Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4587 del 24/02/2011

Cassazione civile sez. trib., 24/02/2011, (ud. 16/12/2010, dep. 24/02/2011), n.4587

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 6042-2009 proposto da:

S.M.L. (OMISSIS), elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA ANTONIO GRAMSCI 54, presso lo studio dell’avvocato TASCO

GIAMPIERO, che la rappresenta e difende, giusta procura speciale in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende, ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 48/2008 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE

di ROMA del 24/04/08, depositata il 29/05/2008;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

16/12/2010 dal Consigliere Relatore Dott. CAMILLA DI IASI;

è presente l’Avvocato Generale in persona del Dott. DOMENICO

IANNELLI.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1. S.M.L. propone ricorso per cassazione nei confronti dell’Agenzia delle Entrate (che resiste con controricorso) e avverso la sentenza con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento per Irpef relativo al 1999, la C.T.R. Lazio confermava la sentenza di primo grado che aveva solo parzialmente accolto il ricorso introduttivo.

2. Il primo motivo di ricorso (col quale si deduce contrasto di giudicati in violazione dell’art. 2909 c.c.) e il quarto motivo (col quale si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c.) sono, prescindendo da altre, possibili considerazioni, innanzitutto inammissibili per inadeguata formulazione dei relativi quesiti di diritto, che risultano formulati senza evidenziare gli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la regola di diritto applicata dal quel giudice e la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie (v. tra molte altre Cass. n. 19769 del 2008), e che ad una lettura autonoma (ossia indipendente dalla lettura del motivo) risultano generici, non idonei ad esprimere la rilevanza della risposta al quesito ai fini della decisione della censura e in ogni caso privi delle indicazioni necessarie a consentire a questo giudice di formulare in risposta un principio di diritto idoneo a definire la questione controversa e suscettibile di ricevere applicazione in altre cause.

Il secondo motivo di ricorso (col quale si deduce violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello) è improcedibile per omesso deposito unitamente al ricorso (come prescritto a pena di improcedibilità anche per gli atti processuali dall’art. 369 c.p.c., n. 4 nel testo modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006) dell’atto sul quale la censura è fondata (ossia l’atto d’appello dal quale dovrebbe emergere la denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c.).

In proposito, è da evidenziare che l’onere di deposito de quo non può ritenersi adempiuto con la mera richiesta di acquisizione del fascicolo d’ufficio dei gradi di merito, nè, eventualmente, col deposito di tale fascicolo e/o del fascicolo di parte (che in ipotesi tali atti contenga), se esso non interviene nei tempi e nei modi di cui al citato art. 369 c.p.c. e se nel ricorso non si specifica che il fascicolo è stato prodotto, indicando la sede in cui il documento è rinvenibile (v. S.U. n. 28547 del 2008 e tra le altre Cass. n. 24940 del 2009 nonchè n. 303 del 2010 e, da ultimo, SU n. 7161 del 2010), essendo appena il caso di aggiungere che il suddetto onere di deposito sussiste anche nel processo tributario, non ostandovi il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 25, comma 2, per il quale “i fascicoli delle parti restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono ad esse restituiti al termine del processo”, in quanto la stessa norma prevede, di seguito, che “le parti possono ottenere copia autentica degli atti e documenti contenuti nei fascicoli di parte e d’ufficio”, con la conseguenza che non è ravvisatale alcun impedimento all’assolvimento dell’onere medesimo, potendo la parte provvedervi anche mediante la produzione in copia, alla quale l’art. 2712 c.c. attribuisce lo stesso valore ed efficacia probatoria dell’originale, salvo che la sua conformità non sia contestata dalla parte contro cui è prodotta (v. tra le altre Cass. n. 24940 del 2009).

Infine, anche il terzo motivo (col quale si deduce vizio di motivazione) è inammissibile innanzitutto per mancanza dell’indicazione prevista dalla seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c., a norma del quale il motivo di censura ex art. 360 c.p.c., n. 5 deve contenere una indicazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare nella esposizione chiara e sintetica del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume viziata, essendo peraltro da evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è viziata deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un “quid pluris” rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (v.

Cass. n. 8897 del 2008).

E’ inoltre appena il caso di aggiungere che non risultano indicati, con precisazione della sede processuale della relativa produzione (come previsto a pena di inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., n. 6 nell’interpretazione di questo giudice di legittimità) gli atti e documenti sui quali la censura è fondata, nè tali atti e documenti risultano depositati unitamente al ricorso, come previsto a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., n. 4.

Il ricorso deve essere pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la soccombente alle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00 di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2011

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