciò non più revocabili in dubbio. Si deve aggiungere per completezza che, pur se la precedente disamina fosse stata compiuta e conclusa in senso favorevole all’impresa, diveniva nuovamente indispensabile l’accertamento, pur esso omesso dalla decisione impugnata, del rigoroso nesso di causalità di cui si è appena detto, tra le inadempienze in cui in tesi era incorsa la committente, ed il ritardo o il mutamento del programma di dragaggio con i maggiori costi conseguenti: essendo a tal fine irrilevante per le considerazioni avanti svolte, che l’uno e l’altro evento pregiudizievole non dipendessero dall’organizzazione del cantiere e dei lavori predisposta dall’appaltatore, ma fossero dovuti a cause esterne e comunque non influenzabili da quest’ultimo. E tuttavia, tale nesso di causalità, non solo dal Tribunale, ma anche dai giudici di appello è stato escluso anzitutto in relazione alla bonifica dei fondali da ordigni bellici perchè svincolata per effetto di specifiche pattuizioni tra le parti da qualsiasi collegamento con le operazioni di dragaggio: ed è stato escluso, altresì per il ritardo nella loro esecuzione, avendo entrambi i giudici accertato che era dovuto “all’opposizione ai lavori da parte delle organizzazioni locali di pescatori ed ambientalisti” protrattasi ben oltre il conseguimento delle autorizzazioni; sì da indurre la sentenza impugnata alla conclusione (pag. 11) che l’uno e l’altro evento “non possono in ogni caso portare a responsabilità alcuna dell’amministrazione appaltante”.

11. Fondati sono altresì il 10^ ed 11^ motivo del ricorso principale, pur se alla stregua di norme diverse da quelle prospettate dalle parti, con cui il Ministero, deducendo violazione dei principi generali in materia di revisione prezzi, monchè motivazione omessa su fatti decisivi, si duole che la Corte territoriale l’abbia determinata secondo l’andamento effettivo dei lavori e non secondo il loro originario programma: e ciò malgrado non ne ricorresse la condizione che la loro interruzione temporanea o il ritardo fossero imputabili non all’impresa appaltarice, bensì alla stazione appaltante.

La più qualificata dottrina e la giurisprudenza, anche amministrativa, sono infatti fermissime da decenni nel ritenere che l’istituto della revisione dei prezzi contrattuali onde adeguarli ai mutati costi dei fattori produttivi – perciò non dipendenti da inadempimenti e responsabilità della stazione appaltante – per gli aggravi economici che impone a quest’ultima, è disciplinato in ogni sua fase dalla legge e correlato ad un potere attribuito alla p.a. nell’interesse pubblico, che opera al di fuori del contratto (nonchè delle spese in esso previste) con effetti su di esso;ed è strutturato come un procedimento concessorio rimesso alla discrezionalità dell’amministrazione appaltante.

Questa configurazione secondo il tradizionale modello autoritativo potere – interesse legittimo è stata accentuata dalla L. n. 37 del 1973, il cui art. 2, ha soppresso il regime convenzionale derogativo della disciplina legale (introdotto dal D.Lgs.C.P.S. n. 1501 del 1947); e, più non permettendo alle parti di convenire in contratto un regolamento derogativo della disciplina legale, ha escluso altresì che il riconoscimento della revisione possa avvenire in via preventiva in sede di stipulazione del contratto, del capitolato o in occasione di patti aggiuntivi (nel caso l’atto 10805 dell’1 agosto 1991) e lo ha consentito soltanto mediante un atto successivo, unilaterale dell’amministrazione, che può, dunque, sopravvenire soltanto durante lo svolgimento dell’appalto ovvero al termine di esso (Cass. sez. un. 560/2000; 22903/2005; da ult: Cass. 17038/2016).

Con la conseguenza che, sussistendo detta discrezionalità non solo nell’an, ma anche sul “quando” del riconoscimento, esclusivamente da tale momento l’appaltatore diviene titolare di un diritto soggettivo a percepirla, e sempre da tale data è configurabile la responsabilità dell’amministrazione debitrice per l’inadempimento.

