Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4587 del 26/02/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 4587 Anno 2014
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: BERRINO UMBERTO

SENTENZA

sul ricorso 6744-2012 proposto da:
A.S.L. N. 2 DI LANCIANO – VASTO – CHIETI C.F.

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legale rappresentante pro
ln ROMA,

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RAMUSIO 6,

presso lo

V1A

studio dell’avvocato ALFONSO

TINARI, rappresentata e difesa dall’avvocato LABBATE

2013

STEFANO, giusta delega in atti;
– ricorrente –

3461
contro

DI

BLASIO

PIETRO

C.F.

DBLPTR57H29H454S,

tutti

elettivamente domiciliatO in ROMA, VIA SISTINA, 121,

Data pubblicazione: 26/02/2014

presso lo studio dell’avvocato BONOTTO MARCELLO,
rappresentati e difesi dall’avvocato GATTA VINCENZO,
giusta delega in atti;
– controricorrente avverso la sentenza n. 1004/2011 della CORTE D’APPELLO
di L’AQUILA, depositata il 29/11/2011 R.G.N.
1331/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 03/12/2013 dal Consigliere Dott. UMBERTO
BERRINO;
udito l’Avvocato TARIDDI NICOLA per delega LABBATE
STEFANO;
udito l’Avvocato GATTA VINCENZO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

,

Svolgimento del processo
Con sentenza del 20/10 — 29/11/2011 la Corte d’appello dell’Aquila ha accolto
l’impugnazione proposta da Di Blasio Pietro avverso la sentenza del giudice del lavoro del
Tribunale di Vasto che gli aveva respinto la domanda volta alla condanna dell’Azienda
Sanitaria Locale n. 2 di Lanciano — Vasto — Chieti al pagamento delle differenze retributive

l’effetto, ha dichiarato il diritto dell’appellante alla fruizione delle suddette differenze
economiche con riferimento al periodo febbraio 2004 — giugno 2009, condannando
l’azienda resistente alla loro corresponsione unitamente alle spese del doppio grado di
giudizio. Nel contempo la Corte ha respinto l’appello incidentale svolto dall’azienda
sanitaria per sentir dichiarare la nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
Ha spiegato la Corte che, in omaggio al principio di cui all’art. 36 della Costituzione, in
materia di pubblico impiego contrattualizzato il diritto al compenso per lo svolgimento di
fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata nell’art. 52, comma quinto,
del decreto legislativo n. 165 del 2001, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti
di legittimità dell’assegnazione delle mansioni o alla previsione dei contratti collettivi, né
all’operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla
contrattazione collettiva e che nella fattispecie l’istruttoria espletata aveva consentito di
accertare che l’appellante aveva effettivamente svolto le mansioni superiori per le quali
aveva chiesto il riconoscimento alla fruizione delle relative differenze economiche.
Quanto all’appello incidentale dell’azienda la Corte ne ha evidenziato l’infondatezza sulla
scorta del rilievo che la domanda del lavoratore non era da ritenere indeterminata e che
anche nel rito del lavoro è, comunque, esperibile la domanda di condanna generica con
possibilità per il ricorrente di promuovere autonomo giudizio per la quantificazione delle
spettanze reclamate.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso l’Azienda Sanitaria Locale n. 2 di
Lanciano — Vasto – Chieti con quattro motivi.
Resiste con controricorso il Di Blasio, il quale deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art.
378 c.p.c.
Motivi della decisione

Aieb

reclamate per lo svolgimento delle mansioni superiori di infermiere professionale e, per

1. Col primo motivo la ricorrente denunzia, ai sensi degli artt. 112 e 360 n. 4 c.p.c.,
l’omessa pronunzia della Corte territoriale sull’eccezione pregiudiziale sollevata nella
propria comparsa di risposta del giudizio d’appello con specifico riferimento alla
inammissibilità del gravame proposto dal lavoratore avverso la sentenza del giudice del
lavoro del Tribunale di Vasto, eccezione, questa, che era stata ribadita con la comparsa

