Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4589 del 21/02/2020

Cassazione civile sez. III, 21/02/2020, (ud. 17/10/2019, dep. 21/02/2020), n.4589

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3083-2018 proposto da:

R.M., R.G., C.F., tutte nella

qualità di eredi di F.A. elettivamente domiciliate in ROMA,

VIA EMILIO DE’ CAVALIERI 11, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO

LENER, che le rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

G.M., G.A.R., FI.CH., quali eredi di

F.M., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA GIUNIO BAZZONI

15, presso lo studio dell’avvocato MATTEO BRIASCO, che le

rappresenta e difende;

– controricorrenti –

e contro

FI.SA.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1469/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 03/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/10/2019 dal Consigliere Dott. CRICENTI GIUSEPPE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

M. ed F.A., sorelle germane, hanno proceduto alla divisione di un terreno, sul quale F.A. aveva realizzato un fabbricato, toccato in sorte, nella divisione, proprio a quest’ultima.

Prevedendo che dall’atto, anche in ragione della presenza dell’immobile, potessero derivare oneri fiscali, F.A. si è obbligata nei confronti della sorella M. a tenere quest’ultima indenne di ogni pretesa fiscale che riguardasse, per l’appunto, la tassazione di quel cespite, attribuito alla stessa A. a seguito della predetta divisione.

Posto che tale accordo non aveva efficacia esterna, nei confronti del Fisco, quest’ultimo ha notificato l’imposizione fiscale (Invim, ed altro) a F.M., che di conseguenza ha citato in giudizio la sorella affinchè, come pattuito, la tenesse indenne dalla obbligazione tributaria.

La convenuta ha contestato di essersi mai obbligata a sostenere in proprio il debito fiscale, ma il giudice di primo grado, espletata una prova testimoniale, ha ritenuto provato l’accordo di “manleva”, ed ha condannato dunque la convenuta al pagamento delle somme che l’attrice (la sorella A.) aveva promesso di versare lei in caso di pretesa fiscale relativa a quella divisione.

Il giudice di appello ha confermato questa ricostruzione ed ha rigettato l’appello. Ricorrono gli eredi di F.A. con dieci motivi. V’è costituzione degli eredi di F.M. con controricorso. V’è memoria dei ricorrenti.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Va segnalato che il ricorso proviene dalle Sezioni Unite, meglio, dall’ufficio preparatorio del procedimento, dove era pervenuto sul presupposto che vi fosse da risolvere una questione di giurisdizione, di cui meglio si dirà in motivazione. Quell’ufficio ha ritenuto tardiva la questione di giurisdizione in quanto posta per la prima volta con la comparsa conclusionale in appello, e dunque correttamente rilevata come tale dalla corte di secondo grado, rimettendo dunque la questione alla sezione semplice, ossia a questo collegio.

1.1- La ratio della decisione impugnata.

I giudici di appello hanno ritenuto fondata la ricostruzione effettuata dal giudice di primo grado, ossia hanno ritenuto che correttamente quest’ultimo, alla luce delle prove addotte in giudizio, ha accertato l’esistenza di un patto con il quale F.A. si era obbligata a manlevare la sorella da eventuali pretese del Fisco, relativamente al loro accordo di divisione.

2.- Questa ratio è aggredita con dieci motivi di ricorso, che però possono, esaminarsi, in parte, congiuntamente.

Infatti, con i primi due motivi, si denuncia omessa pronuncia oppure erronea interpretazione di legge quanto alla sollevata questione di giurisdizione. Con il terzo e quarto, omessa pronuncia e violazione di legge quanto al giudicato sulla pretesa tributaria.

Con il primo motivo di ricorso, le ricorrenti lamentano omessa pronuncia sulla questione di giurisdizione, con il secondo, in subordine al primo, erronea dichiarazione della tardività della questione di giurisdizione, che sarebbe stata ritenuta tale, cioè, senza tenere conto del fatto che si tratta di questione rilevabile d’ufficio; con il terzo motivo si denuncia omessa pronuncia circa la sollevata eccezione di un giudicato esterno, che riguardava il rigetto del ricorso tributario e dunque la definitività della pretesa fatta valere dal Fisco verso l’attrice, oggi controricorrente (rectius, i suoi eredi), con il quarto motivo, in subordine al terzo, la violazione del giudicato esterno, ossia l’errore dovuto a ritenere che quest’ultimo non sia rilevabile d’ufficio.