I margini per il riconoscimento della revisione sono stati ulteriormente limitati dalla Legge Finanziaria n. 41 del 1986, art. 33, il quale, nel testo originario, ne ha individuato il presupposto nell’aumento o nella diminuzione dell’importo complessivo della prestazione in misura superiore al 10% e, nei casi in cui tale presupposto sussista, ha escluso l’applicazione del meccanismo all’importo dei lavori già eseguiti nel primo anno nonchè all’anticipazione già corrisposta (Cass. 21222/2011; 23670/2006;3698/2000). Ed infine la L. n. 359 del 1992, art. 3, ha soppresso in radice, con efficacia ex nunc, l’istituto; mentre la L. n. 109 del 1994, art. 26, ha confermato il divieto di riconoscimento di qualsiasi tipologia di revisione, estendendolo altresì alla fattispecie prevista dell’art. 1664 c.c., comma 1 (Cass. sez. un. 8519/2007).

Al lume di questo quadro legislativo, che la Corte di appello era tenuta ad osservare rigorosamente, qualunque fosse l’impostazione offerta dalle parti al riguardo, essendo stato il contratto di appalto stipulato il (OMISSIS), non era anzitutto ammissibile alcuna pattuizione preventiva sulla revisione contenuta nel contratto, nel capitolato (o nei patti aggiuntivi),così come non lo era il riconoscimento dell’amministrazione in relazione ai lavori eseguiti nell’anno successivo (fino al (OMISSIS)); ed essendo stata la revisione soppressa con la menzionata legge del 1992, la stessa ove riconosciuta (ritualmente) dal Ministero, poteva essere attribuita esclusivamente per i lavori (ed i riconoscimenti) intervenuti nell’ambito di detto limitato periodo (Cass. 8198/2005; Cons. St. 5347/2002): naturalmente con l’obbligatoria applicazione per calcolarne l’ammontare, delle tabelle di incidenza di cui alla L. n. 463 del 1964, art. 1 e succ. modifiche,vigenti al tempo dell’appalto (Cass. 21222/2011 cit.; 23670/2006; 2822/1995; 4644/1994).

E con la conseguente irrilevanza, ai fini di detta determinazione,delle questioni, inutilmente dibattute nei precedenti gradi, sul programma dei lavori, e risolte dalla sentenza impugnata, in contrasto con la normativa appena menzionata, privilegiando piuttosto che quello preventivato, il programma poi effettivamente attuato; che del resto, ove difforme o ritardato in conseguenza di comportamenti illegittimi della committente, avrebbe comportato a tutela delle ragioni dell’appaltatore, il risarcimento dell’intero danno da costui sofferto, e non certamente,il ricorso all’istituto della revisione (Cass. 16152/2013; 5951/2008).

12. D’altra parte la soluzione dei giudici di appello non trova conforto neppure nella L. n. 741 del 1981, artt. 1 e 2, che la contraddicono, disponendo invece che “la revisione del prezzo viene effettuata tenendo conto dello sviluppo esecutivo risultante dal programma dei lavori a tal fine esclusivo predisposto”; ed inducendo ripetutamente il Consiglio di Stato ad affermare che detta normativa non fa di conseguenza riferimento ad un momento fattuale già realizzatosi, ma alla valutazione prospettiva di quello che dovrà accadere in relazione all’andamento previsto dei lavori: in coerenza con la funzione dell’istituto, che è quella di evitare le insidie legate ad una revisione dipendente dallo sviluppo effettivo dei lavori (Cons. St. 1412/2011; 1146/2008; 3814/2001).

