Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4579 del 28/02/2018


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Cassazione civile, sez. trib., 28/02/2018, (ud. 07/12/2017, dep.28/02/2018),  n. 4579

Fatto

La società Dalcos spa ricorreva alla CTP di Pescara per l’annullamento del provvedimento di diniego di nulla osta alla fruizione del credito di ricerca e sviluppo di cui alla L. n. 296 del 2006, a seguito di domanda introdotta secondo le procedure di cui al D.L. n. 185 del 2008.

La CTP rigettava il ricorso. Contro la sentenza della CTP la società proponeva appello che veniva respinto dalla CTR dell’Abruzzo.

Ricorreva, quindi, per la cassazione della suddetta sentenza, sulla base di sei motivi.

Questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 3576 del 2015, recependo alcune considerazioni della società ricorrente, dichiarava non manifestamente infondata, e rilevante, la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 185 del 2008, art. 29, comma 1 convertito in L. n. 2 del 2009, nella parte in cui non fa salvi i diritti di terzi per le spese sostenute, ai sensi della L. n. 296 del 2006, prima della entrata in vigore del suddetto D.L. n. 185, nonchè dell’art. 2 lett a) e art. 3 stesso provvedimento, e dell’art. 29 lett a), in relazione all’art. 3 Cost.

Trasmetteva, pertanto, gli atti alla Corte Costituzionale e sospendeva il giudizio.

La Corte Costituzionale si pronunciava sulla questione con sentenza n. 149 del 2017, con cui la dichiarava in parte inammissibile ed in parte infondata.

Il presente giudizio, pertanto, proseguiva su istanza del contribuente, sulla base dei suddetti sei motivi di ricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

E’ opportuno, preliminarmente, ripercorrere le vicende normative relative al suddetto credito di imposta.

La L. n. 296 del 2006 attribuiva un credito di imposta del 10% (poi innalzato al 40% ex L. n. 244 del 2007 per i contratti con università) per il periodo 2007-2009 in relazione al sostenimento di costi di ricerca e sviluppo (la norma è stata poi abrogata nel 2012).

I costi non potevano superare per ciascuna impresa e ciascun periodo di imposta 15 milioni di euro (poi 50 milioni ex L. n. 244 del 2007).

Successivamente, il D.L. 185 del 2008, art. 29, comma 1, affermando che 1. Le disposizioni di cui al D.L. 8 luglio 2002, n. 138, art. 5, commi 1 e 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 8 agosto 2002, n. 178, sul monitoraggio dei crediti di imposta si applicano anche con riferimento a tutti i crediti di imposta vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto tenendo conto degli oneri finanziari previsti in relazione alle disposizioni medesime. In applicazione del principio di cui al presente comma, al credito di imposta per spese per attività di ricerca di cui alla L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, commi da 280 a 283, si applicano le disposizioni di cui ai commi seguenti.

stabilì che tutti i crediti di imposta vigenti (inclusi quelli della L. n. 296 del 2006) fossero soggetti ad un tetto massimo fruibile dalle imprese (375 milioni per 2008, 533 milioni per 2009) ai sensi della normativa generale già in vigore per i crediti di imposta, rappresentata dal D.L. n. 138 del 2002 convertito in L. n. 178 del 2002.

Per i crediti di imposta di cui alla L. n. 296 del 2006 occorreva, quindi, una selezione per i contribuenti da ammettere al beneficio (e che non ne avessero già usufruito nel periodo anteriore al novembre 2008 – eventualmente in compensazione), anche per i crediti maturati prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 185 del 2008 perchè relativi a costi sostenuti – ai sensi della già citata L. n. 296 del 2006 – prima di tale data, per il caso in cui i contribuenti non ne avessero, come detto, già usufruito.

Il D.L. n. 185 del 2008, art. 29, commi 2, 3 e 5 previde quindi, per la selezione, l’invio da parte dei contribuenti di un formulario telematico, con una finestra temporale entro la quale introdurre le domande, poi stabilita con successivo atto amministrativo nel periodo decorrente dalle ore 10 del 6.5.2009 (giorno denominato poi informalmente “click day”) alle ore 24 del 5.6.2009.