Sono motivi che possono esaminarsi congiuntamente, e sono infondati.

Occorre una premessa.

Emerge chiaramente dalle prospettazioni delle parti, inclusa quella ricorrente, che l’accordo di cui si discute aveva la natura di un accollo interno, valido tra gli stipulanti, e solo tra essi, e non ovviamente verso il Fisco, un accordo con il quale F.A. si è obbligata a tenere indenne, dunque ad accollarsi, l’onere economico derivante dalle imposte che l’atto di divisione avrebbe implicato. Non si è trattato, ed appare evidente, di un accordo sui presupposti impositivi, ossia tale da disporre, secondo interessi privati, della pretesa fiscale e del relativo potere impositivo; non è che F.A. ha assunto su di sè, negozialmente, la qualità di soggetto passivo dell’imposta, o che con tale accordo le parti abbiano voluto incidere sulla fattispecie tributaria di riferimento.

Piuttosto si è trattato di un accollo meramente economico del peso fiscale, nell’ambito del più ampio accordo di divisione.

Ed è conseguentemente evidente che la giurisdizione a conoscere di tale accordo non appartiene al giudice tributario, poichè non è in discussione il rapporto tra Fisco e contribuente, nè è in discussione il potere impositivo del Fisco o il suo esercizio concreto, e neanche i presupposti soggettivi di tale fattispecie (ossia l’individuazione del soggetto passivo d’imposta).

Sono in discussione il perfezionamento e la validità di un accordo, di natura negoziale, e di rilevanza privatistica, valido solo tra le parti e non idoneo ad incidere sulla fattispecie tributaria.

Con il secondo motivo, in subordine al primo, le ricorrenti ritengono infondata la tesi della tardività della eccezione di giurisdizione, che è proponibile senza preclusioni, e rilevabile d’ufficio.

Anche questo motivo è infondato.

Non è infatti vero che la questione di giurisdizione è rilevabile in qualsiasi stato e grado, senza limitazione alcuna.

E’ regola affermata, ormai a partire da Cass. sez. U. N. 24883/2008 che “Allorchè il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando, anche implicitamente, la propria giurisdizione, la parte che intende contestare tale riconoscimento è tenuta a proporre appello sul punto, eventualmente in via incidentale condizionata, trattandosi di parte vittoriosa; diversamente, l’esame della relativa questione è preclusa in sede di legittimità, essendosi formato il giudicato implicito sulla giurisdizione ” (da ultimo Cass. sez. Un. 2605/2018).

Si è detto che la questione di giurisdizione è stata posta per la prima volta con la comparsa conclusionale in appello, come rilevato dall’Ufficio preparatorio delle Sezioni Unite.

2.1.- Terzo e quarto motivo sono anche essi da esaminare congiuntamente, in quanto, come premesso, non colgono, al pari dei primi due, la ratio della decisione impugnata, che non attiene si ripete all’accertamento di un obbligo tributario e di un eventuale atto dispositivo di tale obbligo, valido o meno nei confronti del Fisco; ma attiene, semmai, all’accertamento di un accordo valido solo tra le parti, di rilevanza privatistica, e che non incide in alcun modo sulla pretesa tributaria in sè, ma ha ad oggetto soltanto l’accollo dell’onere economico di quella vicenda, nel riparto interno della solidarietà passiva, ben potendo il riparto della interna solidarietà avvenire tramite accollo.

Con la conseguenza che le questioni relative alla incidenza sulla controversia del giudicato tributario sono questioni assorbite implicitamente dalla circostanza della loro irrilevanza, senza tacere del fatto che non propriamente di giudicato esterno si può parlare, considerato che il giudizio tributario ha avuto oggetto diverso da quello del presente giudizio, in quanto relativo alla pretesa tributaria del fisco, che qui non è in discussione (è in discussione, si ripete, l’accollo di quella pretesa da parte di uno dei coobbligati). Ma v’è anche diversità di soggetti, posto che la sentenza della commissione tributaria ha avuto come parte il Fisco, che qui, invece, non compare.