Questo sistema di calcolo preventivo e prognostico è reso del resto ancor più coerente dalla scelta testuale del “programma dei lavori” quale strumento esclusivo e non modificabile o aggiornabile per determinarne il (futuro) andamento, come avverte già la stessa epigrafe dell’art. 1 (“Revisione prezzi sulla base del programma dei lavori”); nonchè dalla sua collocazione temporale in coincidenza con il bando di gara e/o con l’offerta – antecedenti entrambi all’aggiudicazione – con obbligo per l’amministrazione (o specularmente per l’impresa in caso di appalto-concorso) di allegarlo al capitolato speciale e di farne menzione nella lettera di invito. E soprattutto dalla sua utilizzazione, finalizzata e circoscritta dalla L. n. 741, art. 2 (così come ancor più chiaramente dalla L. n. 1 del 1978, art. 14) esclusivamente al pagamento degli “acconti per revisione per l’importo eccedente quello dell’anticipazione”, nei tempi e con le modalità di cui alla L. n. 700 del 1974: in perfetta armonia con il tenore letterale della stessa premessa del precedente art. 1, di mantenere “ferme le vigenti norme in materia di revisione dei prezzi dei lavori pubblici”; che costituiva l’oggetto specifico della pretesa di cui alla riserva n. 20 iscritta dall’impresa (pag. 12 sent.).

E proprio per evitare la confusione concettuale tra le relative discipline (p. 11), in cui è incorsa la sentenza impugnata, non avvedendosi che nel caso non si dibatteva sul pagamento di acconti revisionali in corso d’opera, anche perchè l’appalto si era già concluso con il collaudo approvato il 19 marzo 1998, le Sezioni Unite della Corte hanno enunciato i seguenti principi: 1) l’acconto revisionale, sorto in un periodo storico di forte inflazione con la funzione acceleratoria di garantire (unitamente all’anticipazione) comunque il celere completamento delle opere affidate in appalto, costituisce almeno a partire dalla L. n. 1 del 1978, art. 14e fino al D.L. n. 333 del 1992, art. 3 (da cui l’intero sistema è stato soppresso) un diritto soggettivo perfetto dell’appaltatore correlato ad un vero e proprio obbligo legale della stazione appaltante, al pari di quello al pagamento degli acconti sui lavori eseguiti, in occasione dei singoli stati di avanzamento dei lavori; 2) le disposizioni sulla commisurazione degli acconti del compenso revisionale che ne regolano l’entità, nonchè le modalità e i tempi dei relativi versamenti,esauriscono quindi la loro funzione, come del resto la contestaule normativa sui pagamenti in conto del corrispettivo contrattuale, nell’ambito della prospettiva acceleratoria, da un lato dei lavori pubblici nonchè del collaudo e dall’altro dei pagamenti, intesa perseguire dal legislatore: senza perciò apportare modifiche alla precedente normativa (“Restano ferme le norme…”) circa il potere discrezionale dell’amministrazione committente di accordare o meno la revisione. E con la possibile conseguenza che, ove questa non venga riconosciuta, gli acconti percepiti debbano essere restituiti o comunque conguagliati nel conto finale dei lavori; 3) il pagamento degli acconti in occasione della redazione dei SAL, d’altra parte, costituendo un’obbligazione della stazione appaltante in corso d’opera,il cui inadempimento la espone alle responsabilità previste dagli artt. 1218 c.c. e segg., nonchè dalla L. n. 700 del 1974, non ha nè può avere alcuna influenza sul regime della revisione complessiva e definitiva di cui al D.L.C.P.S. n. 1501 del 1947 ed alla L. n. 47 del 1973 (Cass. 24588/2014; 3698/2000); nè, trattandosi di atto dovuto in adempimento di un obbligo di legge, può in alcun modo essere considerato quale comportamento volontario idoneo a lasciar desumere il positivo esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione committente (attraverso i suoi organi deliberativi competenti a disporne l’impegno di spesa) di concedere la revisione dei prezzi contrattualmente pattuiti per l’intera opera; il cui an e quantum, pur limitatamente al periodo indicato, dovranno conclusivamente essere riesaminati dal giudice di rinvio alla stregua dei principi normativi appena delineati (p. 11), a prescindere dal “programma” (preventivato o effettivo) del loro svolgimento,che anche nella fattispecie ha esaurito la sua funzione in occasione del pagamento degli acconti all’Astaldi in corso d’opera ai sensi delle menzionate L. n. 1 del 1978 e L. n. 741 del 1981 (Cass. sez. un. 4463/2009; 16285/2010; 15474/2015).