Recitavano, infatti, i suddetti commi 2, 3 e 5:

2. Per il credito di imposta di cui alla L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, commi da 280 a 283, e successive modificazioni, gli stanziamenti nel bilancio dello Stato sono pari a 375,2 milioni di Euro per l’anno 2008, a 533,6 milioni di Euro per l’anno 2009, a 654 milioni di Euro per l’anno 2010 e a 65,4 milioni di Euro per l’anno 2011. A decorrere dall’anno 2009, al fine di garantire congiuntamente la certezza delle strategie di investimento, i diritti quesiti, nonchè l’effettiva copertura finanziaria, la fruizione del credito di imposta suddetto è regolata come segue:

a) per le attività di ricerca che, sulla base di atti o documenti aventi data certa, risultano già avviate prima della data di entrata in vigore del presente decreto, i soggetti interessati inoltrano per via telematica alla Agenzia delle entrate, entro trenta giorni dalla data di attivazione della procedura di cui al comma 4, a pena di decadenza dal contributo, un apposito formulario approvato dal Direttore della predetta Agenzia; l’inoltro del formulario vale come prenotazione dell’accesso alla fruizione del credito d’imposta;

b) per le attività di ricerca avviate a partire dalla data di entrata in vigore del presente decreto, la compilazione del formulario da parte dei soggetti interessati ed il suo inoltro per via telematica alla Agenzia delle entrate vale come prenotazione dell’accesso alla fruizione del credito di imposta successiva a quello di cui alla lett. a).

3. L’Agenzia delle entrate, sulla base dei dati rilevati dai formulari pervenuti, esaminati rispettandone rigorosamente l’ordine cronologico di arrivo, comunica telematicamente e con procedura automatizzata ai soggetti interessati:

a) relativamente alle prenotazioni di cui al comma 2, lett. a), esclusivamente un nulla-osta ai soli fini della copertura finanziaria; la fruizione del credito di imposta è possibile nell’esercizio in corso ovvero, in caso di esaurimento delle risorse disponibili in funzione delle disponibilità finanziarie, negli esercizi successivi;

b) relativamente alle prenotazioni di cui al comma 2, lett. b), la certificazione dell’avvenuta presentazione del formulario, l’accoglimento della relativa prenotazione, nonchè nei successivi novanta giorni l’eventuale diniego, in ragione della capienza. In mancanza del diniego, l’assenso si intende fornito decorsi novanta giorni dalla data di comunicazione della certificazione dell’avvenuta prenotazione.

5. Il formulario per la trasmissione dei dati di cui ai commi da 2 a 4 presente articolo è approvato con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, adottato entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Entro 30 giorni dalla data di adozione del provvedimento è attivata la procedura per la trasmissione del formulario.

La società ricorrente introdusse la domanda, ricevendo però, il 15.6.2009, in via telematica, la comunicazione del diniego alla fruibilità del credito di imposta per “esaurimento risorse”.

Va anche detto che, successivamente a tali fatti, al fine di sopperire all’esaurimento delle disponibilità finanziarie, la L. 23 dicembre 2009, n. 191, art. 2, comma 236, (come modificato dal D.L. 25 marzo 2010, n. 40, art. 4, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 maggio 2010, n. 73) dispose – per gli anni 2010 e 2011 – uno stanziamento di ulteriori risorse destinate al finanziamento del credito d’imposta in argomento (complessivamente pari a 350 milioni di euro). Con decreto del Ministro dello sviluppo economico emanato il 4 marzo 2011 di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono state individuate le modalità di utilizzo dell’ulteriore stanziamento disposto dalla L. n. 191 del 2009, art. 2, comma 236. Con le nuove risorse, il credito di imposta divenne utilizzabile nella misura massima del 47,53%.

Come accennato sopra, questa Corte aveva sollevato questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 185 del 2008, art. 29, comma 1 per violazione dell’art. 3 Cost., in relazione al trattamento normativo per i crediti già maturati nel 2007 e 2008, anteriormente all’entrata in vigore del suddetto D.L. 185, per violazione del principio dell’affidamento dei privati nei confronti della Pubblica Amministrazione.

In via subordinata, aveva anche sollevato questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 185 del 2008, art. 29, comma 2, lett. a) e comma 3 per violazione dell’art. 3 Cost., per avere fondato la procedura di selezione su mero criterio cronologico.

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 149 del 2017, ha dichiarato in parte infondate ed in parte inammissibili le questioni.

A seguito di istanza di prosecuzione, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, della causa sospesa, la società ricorre sulla base dei sei motivi contenuti nel ricorso davanti a questa Corte.