Cosi che non trattandosi giudicato esterno, non può neanche valere la censura di violazione di legge per non averla rilevata d’ufficio, e comunque per non averla rilevata affatto. Gli stessi ricorrenti ammettono di aver posto la questione per la prima volta con la comparsa conclusionale (pagina 23 del ricorso), e dunque tardivamente, considerato non si trattava di un giudicato esterno, ma della eccezione di una decisione semmai incidente in qualche modo sulla definizione della controversia e dunque una eccezione in senso stretto.

2.2.- Il quinto motivo prospetta, sotto altro aspetto, questione analoga al precedente: non di giudicato esterno, bensì interno.

Secondo le ricorrenti la corte di appello avrebbe violato l’art. 2909 c.c. ritenendo erroneamente che sulla questione della esistenza dell’accordo si fosse formato il giudicato. Le ricorrenti ritengono che la corte di secondo grado ha preso atto che il giudice di prime cure ha ritenuto provato l’accordo tra le due sorelle, e rilevano che questo accertamento non è stato oggetto di impugnazione, sicchè che vi fosse un accordo è da ritenere giudicato, altre essendo invece le questioni sulla validità e sulla funzione di tale accordo, di cui si dirà successivamente.

A giudizio delle ricorrenti, la corte di merito avrebbe qui errato nel ritenere non impugnato l’accertamento fatto in primo grado circa il perfezionamento dell’accordo.

Secondo le ricorrenti invece il capo di sentenza sarebbe stato validamente impugnato, impedendo dunque la formazione di un giudicato interno.

Il motivo è infondato.

A dimostrazione del fatto di avere impugnato la statuizione, le ricorrenti riportano una semplice espressione, l’unica contenuta nell’atto di appello, in cui si sostiene che “non vi è alcuna prova che la esponente F.A. abbia formulato reiterate promesse di liberare la F.M. da ogni obbligazione di pagamento”. Tutto qui. Di certo si tratta di un contenuto insufficiente a costituire specifico e puntale motivo di appello (che peraltro deve contenere le ragioni contestate e quelle che si oppongono in contestazione), cosi che correttamente la corte di secondo grado ha ritenuto che non vi fosse un motivo di appello sulla questione del perfezionamento di un accordo,

3.- Il sesto, il settimo e l’ottavo motivo di ricorso vertono sulla nullità del patto di cui qui si discute.

Con il sesto motivo, le ricorrenti lamentano che non è stata considerata la espressa questione della nullità del patto tra le sorelle, posta con l’appello, e mai decisa dal giudice, che dunque è incorso in violazione dell’art. 112 c.p.c.

Con il settimo e l’ottavo motivo invece, ed in subordine rispetto al sesto, si fa valere violazione di legge nella valutazione della validità del patto (art. 1421 c.c., nel caso del settimo motivo, ed art. 1418 c.c. nel caso dell’ottavo). Secondo le ricorrenti il patto con cui le due sorelle hanno deciso che una delle due si accollasse la spesa fiscale è nullo per difetto di causa o per contrarietà a norme imperative, e tale nullità andava rilevata d’ufficio a prescindere dalla tardività o meno della relativa eccezione, o del relativo motivo di appello (settimo motivo di ricorso).

I motivi sono infondati.

Va premesso, quanto alla questione della omessa pronuncia sulla nullità (sesto motivo) che, come è noto, è regola che “alla luce dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111 Cost., comma 2, nonchè di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c. ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di gravame, la Suprema Corte può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con quel motivo risulti infondata, di modo che la statuizione da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello (determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito), sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto (Cass. 2313/ 2010; Cass. 16171/ 2017).

Dunque, nel merito, gli altri due motivi sono infondati.

Lo è intanto l’ottavo nella parte in cui postula una nullità per violazione di una norma imperativa.

E precisamente della norma fiscale che impedisce alle parti patti dispositivi del tributo (D.P.R. n. 643 del 1972, art. 27).

L’infondatezza di questo motivo deriva da quanto si è già detto circa la natura dell’accordo per cui è causa.

Le parti invero non hanno voluto disporre della pretesa tributaria, della fattispecie impositiva, ma hanno ripartito la solidarietà interna mediante accollo, da parte di una delle due, del solo onere economico del peso fiscale, patto ovviamente diverso da quello mirante a trasferire ad altri l’onere dell’imposta, disponendo dei presupposti della medesima in modo difforme dalla legge.

