Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4602 del 22/02/2017

Cassazione civile, sez. I, 22/02/2017, (ud. 07/12/2016, dep.22/02/2017),  n. 4602

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPPI Aniello – Presidente –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17449-2012 proposto da:

C.G., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentatoCIVILE

rappresentato e difeso dall’avvocato BARBARA MASERI, giusta procura

a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

UNICREDIT S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BERTOLONI 44, presso

l’avvocato ANTONIO FORMARO, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato GIOVANNI FERRINI, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5/2012 della CORTE D’APPELLO di TRENTO,

depositata il 12/01/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/12/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO FALABELLA;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato BARBARA MASERI che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato MERI LUCIA LIBURDI, con

delega orale, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

C.G. conveniva in giudizio Unicredit Banca s.p.a. per ottenerne la condanna alla restituzione della somma di Euro 29.000,00, oltre accessori, previo accertamento della nullità o annullabilità dei contratti di investimento aventi ad oggetto obbligazioni (OMISSIS) stipulati in violazione delle norme sulla trasparenza e sull’informativa; in subordine domandava condannarsi la controparte al risarcimento dei danni.

Parte attrice lamentava che l’acquisto delle obbligazioni era stato sollecitato da un funzionario della banca pochi mesi prima del fallimento della società emittente.

Parte convenuta si costituiva e chiedeva il rigetto della domanda: deduceva di aver avvisato il cliente dell’inadeguatezza dell’operazione, sconsigliandolo dal porla in essere.

Il Tribunale di Rovereto respingeva la domanda.

Interposto gravame, la Corte di appello di Trento, con sentenza pubblicata il 1 febbraio 2012, rigettava l’impugnazione.

Quest’ultima pronuncia è oggetto di un ricorso per cassazione, proposto da C., fondato su nove motivi. Con controricorso, illustrato da memoria, resiste Unicredit.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo lamenta omessa pronuncia su una doglianza formulata in sede di appello, in violazione dell’art. 112 c.p.c.. Assume il ricorrente che la Corte di merito non aveva esaminato il motivo di gravame con cui aveva lamentato la violazione, da parte di Unicredit, dell’obbligo di comunicare al cliente informazioni corrette, chiare e non fuorvianti, come previsto dagli artt. 27 e 28 reg. Consob: l’assenza di tali informazioni aveva infatti tratto in inganno l’istante. Sul punto viene richiamato l’atto di citazione d’appello, in cui l’odierno ricorrente aveva dedotto come la banca, all’atto della redazione del documento denominato “esito consulenza – valutazione di adeguatezza – avvertenze della banca”, avesse per un verso evidenziato l’assenza di rischio nell’acquisto dell’obbligazione (OMISSIS) e, dall’altro, dichiarato genericamente che l’investimento non risultava adeguato alle conoscenze ed esperienze in materia di investimento di esso C..

Il motivo non è fondato.

L’impianto motivazionale della sentenza impugnata è fondato su di una precisa evenienza: la comunicazione, da parte della banca all’investitore, circa il fatto che l’investimento risultava essere inadeguato e inappropriato. La Corte di merito precisa, al riguardo, che l’attività della banca implicò, nella fase iniziale, una vera e propria attività di consulenza, che aveva trovato espressione nella formulazione di un parere sfavorevole all’acquisto delle obbligazioni di cui trattasi. Non trova dunque riscontro l’assunto del ricorrente quanto all’omessa pronuncia sugli obblighi informativi dell’intermediario. Non rilevano, ovviamente, ai fini che qui interessano, le circostanze prese in esame dalla Corte distrettuale per sostenere l’assunto della spendita dell’attività informativa, dal momento che tale profilo non investe il vizio di omessa pronuncia, assumendo semmai rilevanza nella prospettiva del vizio motivazionale. Infatti, la differenza fra l’omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c. e l’omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 si coglie nel senso che nella prima l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa, mentre nel caso dell’omessa motivazione l’attività di esame del giudice che si assume mancante non concerne la domanda o l’eccezione direttamente, bensì una circostanza di fatto che, ove valutata avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un’eccezione (Cass. 5 dicembre 2014, n. 25761; Cass. 4 dicembre 2014, n. 25714; Cass. 14 marzo 2006, n. 5444). Nel caso in esame è lamentata la mancata pronuncia su di un motivo di appello, vertente sul presupposto della pretesa risarcitoria azionata (la mancata osservanza degli obblighi informativi). Su tale motivo è stata resa pronuncia.