Con il primo motivo deduce la illegittimità costituzionale del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, art. 29, comma 1, 2 e 3 convertito in L. 28 gennaio 2009, n. 2, per violazione degli artt 3,41,97 e 117 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Al riguardo, occorre osservare che in relazione all’asserito contrasto della suddetta normativa con gli art. 41,97 e 117 Cost. si è già espressa questa Corte con l’ordinanza della sez. 6, n. 3576 del 2015 dichiarando la questione infondata, con motivazioni che questo collegio condivide ed alle quali si richiama espressamente.

In relazione al contrasto con l’art. 3 Cost., si è ricordato sopra che la questione è stata trasmessa, con la stessa ordinanza di questa Corte, alla Corte Costituzionale, che con sentenza n. 149 del 2017 ha dichiarato infondata la questione in merito all’art. 29, comma 1 e inammissibile in merito al D.L. n. 185 del 2008, art. 29, comma 2.

In riferimento alla prima questione, relativa al contrasto del D.L. n. 185 del 2008, art. 29, comma 1 con l’art. 3 Cost. – che, in sostanza, si traduce nella asserita violazione del principio dell’affidamento perchè lo Stato italiano dapprima (nel 2006) ha riconosciuto un credito di imposta per la spese per ricerca, senza prevedere un tetto massimo per l’utilizzo di tale credito, e successivamente (nel 2008) ha introdotto tale tetto, operante anche per i crediti relativi alle spese sostenute prima che la nuova normativa entrasse in vigore (e quindi le spese sostenute tra il 2006 ed il 2008) -, la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione affermando che un intervento retroattivo del legislatore che incida su diritti soggettivi perfetti non è di per sè in contrasto con la Costituzione se non è irrazionale, se è giustificato a salvaguardia di altri valori costituzionali e se è proporzionato; nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la mancanza di tetto massimo per la fruibilità dei crediti di imposta giustificasse un intervento anche retroattivo per salvaguardare le finanze statali (art 2,3 e 81 Cost.); inoltre, gli ulteriori interventi normativi, di cui alla L. n. 191 del 2009 per tutelare le posizioni dei titolari di crediti “perdenti”, hanno salvaguardato il rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità dell’intera disciplina.

In merito alla seconda questione, relativa al contrasto del D.L. n. 185 del 2008, art. 29, comma 2, lett. a), e comma 3, con l’art. 3 Cost., – che, in sostanza, si traduce nel dubbio sulla legittimità di un sistema di fruibilità dei crediti basato su un meccanismo, quale quello della priorità temporale della domanda telematica fino ad esaurimento risorse, che conduce a risultati del tutto scollegati non solo dal merito delle ragioni di credito ma anche dalla solerzia nel loro esercizio, perchè fondato su elementi, in fin dei conti, casuali, quale la velocità dei meccanismo di trasmissione informatica all’interno di una marea vastissima di concorrenti -, occorre sempre riferirsi a quanto affermato dalla Corte Costituzionale, che ha dichiarato inammissibile la questione perchè un eventuale accoglimento della stessa determinerebbe un nuovo assetto normativo “caratterizzato da iniquità e irragionevolezza”, in quanto nel frattempo il legislatore è intervenuto con la L. n. 191 del 2009 per salvaguardare, almeno in parte, la posizione dei “perdenti”, cosicchè la dichiarazione della illegittimità della normativa del 2008 farebbe perdere ai “vincitori” il beneficio ottenuto, senza che gli stessi possano essere recuperati ai sensi della L. n. 191 del 2009, dato che i finanziamenti da essa previsti sono riservati ai soli “perdenti” della prima procedura.

Con il secondo motivo la società ricorrente deduce contraddittorietà ed illogicità della motivazione circa un fatto controverso e risolutivo per la definizione del giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5).

La contraddizione consisterebbe nel fatto che da un lato la CTR ha riconosciuto il diritto soggettivo a fruire del credito, ma dall’altro ha affermato che il D.L. n. 185 del 2008 ha inciso solo sulle modalità di fruizione, mentre doveva rilevare la illegittimità del diniego perchè il diritto, in realtà, è stato soppresso e non ne è stata semplicemente disciplinata la modalità di fruizione.

Va rilevato che, essendo stata depositata la sentenza in data 23.6.2011, al motivo di gravame si applica l’art. 360 c.p.c., n. 5) nella versione ante 2012, sebbene successiva al 2006.