censure formulate dalla controparte.
Il motivo è infondato, in quanto dalla lettura della motivazione della sentenza della Corte
d’appello si ricava che la suddetta eccezione fu implicitamente rigettata: invero, non solo il
gravame fu trattato nei suoi diversi aspetti di merito, la qual cosa esclude che il giudice di
secondo grado potesse averlo ritenuto mancante del requisito della specificità, ma lo
stesso appello incidentale svolto dalla difesa dell’azienda sanitaria fu dichiarato infondato
proprio con riferimento all’asserita indeterminatezza della domanda del lavoratore, del cui
mancato accoglimento quest’ultimo si era lamentato attraverso l’impugnazione principale.
Si è, infatti, affermato (Cass. Sez. 3, n. 19131 del 23/9/2004) che ” non è configurabile il
vizio di omessa pronuncia (art. 112, cod. proc. civ.) quando una domanda non
espressamente esaminata debba ritenersi rigettata – sia pure con pronuncia implicita – in
quanto indissolubilmente avvinta ad altra domanda che ne costituisce il presupposto e il
necessario antecedente logico – giuridico, che sia stata decisa e rigettata dal giudice”
Nello stesso senso si è precisato (Cass. Sez. 2, n. 10001 del 24/6/2003) che “qualora
ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della pretesa o della deduzione difensiva
ovvero di un loro assorbimento in altre declaratorie non è configurabile il vizio di omessa
pronuncia di cui all’art. 112 cod. proc. civ., che si riscontra soltanto allorché manchi una
decisione in ordine a una domanda a o a un assunto che renda necessaria una statuizione
di accoglimento o di rigetto.”
2. Col secondo motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art.
244 cod. proc. civ., in relazione all’art. 157, comma 2°, c.p.c., nonché dell’omessa
pronunzia sull’eccezione di inammissibilità delle prove testimoniali precluse al lavoratore,
stante la sua acquiescenza al rigetto delle richieste istruttorie statuito dal giudice di prime

2

conclusionale ed in sede di discussione, sempre in base alla lamentata genericità delle

cure e considerata la sua decadenza dalla possibilità di dolersi in appello della loro
mancata ammissione.
In particolare, la ricorrente evidenzia che l’impugnazione principale del lavoratore era stata
accolta esclusivamente all’esito delle prove testimoniali riproposte dal medesimo nel
giudizio di seconde cure, malgrado fossero intervenute decadenze e preclusioni a seguito

giudice, il quale aveva nel contempo fissato l’udienza di discussione assegnando termine
per note, senza che il ricorrente si fosse avvalso di tale incombente per dolersi della loro
mancata ammissione.
Il motivo è infondato.
Invero, si è già avuto modo di affermare in passato (Cass. Sez. Lav. n. 6422 del
12/12/1980) che “nelle controversie soggette al nuovo rito del lavoro, la parte, la cui prova
non sia stata ammessa nel giudizio di primo grado, deve dolersi di tale mancata
ammissione attraverso un apposito motivo di gravame, senza che possa attribuirsi
significato di rinuncia o di acquiescenza al provvedimento negativo per il fatto di non avere
proposto reclamo contro lo stesso o di non avere ripetuto l’istanza di ammissione nelle
conclusioni di primo grado, in quanto l’art 420 cod proc civ non prevede alcun reclamo
avverso la mancata ammissione della prova.”
Nemmeno è condivisibile l’assunto in base al il quale il ricorrente avrebbe potuto riproporre
l’istanza di ammissione dei mezzi di prova nella sede delle note autorizzate del giudizio di
primo grado, posto che nel rito del lavoro vige il principio per il quale non sono previste
udienze di mero rinvio, né l’udienza di precisazione delle conclusioni, con la conseguenza
che ogni udienza, a partire dalla prima, è destinata, oltre che all’assunzione di eventuali
prove, alla discussione e, quindi, all’immediata pronuncia della sentenza mediante lettura
del dispositivo. Ne consegue, altresì, che se nei rispettivi atti introduttivi delle parti sono
stati tempestivamente articolati mezzi di prova, dalla mancata presentazione di un’ulteriore
istanza di ammissione nelle udienze successive il giudice non può presumere l’abbandono
e ritenerne la decadenza.
3. Col terzo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 52,
0
comma 5 , del decreto legislativo n. 165 del 2001, dell’art. 2126 cod. civ., dell’art. 36 della
3

n

della sua acquiescenza al provvedimento di rigetto di tali mezzi istruttori da parte del primo

Costituzione, degli artt. 1 e 2 del d.p.r. 14/3/1974, n. 225 e dell’art. 100 del T.U.L.S.,
nonché l’omesso esame di documenti decisivi inerenti i requisiti specifici ed il titolo di
abilitazione all’esercizio dell’attività di infermiere professionale, oltre che l’erronea
valutazione delle prove testimoniali in violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.
Ritiene la ricorrente che la Corte territoriale non avrebbe considerato l’importanza dei titoli

delle relative differenze retributive negategli in prime cure ed avrebbe erroneamente
valutato le prove testimoniali ammesse in appello.