13. Con il 12^ motivo, il Ministero, deducendo omessa considerazione di fatti decisivi nonchè vizi di motivazione si duole che la sentenza abbia violato la L. n. 55 del 1990, art. 18, comma 14, che esclude l’applicazione della normativa sui prezzi da praticare per le opere affidate in subappalto solo per quelli stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della legge: perciò dovendo essere osservata per il subappalto per cui è causa affidato dall’ATI con contratto del 16 aprile 1991; ed a nulla rilevando che l’appalto base le era stato aggiudicato con il menzionato contratto del (OMISSIS), anche perchè l’accordo aggiuntivo che aveva generato il subappalto era sopravvenuto in data 25 febbraio 1991.

Anche questa censura merita accoglimento per avere la sentenza impugnata al fine di escludere l’applicazione dello stesso art. 18, comma 4, interpretato il successivo comma 14, in modo non condivisibile: frazionando la disposizione dopo averla isolata da quelle che la precedono in modo da riferire i termini “aggiudicati o affidati” prima della entrata in vigore della legge ai “lavori pubblici”;e da presumere che tale categoria così genericamente menzionata ed a sua volta arbitrariamente separata dalla preposizione che la precede (“ai”), intendesse indicare sempre e comunque il contratto di appalto c.d. madre, da cui trae origine il subappalto.

Siffatta interpretazione non tiene anzitutto conto del riferimento tecnicamente e giuridicamente corretto dell’alternativa “aggiudicati o affidati” a quella corrispondente “ai subappalti o ai cottimi…” privilegiando invece quello atecnico ai “lavori” in genere, privo di qualsiasi specificazione, e soprattutto dell’indicazione delle tipologie contrattuali o dei titoli che devono qualificare l’aggiudicazione o l’affidamento dei quali rende incomprensibile ed aspecifica la prevista alternativa; e neppure che il termine “lavori pubblici” non è nell’ambito della proposizione autonomo, ma conclude quella “ai cottimi relativi ai…” di cui costituisce il completamento della seconda tipologia contrattuale oggetto dell’alternativa,in tale specificazione esaurendo la sua funzione. Ma soprattutto non considera che l’intera normativa a partire dal comma 3 è rivolta a stabilire la disciplina dei subappalti o dei cottimi con particolare riguardo ai presupposti di validità, ai procedimenti ed ai divieti che le parti sono tenute ad osservare nonchè ai trattamenti normativi, per cui è conseguente che il comma 14 ed u.c. disciplini l’ambito di operatività temporale della nuova legge, individuando quale momento discriminante della sua applicazione quello dell’aggiudicazione del subappalto o dell’affidamento del cottimo: così come peraltro avviene per la quasi totalità delle disposizioni legislative la cui applicazione è subordinata agli stessi eventi. Laddove l’interpretazione seguita dalla Corte territoriale irrazionalmente assoggetta a regolamentazioni diverse tutti quei subappalti che pur essendo stati stipulati dopo l’entrata in vigore della L. n. 55, a differenza di altri che per tale ragione ne sono soggetti, traggono origine da contratti di appalto o da concessioni di lavori antecedenti alla legge suddetta, e tuttavia del tutto indifferenti alla nuova regolamentazione dalla stessa introdotta. Pertanto, per l’applicazione del comma 4 di detto art. 18 risulta del tutto ininfluente la data di conclusione del contratto principale,essendo invece decisiva in base al suo comma 14, quella di aggiudicazione del subappato che la stessa sentenza impugnata indica nel 16 aprile 1991.

14. Le statuizioni adottate, modificando notevolmente i rapporti di dare-avere tra le parti comportano l’assorbimento dei primi due motivi del ricorso principale con cui il Ministero censurava i criteri e le poste considerate per compierne la liquidazione finale, che dovranno quindi essere esaminati dal giudice di rinvio; così come gli ultimi in questa sede non esaminati. Per il resto la sentenza di appello va cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio alla Corte di appello di Roma, che provvederà al loro riesame ex novo attenendosi ai principi per ciascun motivo esposti, nonchè alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte,accoglie il ricorso principale nei limiti e per le ragioni di cui in motivazione, rigetta l’incidentale, cassa la sentenza impugnata, e rinvia anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2017

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