Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4589 del 28/02/2018


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Cassazione civile, sez. trib., 28/02/2018, (ud. 09/01/2018, dep.28/02/2018),  n. 4589

Fatto

L’Ufficio delle Entrate di Bolzano, in data 20 maggio 2007, notificava a G.J., quale socio accomandante conferente e alla società conferitaria G. s.a.s. di A.G. & Co. (società da lui formata insieme ad altri due soci: G.A. socio accomandatario e S.F. altra socia accomandante) un avviso di rettifica e liquidazione relativo all’imposta di registro in merito al conferimento da parte del G. di un immobile alla suddetta società. In tale avviso l’Ufficio disconosceva che il valore di un mutuo di 600mila Euro garantito da ipoteca sull’immobile, acceso dal G. ma che la predetta società si era accollato due mesi dopo, potesse essere sottratto a fini fiscali dal valore del conferimento, come invece aveva chiesto il contribuente. In effetti il G., in prossimità della costituzione della società con conferimento del bene immobile, aveva stipulato un contratto di finanziamento con costituzione di garanzia ipotecaria facendo gravare su quello stesso immobile, del valore effettivo di 601mila Euro, un’ipoteca di 600mila Euro, dimodochè il valore netto del conferimento risultava essere di mille Euro. In questa maniera però, secondo l’Ufficio delle Entrate, il contribuente si prefiggeva di ottenere il risultato economico di vendere l’immobile alla società e non di conferirlo, allo scopo di pagare un’imposta di registro come se si fosse effettuato di un conferimento di 1000 Euro anzichè una compravendita di 601mila Euro. Tale complessiva operazione, sempre secondo l’Ufficio delle Entrate, configurava una violazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, in quanto una pluralità di negozi diretti a produrre un unico effetto giuridico finale vanno considerati, ai fini dell’imposta di registro, come un fenomeno unitario.

Avverso il suddetto atto impositivo, proponevano ricorso sia G.J. che la società, sostenendo che, ai fini dell’imposta di registro, il valore dell’ipoteca andava detratto da quello del bene conferito.

La Commissione Tributaria di Bolzano di primo grado, con sentenza 142/02/07, accoglieva il ricorso, annullando l’avviso di rettifica e liquidazione, affermando che, proprio alla luce del citato D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, dall’Ufficio delle entrate, l’interpretazione degli atti ai fini dell’imposta di registro deve essere testuale e senza riferimento ad altre vicende estranee all’atto e applicando dunque del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 50, che sancisce la tassabilità dei beni immobili al netto delle passività (nel caso di specie l’ipoteca per 600mila Euro). Non si potrebbe parlare dunque di elusione fiscale ma di lecito risparmio di imposta da parte dei contribuenti, vale a dire dell’uso legittimo dello strumento giuridico messo a loro disposizione dal legislatore che risulti meno oneroso.

Contro la decisione del giudice di primo grado proponeva appello l’Agenzia delle entrate, sostenendo l’erroneità della decisione che aveva interpretato l’atto unicamente in base al suo contenuto, senza avere riguardo ad altri negozi e ritenendo che, in base alla circolare n. 131 del 30 luglio 1994, espressione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, nel caso in cui in prossimità del trasferimento gli immobili vengano gravati da una passività accollata allo scopo di ridurre il valore di conferimento e la relativa tassazione, si sia in presenza di una vendita.

La Commissione Tributaria di secondo grado di Bolzano, con sentenza n. 52/2/10, respingeva il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, richiamando e confermando per intero la sentenza di primo grado e sottolineando l’assenza di una generale norma antielusiva nel campo delle imposte indirette: nel caso di specie vi sarebbe stato soltanto un contratto di finanziamento con costituzione di garanzia ipotecaria seguito a poco distanza da un atto di costituzione di una s.a.s. nella quale veniva conferito il bene immobile poco prima gravato da ipoteca e perciò al valore netto risultante dalla deduzione della passività, senza che vi sia stata una successiva cessione di quote.

L’Agenzia delle entrate proponeva ricorso, ritualmente notificato, affidato ad un unico complesso motivo; il contribuente non si costituiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. L’Agenzia delle Entrate, senza articolare con precisione le doglianze in singoli distinti motivi, premette che l’art. 20 cit. è la prima norma antielusiva dell’ordinamento tributario, che collega agli effetti voluti dalle parti il calcolo del valore dell’imposta, anche se non vi corrisponde il titolo o la forma apparente, con la conseguenza che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in errore laddove negherebbe che il Fisco possa, da altri atti o circostanze, evincere che gli effetti dell’atto tassato siano diversi da quelli apparenti.