Col secondo motivo è denunciata altra omissione di pronuncia con riguardo a doglianza formulata in sede di gravame, in violazione dell’art. 112 c.p.c. Assume l’istante che la Corte di Trento non aveva esaminato il motivo di appello con cui era stata denunciata la violazione, da parte di Unicredit, dell’obbligo di comunicare a lui, successivamente all’acquisto del titolo, qualsiasi modifica rilevante delle caratteristiche del tipo specifico di strumento interessato, nonchè, in modo sufficientemente dettagliato, i rischi propri di detto strumento finanziario; evidenzia che tale omissione gli aveva impedito di adottare consapevoli decisioni di disinvestimento.

Nemmeno tale motivo ha fondamento.

Poichè il vizio denunciato è, anche con riferimento a questo secondo motivo, l’omessa pronuncia, basterà rilevare che la Corte di Trento ha escluso l’obbligo, in capo alla banca, di svolgere un’attività di consulenza, in quanto fin dall’inizio essa aveva sconsigliato l’acquisto dei titoli obbligazionari; rileva la Corte territoriale che non aveva senso, pertanto, esaminare omissioni o reticenze: sarebbe stato invece necessario scrutinare queste ultime nel caso in cui il cliente si fosse impegnato finanziariamente in un’operazione consigliata dalla banca. In tal modo, il giudice del gravame ha ritenuto assorbito il motivo di impugnazione che l’istante assume essere stato oggetto di omessa pronuncia. Va rammentato, in proposito, che il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice d’appello è configurabile allorchè manchi completamente l’esame di una censura mossa al giudice di primo grado; la violazione non ricorre, invece, ove la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto, o il suo assorbimento in altre statuizioni (Cass. 26 gennaio 2016, n. 1360; Cass. 25 febbraio 2005, n. 4079).

Il terzo motivo verte sulla violazione degli artt. 2730 e 2735, nonchè dell’art. 116 c.p.c.. Spiega il ricorrente che la Corte di appello aveva attribuito a due documenti redatti interamente dalla banca, e fatti sottoscrivere al cliente, valenza confessoria stragiudiziale. La Corte di merito aveva rilevato che detti documenti contenevano una pluralità di espressioni non equivoche, anzi reiterate, circa il fatto che l’operazione risultava non adeguata rispetto alle sue conoscenze ed esperienze e, inoltre, non appropriata. Nondimeno tali dichiarazione non potevano costituire dichiarazioni confessorie, in quanto erano rivolte alla formulazione di un giudizio e non ad una dichiarazione di scienza circa un fatto obiettivo.

La censura va disattesa.

Anzitutto, non risulta che la Corte di merito abbia conferito valore confessorio alla dichiarazione – resa dal ricorrente, su modulo predisposto dalla banca e da lui sottoscritto in ordine alla propria consapevolezza, conseguente alle informazioni ricevute, del carattere inadeguato e inappropriato dell’investimento. E’ ben vero che una siffatta dichiarazione non costituisce dichiarazione confessoria, in quanto è rivolta alla formulazione di un giudizio e non all’affermazione di scienza e verità di un fatto obiettivo (così Cass. 19 aprile 2012, n. 6142). Nondimeno, nel caso di specie, la dichiarazione esaminata dal giudice del gravame conteneva, oltre alla presa d’atto, da parte di C., del fatto che l’operazione non era appropriata, l’ulteriore affermazione, da parte dello stesso ricorrente, che, secondo quanto comunicatogli dall’intermediario, l’operazione stessa non era adeguata rispetto alle sue conoscenze ed esperienze. E quest’ultima dichiarazione, in quanto si risolve in una dichiarazione di scienza (dichiarazione avente precisamente ad oggetto la comunicazione ricevuta dal cliente), ben può essere apprezzata come confessione stragiudiziale.