Tra l’altro, il motivo non tiene conto del fatto che la L. n. 212 del 2000, art. 8 prevede espressamente che l’obbligazione tributaria possa estinguersi mediante accollo, non liberatorio; segno, questo, della ammissibilità in astratto di un accordo del genere, piuttosto che di una sua contrarietà al sistema fiscale. Nè può ritenersi questo patto privo di causa, e dunque di conseguenza nullo. L’accollo è un negozio a causa variabile, nel senso che l’accollante può assumere l’obbligazione di adempiere per motivi diversi, che vanno dalla causa solvendi (l’accollante intende estinguere altro suo debito verso l’accollato), alla liberalità (l’accollo è fatto per beneficiarne l’accollato), allo scambio (l’obbligo è assunto in luogo del corrispettivo).

Inoltre, l’accollo interno, per sua natura, non incide sulla obbligazione originaria, tra accollato e creditore originario (e dunque nel caso presente tra soggetto passivo d’imposta e Fisco), e non realizza una successione nel lato passivo dell’obbligazione, a differenza che l’accollo esterno.

In sostanza, l’accollo interno realizza l’assunzione del debito in senso puramente economico.

Nella fattispecie, la causa concreta era quella di scambio, nel senso che l’accollante assumeva su di sè l’obbligazione di pagare l’imposta, nell’ambito di un accordo più ampio che comprendeva la divisione dei beni, cosi che l’accollo trova la sua ragione nella complessiva operazione di divisione tra le parti. Difetta, a ben vedere, l’intento di liberalità, se si vede l’accordo nell’ambito della complessiva operazione negoziale di divisione; e difetta, sempre in questa ottica, la stessa gratuità oggettiva, se si accede alla tesi che quest’ultima è la causa della donazione. Ed infatti, l’assunzione dell’obbligo di pagare l’imposta trova corrispettivo nella maggior quota attribuita all’accollante per via della esistenza, sulla sua parte, dell’edifico quest’ultima realizzato.

Peraltro, solo un accollo esterno (come quello previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 8 già citato) costituirebbe una donazione, perchè, avendo efficacia esterna, comporterebbe la liberazione del debitore; invece, un accollo interno comporta al più una donazione indiretta, soggetta alla forma propria dell’atto con cui è realizzata (Cass. 4618/1983; Cass. 6416/1988; Cass. 3499/1999; Cass. 4623/2001; Cass. 14197/2013), e non alla forma della donazione, ciò a smentita della tesi, contenuta pure nell’ottavo motivo, della nullità per difetto di forma.

4.- Nono e decimo motivo lamentano rispettivamente omesso esame di un fatto decisivo, o in subordine, violazione dell’art. 1380 c.c., nell’accertamento di tale fatto, il quale consisterebbe nella mancata comunicazione, per diverso tempo, da parte dell’accollata della richiesta di pagamento fatta dal Fisco, mancata comunicazione che avrebbe determinato interessi e sanzioni, che la accollante non avrebbe dovuto corrispondere, e che ha altresì inciso sullo stesso eventuale obbligo assunto da quest’ultima.

Secondo le ricorrenti la corte di merito non avrebbe esaminato questo fatto decisivo e controverso (nono motivo), o in subordine, se si ritiene che lo ha fatto, non lo ha correttamente considerato (decimo motivo).

Va premesso che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. 26305/2018). Il che significa che si può prospettare un omesso esame solo dei fatti che sono proposti in un motivo specifico di appello, essendo onere della parte riproporre con motivo di impugnazione le eccezioni non accolte in primo grado.

Nella fattispecie, le ricorrenti non forniscono dimostrazione di avere riproposto la questione della mancata comunicazione con specifico motivo di appello, ed anzi, dal ricorso risulta che la questione era semmai fatta oggetto di un argomento difensivo, con la conseguenza che l’omesso esame non si traduce in un vizio della sentenza. Con la conseguenza che, ritenuto inammissibile il nono motivo, il decimo è assorbito.

Il ricorso va rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna le ricorrenti al pagamento delle spese di lite nella misura di 6200,00 Euro, oltre 200,00 per spese generali, dando atto della sussistenza dei presupposti per il versamento del doppio del contributo unificato.

Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2020

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