Sulla base di questa affermazione, l’Agenzia delle Entrate sostiene, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (omessa pronuncia) e n. 5 (insufficiente motivazione), che il negozio realmente voluto non sia un conferimento alla società ma il trasferimento della proprietà di un immobile a titolo oneroso.

2. Deve premettersi che, secondo quanto già affermato da questa Corte, l’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla riqualificazione della sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nè determina l’inammissibilità del ricorso, se dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato (Cass. 7 novembre 2017, n. 26310): nel caso di specie il ricorrente avrebbe dovuto più correttamente invocare, oltre all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo applicabile “ratione temporis” prima della riforma del 2012) il vizio di violazione di legge di cui al n. 3 del citato art. 360 c.p.c., comma 1; tuttavia, dalla premessa relativa all’art. 20 e dalla globalità delle (sia pur scarne) argomentazioni, si evince la chiara intenzione dell’Ufficio delle entrate di denunciare anche una violazione – appunto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, da parte della sentenza impugnata.

3. I due motivi così individuati possono essere congiuntamente esaminati, in quanto tra loro strettamente connessi, e sono fondati.

Deve ancora premettersi che non trova applicazione al caso di specie il nuovo testo del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, come modificato dalla L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 87, lett. a), (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020) ed entrato in vigore il 1 gennaio 2018.

Tale norma, nel testo novellato, prevede che “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extra testuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”, mentre il vecchio testo stabilisce che “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”:

Non può condividersi la tesi della retroattività del nuovo testo dell’art. 20 cit. in quanto gli artt. 10 e 11 disp. gen., prevedono che una norma non ha effetto retroattivo, salvo contraria espressa disposizione (Corte Cost. 193 del 2017; nello stesso senso Corte cost. n. 257 del 2017; Cass. 6 ottobre 2017, n. 23424; Cass. 30 maggio 2017, 13597), assente nel caso di specie.

Il principio di tendenziale irretroattività della legge civile è stato affermato anche dalla Corte di Giustizia (Grande Sezione, 6 settembre 2011, C-108/10, p. 83) e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo; quest’ultima ha ricondotto tale principio all’art. 6 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Raffineries greques Stran et Stratis Andreadis c. Grecia, 9 dicembre 1994, p. 37-50; Papageorgiou c. Grecia, 22 ottobre 1997, p.37; Agrati c. Italia, 8 novembre 2012, p.11: quest’ultima sentenza sottolinea altresì che una norma retroattiva si giustifica solo se obbedisce a ragioni imperative di interesse generale).

La Corte costituzionale peraltro si è ripetutamente espressa nel senso che “va riconosciuto carattere interpretativo alle norme che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo” (sentenze n. 132 del 2016 e n. 424 del 1993) ed ha altresì affermato che “il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore” (ex plurimis: sentenze n. 232 del 2016, n. 314 del 2013, n. 15 del 2012, n. 271 del 2011).

Tuttavia, la Consulta ha anche più volte affermato che il divieto di retroattività della legge, pur non essendo stato elevato a dignità costituzionale (salvo la previsione dell’art. 25 Cost., per la materia penale), costituisce fondamentale valore di civiltà giuridica, per cui, allorquando “una norma di natura interpretativa persegua lo scopo di chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto o di ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore”, non è precluso al legislatore di emanare norme retroattive (sentenza n. 232 del 2016; n. 150 del 2015), che però, oltre a dover espressamente contenere come detto tale previsione di retroattività, deve altresì, al fine di superare indenni il vaglio di costituzionalità, trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza ed essere sostenuta da adeguati motivi di interesse generale (ex multis, sentenze n. 232 del 2016, n. 69 del 2014 e n. 264 del 2012).

Ora, nel caso di specie, anche a voler prescindere da un lato come detto dall’assenza di un’espressa menzione della retroattività del nuovo art. 20 nel corpo della legge e dall’altro da un’indagine circa la ragionevolezza della norma, non si riscontrano quegli “adeguati motivi di interesse generale” richiamati dalla Consulta o quelle “ragioni imperative di interesse generale” citate dalla Corte di Strasburgo elementi ritenuti necessari per sostenere la retroattività della norma, trattandosi anzi di disciplina che, prima facie, non appare certo assecondare gli interessi del Fisco e quindi della collettività in generale.

Deve altresì evidenziarsi che del nuovo testo dell’art. 20, non può predicarsi nè che sia portatore di “un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore” nè che persegua lo scopo di superare un “dibattito giurisprudenziale irrisolto”, così come richiesto dalla Consulta perchè ad una norma possa assegnarsi natura interpretativa.