Con riferimento alla prima parte della dichiarazione va poi rilevato che in tema d’intermediazione finanziaria, l’attestazione resa dal cliente, su modulo predisposto dalla banca e da lui sottoscritto, in ordine alla propria consapevolezza circa le informazioni ricevute sulla rischiosità dell’investimento suggerito e sollecitato dalla banca e della inadeguatezza dello stesso rispetto al suo profilo d’investitore, pur non costituendo dichiarazione confessoria (in quanto rivolta alla formulazione di un giudizio e non all’affermazione di scienza e verità di un fatto obiettivo), può comprovare l’avvenuto assolvimento degli obblighi di informazione incombenti sull’intermediario (Cass. 6 marzo 2015, n. 4620). Alla Corte di appello non era pertanto precluso di valorizzare, nel senso indicato, l’affermazione di cui trattasi.

Il quarto motivo lamenta un “vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 per erronea applicazione della legge (artt. 1324, 1363 e 1370 c.c.) in ragione della carente ricostruzione della fattispecie concreta”. Il ricorrente, in sintesi, censura l’erronea applicazione, da parte della Corte di appello, dei canoni legali di ermeneutica con riferimento ad un documento: documento da essa ritenuto un mero ordine di acquisto. All’opposto secondo l’istante -, la prestazione doveva essere qualificata come servizio di consulenza, onde la banca aveva l’obbligo di fornire il maggior grado di tutela anche relativamente a operazioni richieste del cliente, e non proposte dall’intermediario, con la conseguente necessità, da parte dell’istituto di credito, di assolvere a precisi obblighi informativi: obblighi che nella circostanza erano stati violati.

Il motivo è infondato.

Esso si risolve in una censura in fatto. Nè la censura vertente sulla violazione dei canoni interpretativi, nè quella basata sul vizio di motivazione possono risolversi in una critica del risultato interpretativo, raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (Cass. 16 febbraio 2007, n. 3644; Cass. 25 ottobre 2006, n. 22899; Cass. 13 dicembre 2006, n. 26690; Cass. 2 maggio 2006, n. 10131: il principio è del tutto pacifico ed è costantemente richiamato da questa S.C., pure in pronunce non massimate in tal senso: cfr. ad es. Cass. 21 aprile 2016, n. 8096). E del resto, per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni (Cass. 17 marzo 2014, n. 6125; Cass. 25 settembre 2012, n. 16254, Cass. 20 novembre 2009, n. 24539).

Il quinto motivo contiene una censura di violazione e falsa applicazione della dir. 2004/39/CE, recepita dal D.Lgs. n. 164 del 2007 e dell’art. 1, comma 5, lett. f) e art. 1, comma 5 septies, t.u.f. e dell’art. 32 del contratto quadro. La Corte distrettuale – viene esposto – aveva ritenuto che l’attività di consulenza cessa nel preciso momento in cui la banca sconsiglia l’operazione: tale ipotesi, per la stessa Corte, era diversa rispetto al caso in cui il cliente si impegni finanziariamente in un’operazione dall’esito negativo consigliata dalla banca. Di contro le norme citate, anche alla luce degli artt. 40 e 42 reg. Consob n. 16190/2007, disporrebbero che quando l’intermediario effettua la valutazione di adeguatezza, lo stesso sta prestando il servizio di consulenza in materia di investimenti: servizio che può essere offerto su richiesta del cliente o su iniziativa della banca. Il giudice dell’impugnazione aveva dunque errato nel differenziare l’ipotesi in cui l’esecuzione dell’operazione fosse stata consigliata dalla banca da quella cui non lo fosse stata.

Tale deduzioni non appaiono concludenti.

Che la banca abbia sconsigliato il cliente quanto al possibile acquisto dei titoli obbligazionari è un dato di fatto. Ed è un dato di fatto che C., nondimeno, si risolse a dar corso all’operazione.

Occorre poi ricordare che la Corte di appello ha espressamente individuato nel contratto concluso tra gli odierni contendenti un conferimento di ordine di acquisto e che tale accertamento, come si è avvertito, non è stato efficacemente censurato nella presente sede.