Il motivo è infondato.
Invero, correttamente la Corte d’appello ha richiamato il precedente n. 14775 del
18/6/2010 di questa Corte, che in questa sede si ha modo di ribadire, col quale si è
statuito che ” in materia di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per lo
svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata nell’art. 52,
quinto comma del d.lgs. n. 165 del 2001, non è condizionato alla sussistenza dei
presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti
collettivi, né all’operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto
dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria
all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione
proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 della
Costituzione.”
Per quel che concerne la doglianza inerente l’asserito errore di valutazione delle prove
testimoniali raccolte in appello se ne rileva l’infondatezza per la ragione che trattasi di
inammissibile tentativo di rivisitazione del merito istruttorio adeguatamente vagliato in
punto di fatto dalla Corte territoriale con motivazione immune da vizi di tipo logicogiuridico, che sfugge, in quanto tale, ai rilievi di legittimità.
4. Col quarto motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 414
e 278 c.p.c. con riferimento alla dedotta nullità del ricorso di primo grado, che fu eccepita
per l’asserita indeterminatezza della domanda ai fini delle pretese differenze retributive,
sia con le note autorizzate, sia col ricorso incidentale in appello. Inoltre, la ricorrente si

abilitanti all’esercizio della professione rivendicata dal lavoratore ai fini del conseguimento

duole dell’omesso esame di atti e documenti decisivi e dell’omessa pronunzia, da parte del
giudice d’appello, sulla predetta eccezione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio.
Anche quest’ultimo motivo è infondato.
Anzitutto, non può non evidenziarsi un profilo di inammissibilità del motivo nella parte in
cui si accenna nella intitolazione della rubrica ad un asserito omesso esame di atti e

fossero in concreto i documenti non esaminati e in che senso fossero decisivi ai fini della
dimostrazione dell’eccepita nullità del ricorso di primo grado. In realtà, la ricorrente si limita
a richiamare il contenuto dei propri atti difensivi nell’intento di riproporre in questa sede la
tesi della dedotta nullità dell’atto introduttivo del giudizio. Né, tanto meno, è ravvisabile il
dedotto vizio di omessa pronunzia, atteso che la Corte d’appello ha motivato il proprio
convincimento sulla ritenuta infondatezza dell’eccezione di indeterminatezza dela
domanda. Infine, la motivazione offerta al riguardo dai giudici d’appello, vale a dire il
richiamo alla possibilità di formulazione nel rito del lavoro di una domanda di condanna
generica, con riserva di chiederne in separato giudizio la quantificazione, è immune da vizi
logici e giuridici e non è scalfita dalle odierne censure che mirano a riproporre in questa
sede la stessa questione già adeguatamente scrutinata nella precedente fase di giudizio.
D’altra parte, questa stessa Corte ha già avuto occasione di affermare (Cass. Sez. lav.
8576 del 5 maggio 2004) che “anche nel rito del lavoro è ammissibile una sentenza di
condanna generica (non limitata alle ipotesi di sentenza non definitiva con rinvio della
liquidazione del “quantum” alla prosecuzione del giudizio, previste dagli artt. 278 e 279 n.
4 cod. proc. civ.), in quanto anche in detto rito la domanda può essere limitata fin dall’inizio
all’accertamento dell'”an”, con conseguente pronuncia di condanna generica, che
definisce il giudizio, e connesso onere della parte interessata di introdurre, ex art. 414 cod.
proc. civ., autonomo giudizio per la liquidazione del “quantum”.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate
come da dispositivo.
P.Q.M.

documenti decisivi senza che si specifichi nella parte esplicativa della censura quali

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nella
misura di € 3000,00 per compensi professionali e di € 100,00 per esborsi, oltre accessori
di legge.
Così deciso in Roma il 3 dicembre 2013

Il Consigliere estensore

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