Quanto infatti alla “interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore” la norma introduce dei limiti all’attività di riqualificazione giuridica della fattispecie che prima non erano previsti, fermo restando che l’amministrazione finanziaria può dimostrare la sussistenza dell’abuso del diritto previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 10 bis (introdotto dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128), il quale, alla lettera a), attribuisce espressamente rilevanza al collegamento negoziale, ma nel solo ambito, appunto, dell’abuso del diritto e non più in quello della mera riqualificazione giuridica, per cui non può certo dirsi che la nuova versione dell’art. 20, porti un’interpretazione del vecchio testo che fosse in qualche modo desumibile da quest’ultimo.

Quanto poi ad un ipotetico “dibattito giurisprudenziale irrisolto” mette conto considerare che l’orientamento giurisprudenziale prevalente ha escluso la natura antielusiva dell’art. 20 a beneficio di quella della qualificazione giuridica della fattispecie (Cass. 21676 del 2017; n. 6758 del 2017; n. 1955 del 2015; n. 24594 del 2015; n. 24594 del 2015; n. 1955 del 2015; contra n. 2054 del 2017; n. 6835 del 2013; n. 24452 del 2007; n. 2713 del 2002), per il che non si può affermare che la modifica introdotta al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, dalla L. 27 dicembre 2017, n. 205, abbia natura interpretativa alla luce della L. n. 212 del 2000, art. 10 bis, poichè tale ultima norma disciplina il diverso ambito dell’abuso del diritto. Soprattutto, l’applicazione dell’art. 20 previgente – in termini di rilevanza qualificatoria anche dei dati extratestuali e di collegamento negoziale riconducibili all’atto presentato alla registrazione – si fondava su un orientamento giurisprudenziale di legittimità che, per quanto effettivamente avversato da parte della dottrina e da talune pronunce di merito, poteva purtuttavia definirsi, sul punto specifico, sostanzialmente consolidato.

Non varrebbe obiettare che la relazione illustrativa alla L. n. 205 del 2017, assegna alla disposizione concernente l’imposta di registro il compito di “chiarire” il criterio di individuazione della natura e degli effetti che devono essere presi in considerazione ai fini della registrazione. Tale elemento può, infatti, agevolmente superarsi sulla base del tenore testuale infine adottato dallo stesso art. 1, comma 87, in esame, il quale dichiara espressamente di apportare talune “modificazioni” al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, palesandosi così quale disposizione prettamente innovativa del precedente assetto normativo. E ciò trova conferma, in accordo con il dato letterale del nuovo disposto, anche in ragione del fatto che tale modificazione ha determinato una rivisitazione strutturale profonda ed antitetica della fattispecie impositiva pregressa; là dove invece l’art. 20 previgente (secondo l’indirizzo di legittimità) imponeva la tassazione sulla base di elementi (il dato extratestuale ed il collegamento negoziale) che vengono invece oggi espressamente esclusi; fatto salvo il loro “recupero”, come detto, nel diverso ambito della sopravvenuta disciplina dell’abuso del diritto di cui alla cit. L. n. 212 del 2000, art. 10 bis.

In definitiva, va dunque affermato che la L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 87, lett. a), non avendo natura interpretativa, ma innovativa, non esplica effetto retroattivo; conseguentemente, gli atti antecedenti alla data di sua entrata in vigore (1 gennaio 2018) continuano ad essere assoggettati ad imposta di registro secondo la disciplina risultante dalla previgente formulazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20.

4. Secondo il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, vecchio testo (applicabile ratione temporis), la cui rubrica si intitola “Interpretazione degli atti”, “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.

Ebbene, secondo questa Corte (Cass. 15 marzo 2017, n. 6758; 8 giugno 2016, n. 11692), del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, nel dettare non una regola antielusiva ma una regola interpretativa, impone una qualificazione oggettiva degli atti secondo la causa concreta dell’operazione negoziale complessiva, a prescindere dall’eventuale disegno o intento elusivo delle parti e dei singoli motivi soggettivi. Tale norma dunque si riferisce agli atti nella loro oggettività ermeneutica, prescindendo da qualunque riferimento all’eventuale disegno o intento elusivo delle parti o di alcune di esse e pertanto non è possibile qualificare la disposizione della legge di registro come disposizione antielusiva senza forzarne la struttura normativa, introducendovi un elemento estraneo – appunto, l’elusività fiscale – che viceversa corrisponde solo a un’eventualità della fattispecie. L’interprete dunque è chiamato a valutare quale fosse il risultato concreto perseguito dalle parti e individuare quale sia l’imposta di registro prevista per quel risultato, a prescindere da un’indagine circa le eventuali intenzioni delle parti di eludere la normativa fiscale. In questa prospettiva dunque, non rileva neppure la buona o mala fede dei contraenti, in quanto, qualora per ipotesi le parti avessero raggiunto un risultato elusivo delle norme fiscali pur senza averlo voluto, dovrebbero comunque pagare l’imposta relativo a quel risultato concretamente ottenuto.