L’inesistenza di un obbligo della banca quanto all’ulteriore svolgimento dell’attività di consulenza (nel periodo, cioè successivo all’acquisto del titolo) si ricava dalla disciplina circa l’estensione degli obblighi informativi, in capo all’intermediario stesso, nel caso di servizi di esecuzione, di ricezione e trasmissione di ordini. Infatti, l’art. 53 reg. Consob n. 16190/2007 prevede che, nei servizi diversi dalla gestione di portafogli, gli intermediari forniscano prontamente al cliente, su supporto duraturo “le informazioni essenziali riguardanti l’esecuzione dell’ordine” e, su richiesta del cliente, “informazioni circa lo stato del suo ordine”. E’ questa, una disciplina che ricalca quella contemplata dall’art. 61 reg. Consob n. 11522/1998 (su cui, specificamente, Cass. 30 gennaio 2013, n. 2185, non massimata, la quale infatti esclude, in tal caso, l’obbligo di dare informazioni successive alla concreta erogazione del servizio). Del tutto diversa è la rendicontazione prevista per il servizio di gestione di portafogli, giacchè in quest’ultima ipotesi il cliente ha diritto a ricevere informazioni dettagliate e periodiche sul contenuto e la valutazione del portafoglio, con riferimento a ciascuno strumento finanziario detenuto (art. 54 reg. Consob n. 16190/2007). D’altro canto, è proprio in ragione della specificità di quest’ultima tipologia di servizio che l’art. 29 reg. Consob n. 16190/2007 prevede, al comma 3, che gli intermediari forniscano al cliente, o potenziale cliente, al dettaglio, del servizio di gestione di portafogli, le informazioni sul metodo e la frequenza di valutazione degli strumenti finanziari contenuti nel portafogli stesso e la descrizione del parametro di riferimento al quale verrà raffrontato il rendimento del portafogli.

Vero è, poi, che, come precisato da questa Corte, nel caso di servizi di deposito di titoli a custodia e amministrazione accessori ad un contratto di negoziazione dei medesimi strumenti finanziari, una volta avvenuta la negoziazione, persiste in capo all’intermediario l’obbligo di “acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che questi siano sempre adeguatamente informati”: informazioni il cui oggetto non concerne genericamente l’andamento dei titoli, ma dipendono unicamente da specifiche circostanze quali, ad esempio, la conoscenza, da parte della banca, di notizie particolari e non riservate, o l’esito di analisi economiche, condotte dalla stessa banca, che l’obbligo di correttezza suggerisca di divulgare tra i clienti (Cass. 27 ottobre 2015, n. 21890, su fattispecie peraltro disciplinata dal regolamento Consob n. 11522/1998).

Occorre, tuttavia, attribuire rilevanza ad alcuni elementi. Anzitutto la Corte di merito non basa la propria decisione sul dato della prestazione del servizio di deposito e di custodia dei titoli, ma all’opposto riconosce che tra le parti intercorse un semplice ordine di acquisto (pag. 15): tale proposizione, come sopra avvertito, non è qui sindacabile. In secondo luogo, anche ad ammettere la conclusione di un contratto finalizzato all’esecuzione di un tale servizio, le informazioni relative all’andamento del titolo non andavano fornite (proprio in quanto non si è in presenza di un contratto di gestione di portafogli). Da ultimo, non è precisato, in ricorso, quali fossero le informazioni in possesso della banca – diverse rispetto a quelle afferenti l’andamento del titolo (OMISSIS) che la controricorrente abbia mancato di fornire: sicchè, anche ad opinare la conclusione del contratto di cui si è detto, non risulta sia stato indicato l’oggetto di quell’attività informativa su cui avrebbe potuto innestarsi il servizio di consulenza dell’intermediario.