Il motivo è al limite della inammissibilità perchè, come rilevato da sez. 5, n. 2805 del 2011, proprio con riferimento ad un caso analogo per “fatto decisivo e controverso” deve intendersi un vero e proprio fatto, non una “questione” o un “punto”; non a caso, infatti, il citato art. 360 c.p.c. (nella parte in cui prevedeva l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia) è stato modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006 nel senso che l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione deve riguardare un fatto controverso e decisivo, e la modifica non può essere ritenuta puramente formale e priva di effetti: il “fatto” di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 è perciò un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un “fatto principale”, ex art. 2697 c.c. (cioè un “fatto” costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo) o anche, secondo parte della dottrina e giurisprudenza, un “fatto secondario” (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo.

Il “fatto” della cui omissione o errata considerazione si duole il ricorrente nel caso di specie è, però, una valutazione giuridica, non un fatto storico.

L’avere la CTR, in prima battuta, riconosciuto un diritto soggettivo all’impresa ricorrente, salvo poi affermare che la nuova normativa non lo ha soppresso ma ha solo inciso sulle modalità di fruizione, non è, infatti, un fatto “storico” e “fattuale”, quanto una valutazione giuridica.

In ogni caso, il motivo è infondato.

E’ vero che su tale aspetto sia questa Corte nell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale, sia quest’ultima, hanno ritenuto che, effettivamente, la normativa del 2008 non ha semplicemente inciso sulle modalità di fruizione del diritto, ma sul diritto stesso. Tuttavia, questo non significa che il percorso argomentativo della CTR sia stato “contraddittorio” o “illogico” ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

La CTR ha, infatti, seguito un proprio percorso argomentativo che, intrinsecamente, non è nè illogico, nè contraddittorio, non ravvisandosi tale vizio nell’affermare che la prima normativa ha riconosciuto un diritto soggettivo e quella successiva ha inciso sulle modalità di fruizione dello stesso. Piuttosto, in quanto errato da un punto di vista giuridico, avrebbe, eventualmente, dovuto essere denunciato sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 3).

Con il terzo motivo la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 3 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente), in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Lamenta, in sostanza, che la CTR non abbia censurato l’applicazione retroattiva del D.L. n. 185 del 2008 che ha introdotto un tetto massimo per la fruibilità del credito di imposta, con effetto anche per i crediti maturati anteriormente.

Il motivo è infondato.

Sul punto, è sufficiente riportarsi a quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sopra citata sentenza n. 149 del 2017, laddove il giudice delle leggi ha affermato (paragrafi 9 – 12) che un intervento normativo anche retroattivo, incidente su diritti perfetti, non è necessariamente incostituzionale, purchè risponda a criteri di razionalità, di salvaguardia di altri valori costituzionali, e di proporzionalità; nella specie, la Corte ha rilevato che l’intervento era necessario per tutelare altri sopravvenuti interessi pubblici di rilievo costituzionale, quale la tutela dell’equilibrio del bilancio dello Stato, e, nel necessario bilanciamento degli interessi in gioco, quest’ultimo elemento non rende illegittima la normativa sopravvenuta nel 2008.

Con il quarto motivo la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 2 e dei principi comunitari in tema di legittimo affidamento, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Il motivo è infondato.

La Corte Costituzionale, nel paragrafo 9 del “considerato” della sentenza 149 del 2017, ha affermato che “il valore del legittimo affidamento non esclude che il legislatore possa assumere disposizioni che modifichino in senso sfavorevole agli interessati la disciplina di rapporti giuridici anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti, ma esige che ciò avvenga alla condizione che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica (sentenze n. 56 del 2015, n. 302 del 2010, n. 236 e n. 206 del 2009). Solo in presenza di posizioni giuridiche non adeguatamente consolidate, dunque, ovvero in seguito alla sopravvenienza di interessi pubblici che esigano interventi normativi diretti a incidere peggiorativamente su di esse, ma sempre nei limiti della proporzionalità dell’incisione rispetto agli obiettivi di interesse pubblico perseguiti, è consentito alla legge di intervenire in senso sfavorevole su assetti regolatori precedentemente definiti (ex plurimis, sentenza n. 56 del 2015)” (sentenza n. 216 del 2015; si vedano anche, tra le tante, le sentenze n. 160 e n. 103 del 2013, n. 416 del 1999).