Come norma interpretativa, il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, è dunque una norma di “qualificazione” degli atti, che non si sovrappone all’autonomia privata dei contribuenti, ma si limita a definirne l’esercizio insieme agli altri canoni legali di ermeneutica negoziale, fra i quali naturalmente non può trascurarsi la comune intenzione delle parti prevista dall’art. 1362 c.c.. Quest’ultimo elemento però rileva come elemento di qualificazione della complessa operazione economica solo dal punto di vista civilistico, mentre le conseguenze fiscali di quella qualificazione discendono direttamente dalla legge, prescindendo dunque, lo si ribadisce, dalle intenzioni delle parti, quand’anche fossero tutte d’accordo per ottenere un certo risultato dal punto di vista fiscale.

La qualificazione interpretativa prescritta dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, ha ad oggetto la causa dell’atto, nella sua dimensione reale, concreta e oggettiva: quando gli atti sono plurimi e funzionalmente collegati, quando cioè la causa tipica di ciascuno è in funzione di un programma negoziale che la trascende, non può rilevare che la causa concreta dell’operazione complessiva, ossia la sintesi degli interessi oggettivati nell’operazione economica (Cass. 12 luglio 2005, n. 14611; 23 novembre 2001, n. 14900) e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche se mediante una pluralità di pattuizioni tra loro collegate e anche se non contestuali (Cass. 4 febbraio 2015, n. 1955).

In effetti i criteri indicati dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, non si discostano da quelli generali in tema di interpretazione dei contratti che impongono una interpretazione oggettiva dell’atto alla luce della comune intenzione delle parti, come prescritto dall’art. 1362 c.c.. E’ l’operazione economica complessivamente posta in essere che deve, “parlando da sola”, rivelare l’oggettiva, concreta e comune intenzione delle parti. In tal modo l’interpretazione aderente ai canoni legali ermeneutici restituisce dunque l’operazione negoziale nella sua realtà, scongiurando il rischio di un’alterazione della volontà privata (Cass. 15 marzo 2017, n. 6758, cit.).

L’imposta di registro va dunque correlata alla causa concreta dell’operazione, in ossequio al principio costituzionale di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.. Un’interpretazione atomistica dell’operazione negoziale non è in grado di misurare il reale movimento di ricchezza, che si rivela invece soltanto nella dimensione complessiva dell’affare. In questa prospettiva, il giudice può e deve verificare la qualificazione negoziale operata dall’ufficio finanziario circa l’osservanza dei criteri legali di interpretazione, i quali vanno riferiti alle circostanze concrete della sequenza di atti.

5. Ora, se è vero che l’accertamento della natura, dell’entità, delle modalità e delle conseguenze del collegamento negoziale realizzato dalle parti rientra nei compiti esclusivi del giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici (ex multis, Cass. 22 settembre 2016, n. 18585; Cass. 28 marzo 2006, n. 7074; Cass. 12 luglio 2005, n. 14611), nel caso in esame tale sindacato si impone in quanto il Giudice di appello non solo ha trascurato l’efficacia interpretativa e probatoria di tutti gli elementi fattuali dedotti dall’Agenzia delle Entrate a fondamento della causa unitaria di compravendita, così come perseguita dai negozi dedotti in giudizio, ma ha palesemente disatteso i principi di diritto in precedenza ricordati, per cui la sentenza merita conseguentemente di essere cassata.