Con il sesto motivo è denunciata omessa e insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio. La Corte di appello aveva omesso di verificare se Unicredit avesse cessato l’attività di consulenza dal momento in cui aveva dato esecuzione all’ordine di acquisto delle obbligazioni, ordine che la stessa banca aveva dichiarato inadeguato. In particolare se, come affermato nella sentenza, con la comunicazione dell’inadeguatezza dell’operazione l’attività di consulenza della banca era cessata, l’intermediario non poteva eseguire l’ordine, in considerazione dell’assenza di provvista utile per l’acquisto dell’obbligazione. Cessata l’attività di consulenza, infatti, la banca poteva prestare al cliente solo il servizio di ricezione, trasmissione ed esecuzione degli ordini a norma dell’art. 32, comma 4 del contratto quadro. Nella fattispecie, però, come osservato, il servizio non era erogabile per la mancata disponibilità di valuta da parte del cliente.

La censura è priva di idonea consistenza.

Non competeva certo alla banca verificare se l’investitore avesse disponibilità liquide giacenti sul conto sufficienti all’acquisto dei titoli. La stessa si limitò a dare esecuzione all’ordine che le era stato impartito ponendo in essere un’operazione che – si ripete – aveva espressamente sconsigliato.

Il settimo mezzo è rubricato come omessa, insufficiente e carente di motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio. Si duole il ricorrente, partendo dal presupposto che la banca aveva svolto un’attività di consulenza, che la Corte di merito avesse immotivatamente ritenuto che Unicredit vi avesse ottemperato rispettando tutti gli obblighi che ad essa facevano capo.

Con l’ottavo motivo è lamentata violazione e falsa applicazione di una norma di diritto e si censura la sentenza impugnata per non avere correttamente applicato alla fattispecie l’art. 40 reg. Consob n. 16190/2007, recepito nell’art. 32, comma 1 del contratto quadro. Secondo il ricorrente la Corte di merito aveva erroneamente sussunto la fattispecie in disposizioni inappropriate (Delib. Consob n. 11522 del 1998, art. 28, comma 2 e art. 29, comma 3). In conseguenza, essa aveva erroneamente ritenuto che le informazioni rese dal dipendente di Unicredit fossero sufficienti a fornire tutti i chiarimenti necessari al fine di far comprendere al ricorrente i rischi dell’operazione finanziaria.

I due motivi, che possono esaminarsi congiuntamente, non hanno fondamento.

La prima censura investe la motivazione della pronuncia.

Nella fattispecie, la Corte ha osservato come l’istituto di credito, dopo aver informato il cliente del carattere inadeguato e inappropriato dell’investimento, non poteva più ostacolare l’operazione finanziaria, per cui dovette procedere all’inoltro dell’ordine. Tale motivazione, sicuramente congrua sul piano logico, si sottrae a censura; nè valgono a inficiarla le deduzioni svolte dal ricorrente nel corpo del settimo motivo. Come è noto, infatti, al fine di adempiere all’obbligo della motivazione, il giudice del merito non è tenuto a valutare singolarmente tutte le risultanze processuali ed a confutare tutte le argomentazioni prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo aver vagliato le une e le altre nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento, dovendosi ritenere disattesi, per implicito, tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (per tutte: Cass. 17 maggio 2013, n. 12123; Cass. 15 aprile 2011, n. 8767).

La proposizione del giudice distrettuale è pure corretta sul piano giuridico.

Il reg. Consob n. 11522/1998 prevedeva, per l’intermediario, un obbligo di acquisizione di informazioni che non era graduato in ragione dell’operazione posta in essere. Il regolamento n. 11690 del 2007 distingue, invece, l’obbligo informativo a seconda del servizio prestato: per la prestazione dei servizi di consulenza e di gestione individuale di portafogli si richiede che l’intermediario acquisisca precise indicazioni dal cliente quanto alla conoscenza ed esperienza nel settore di investimento rilevante per il tipo di strumento o di servizio, alla situazione finanziaria e agli obiettivi di investimento (art. 39): sulla base di tale quadro informativo l’intermediario stesso è poi tenuto a formulare il giudizio di adeguatezza dell’operazione, apprezzandone la congruenza rispetto al profilo del cliente (art. 40). Nella prestazione degli altri servizi – salvi i servizi di esecuzione di ordini per conto dei clienti o di ricezione e trasmissione di ordini in ipotesi particolari (art. 43): ipotesi che non emerge ricorrano nel caso in esame – l’intermediario è tenuto a formulare un più sommario giudizio di appropriatezza, che è basato sul livello di esperienza e conoscenza necessario per comprendere i rischi che lo strumento o il servizio di investimento offerto o richiesto comporta (art. 42, comma 1). Lo stesso regolamento prevede, poi, all’art. 42, comma 4 che qualora l’intermediario ritenga che lo strumento o il servizio non sia appropriato per il cliente, o potenziale cliente, egli lo avverta di tale situazione. Non è invece contemplato che l’intermediario debba astenersi dall’effettuazione dell’operazione, una volta che abbia segnalato al cliente che essa è inappropriata.