6. Pertanto, alla luce di suddetti principi, dovendosi tenere conto anche di circostanze extratestuali rispetto al singolo atto, non ostando che l’imposta di registro sia formalmente un’imposta d’atto, e interpretando la complessiva normativa fiscale alla luce di una lettura costituzionalmente orientata al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., nonchè dei principi comunitari in materia fiscale (Corte di Giustizia, sentenza 21 febbraio 2006 C-255/02, Halifax; 10 novembre 2011 C126/10, Foggia, sentenze secondo le quali le operazioni realizzate al solo scopo di ottenere un risparmio fiscale senza un autonomo obiettivo economico, ancorchè eseguite in forma apparentemente corretta quale una cessione di beni o una prestazione di servizi nell’esercizio di un’attività economica – rivestono connotati sostanzialmente elusivi) e quindi tenendo conto che l’imposta deve essere commisurata alla complessiva operazione economica realizzata dal contribuente, il giudice di merito dovrà valutare se elementi fattuali quali ad esempio il conferimento di un immobile appena ipotecato ad una società, la quasi coincidenza del valore dell’immobile e dell’importo del mutuo, la pressochè contestuale stipulazione di un mutuo da parte del socio conferente e l’accollo di tale mutuo da parte della società conferitaria possano o meno portare a qualificare la complessiva operazione economica come una compravendita, (Cass. 19 marzo 2014, n. 6405), tenendo altresì conto che una società commerciale è istituzionalmente deputata a perseguire un fine di lucro. Inoltre, anche a voler negare la distinzione delle soggettività giuridiche tra socio unico e società per sostenere che nella sostanza nessun trasferimento di ricchezza si sarebbe verificato in quanto l’immobile e il mutuo sia prima che dopo la complessiva operazione continuerebbero a far parte del medesimo centro di imputazione di interessi economici e giuridici, nel caso di specie tale tesi non potrà trovare accesso semplicemente in virtù della preliminare osservazione che il socio conferente non è socio unico ma accomandante di una società composta da altri soci, e dunque la sua sfera patrimoniale e giuridica è pacificamente ben distinta da quella della società.

Dovrà dunque valutarsi se tale complessa operazione economica, avrebbe dovuto essere giuridicamente qualificata – così come fatto dall’Ufficio delle entrate di Bolzano nel suo provvedimento iniziale come una compravendita di un immobile, con i conseguenti doveri fiscali in capo ai contribuenti discendenti per legge.

7. E’ pertanto irragionevole e palesemente in contrasto con il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 – per non aver adeguatamente vagliato soluzioni alternative quali la possibilità di qualificare in maniera unitaria la complessiva operazione economica posta in essere – la motivazione della sentenza di appello secondo la quale nel caso di specie vi sarebbe stato soltanto un contratto di finanziamento con costituzione di garanzia ipotecaria seguito a poco distanza da un atto di costituzione di una s.a.s. nella quale veniva conferito il bene immobile poco prima gravato da ipoteca e perciò al valore netto risultante dalla deduzione della passività.

8. Parimenti irragionevole è la motivazione della sentenza di appello nella parte in cui in maniera apodittica attribuisce rilevanza all’assenza di una successiva cessione delle quote societarie (nè alla conferitaria, nè a terzi). Tale circostanza avrebbe avuto rilievo se l’Agenzia delle Entrate avesse contestato al contribuente la circostanza di aver dissimulato una cessione di azienda, ma nel caso di specie si contesta la dissimulazione di una compravendita del bene (si veda Cass. 26 settembre 2016 n. 18897, ove pure si cassa la sentenza impugnata in quanto poggiava sul presupposto che l’operazione complessiva non poteva essere riqualificata come vendita, non essendo intervenuto alcun atto di cessione delle quote sociali).

9. I motivi di doglianza dell’Agenzia delle Entrate vanno dunque accolti e deve conseguentemente affermarsi il seguente principio di diritto: “In tema di imposta di registro, nell’ipotesi di collegamento negoziale fra mutuo ipotecario e conferimento alla società dell’immobile su cui grava l’ipoteca (e senza una successiva cessione delle quote societarie), tale per cui la complessiva operazione economica risulti oggettivamente qualificabile come una compravendita, il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, va interpretato, alla luce dei principi di ragionevolezza e di capacità contributiva, nel senso che tale imposta debba essere commisurata alla complessiva operazione economica oggettivamente realizzata dal punto di vista civilistico dal contribuente (ossia appunto una compravendita), non ostandovi che l’imposta di registro sia formalmente un’imposta d’atto”.

A tale principio non si è attenuta la sentenza impugnata, la quale invece ha richiamato testualmente la sentenza di primo grado secondo la quale l’art. 20 cit., va interpretato nel senso che ai fini dell’imposta di registro gli effetti giuridici devono essere individuati unicamente attraverso l’interpretazione dei patti negoziali contenuti nell’atto sottoposto a registrazione e non desunti da eventuali altri negozi giuridici precedenti e successivi.

10. La sentenza impugnata va dunque cassata, e dovendosi procedere al discernimento di una tipica quaestio facti, si impone il rinvio alla Commissione Tributaria Regionale competente, in diversa composizione, la quale rivaluterà la fattispecie, alla luce dei principi di diritto sopra riportati e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria di secondo grado di Bolzano, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, il 9 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2018

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