Nel caso in esame – come si è visto – la banca ha rappresentato al ricorrente che l’operazione non era appropriata. La circostanza emerge chiaramente dal modulo d’ordine: e deve evidenziarsi, in proposito, che la sottoscrizione, da parte del cliente, della clausola in calce al modulo d’ordine, contenente la segnalazione d’inadeguatezza dell’operazione sulla quale egli è stato avvisato, è idonea a far presumere assolto l’obbligo di avvertimento previsto in capo all’intermediario (Cass. 6 giugno 2016, n. 11578), con riferimento all’art. 28 reg. Consob n. 11522/1998: il principio, vale, evidentemente, anche in caso di segnalazione del carattere non appropriato dell’investimento).

Consegue da ciò che il ricorrente non possa dolersi della condotta posta in atto dall’intermediario.

Il nono mezzo censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione. Rileva l’istante che la Corte trentina aveva ritenuto che il giudizio di non adeguatezza del titolo traesse origine da analisi economiche operate dalla banca in via autonoma, slegate dal rating: ciò in contrasto con la tesi difensiva di controparte secondo cui la banca, nel valutare il titolo, si era affidata esclusivamente a tale criterio di valutazione. D’altra parte – aggiunge – se realmente la banca aveva compiuto analisi economiche sul titolo, analisi che, in controtendenza rispetto al rating, dimostravano inaffidabilità del prodotto finanziario, essa avrebbe dovuto informare l’istante, in modo chiaro non fuorviante, che l’investimento era a rischio.

La censura è inammissibile.

La Corte distrettuale, dopo avere affermato che l’attività di consulenza era cessata con la formulazione, da parte della banca, del parere negativo circa il compimento dell’operazione di acquisto, ha osservato che, anche a voler ritenere posta in atto una vera e propria consulenza, l’istituto di credito aveva assolto a tutti gli obblighi di informativa che incombevano sull’intermediario e, anzi, fu in grado di eseguire verifiche autonome, al punto da sconsigliere il cliente, nonostante le obbligazioni (OMISSIS) fossero, all’epoca, pienamente affidabili, avendo un rating positivo.

La Corte di appello, dunque, ha escluso la responsabilità della banca attribuendo rilievo dirimente al fatto che questa sconsigliò l’operazione (definita inadeguata e inappropriata nel modulo d’ordine) e ha poi esaminato, ad abundantiam, il grado di diligenza prestata dall’intermediario nello svolgimento dell’attività di consulenza. Ebbene, in sede di legittimità non si possono proporre censure avverso argomentazioni contenute nella motivazione della sentenza impugnata e svolte ad abundantiam o costituenti obiter dicta, poichè esse, in quanto prive di effetti giuridici, non determinano alcuna influenza sul dispositivo della decisione (ad es.: Cass. 22 ottobre 2014, n. 22110).

D’altro canto, giova aggiungere, i rilievi svolti dal ricorrente non sono comunque conducenti; infatti, ciò che rileva è che C. sia stato dissuaso dall’acquistare le obbligazioni (OMISSIS): circostanza, questa, che – a prescindere da ogni vana esplorazione circa il contenuto delle informazioni acquisite dalla banca con riguardo al titolo – esclude che il ricorrente possa riversare sull’istituto di credito le conseguenze pregiudizievoli della scelta, di segno opposto, che egli intese assumere in piena autonomia.

Il ricorso va dunque respinto.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

PQM

LA CORTE

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 5.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali e oneri aggiuntivi.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 7 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2017

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