L’intervento retroattivo del legislatore, dunque, può incidere sull’affidamento dei cittadini a condizione che: 1) trovi giustificazione in “principi, diritti e beni di rilievo costituzionale” (ex multis, sentenza n. 308 del 2013), e dunque abbia una “causa normativa adeguata” (sentenze n. 203 del 2016, n. 34 del 2015 e n. 92 del 2013), quale un interesse pubblico sopravvenuto (sentenze n. 16 del 2017, n. 216 e n. 56 del 2015) o una “inderogabile esigenza” (sentenza n. 349 del 1985); 2) sia comunque rispettoso del principio di ragionevolezza (fra le tante, sentenza n. 16 del 2017) inteso, anche, come proporzionalità (sentenze n. 203 e n. 108 del 2016; n. 216 e n. 56 del 2015)”.

Ha quindi ritenuto che, nella specie, si siano verificati i requisiti che hanno giustificato l’intervento normativo, per la salvaguardia di principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, e cioè la necessità di mantenere il bilancio dello Stato nel rispetto dei parametri approvati anche in sede europea, con la possibilità, al contempo, di creare disponibilità finanziarie per rilanciare l’economia e tutelare i lavoratori e le famiglie, a fronte di una situazione di una eccezionale crisi internazionale generalizzata (infatti il D.L. n. 185 del 2008 era denominato nel linguaggio atecnico “decreto anticrisi”).

Per quanto la CTR abbia fornito una interpretazione del principio di legittimo affidamento più restrittiva di quella ammessa dalla stessa Corte Costituzionale e dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea – interpretazione secondo la quale il principio non opera in relazione agli atti del legislatore, ma solo riguardo all’amministrazione, mentre, al contrario, il giudice delle leggi nazionale e la Corte di Giustizia ritengono che il principio coinvolga anche l’esercizio della funzione legislativa – tuttavia l’imprecisione diventa irrilevante nell’economia complessiva del giudizio, in quanto non solo la Corte Costituzionale, come sopra evidenziato, ma anche la stessa Corte di Giustizia, in qualche occasione, ha ammesso che l’applicazione del principio possa flettersi di fronte ad interventi legislativi in presenza situazioni particolari e a determinate condizioni.

Quest’ultima, in particolare, – per quanto possa rilevare nella misura in cui la materia sia regolata da norme euro-unitarie – si è già occupata della definizione del concetto di legittimo affidamento, ed ha affermato che, per quanto lo stesso sia un principio fondamentale dell’ordinamento dell’Unione, non si traduce nella aspettativa di intangibilità di una normativa, in particolare in settori in cui è necessario, e di conseguenza ragionevolmente prevedibile, che le norme in vigore vengano continuamente adeguate alle variazioni della congiuntura economica. (Corte Giust., sentenza del 23.11.1999 nella causa C-149/96).

Di conseguenza, gli operatori economici non possono fare legittimamente affidamento sulla conservazione di una situazione esistente che può essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle istituzioni comunitarie (vedasi sentenza 15 luglio 1982, causa 245/81,Edeka, Race. 1982, pag. 2745, punto 27 della motivazione; sentenza 28 ottobre 1982, causa 52/81, Faust, Race. 1987, 3745, punto 27 della motivazione; sentenza 17 giugno 1987, cause riunite 424 e 425/85, Frico, Race. 1979, pag. 2755, punto 33 della motivazione). (Corte Giust., caso C-350/88).

Va sempre ricordato, al riguardo, che la normativa del D.L. n. 158 del 2008 (che, per inciso, non ha creato un istituto “ex novo”, ma ha esteso una disciplina generale sui crediti di imposta già in vigore in quel momento – cioè la previsione di un tetto massimo – al credito di imposta specifico) è stata dettata, come ricordato dalla stessa Corte Costituzionale, e come emerge del resto dallo stesso preambolo del testo legislativo, dalla eccezionale situazione di crisi economica venutasi a creare a livello internazionale in quel momento e dalla necessità per lo Stato italiano di rispettare gli impegni sui parametri economici connaturati alla appartenenza alla Unione Europea. Inoltre, lo Stato ha regolato, con il successivo intervento di cui alla L. n. 191 del 2009, le situazioni che si erano venute a verificare a detrimento dei c.d. “perdenti” nella procedura di cui al D.L. n. 185 del 2008.

Con il quinto motivo di ricorso la società deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1 nonchè della L. n. 241 del 1990, art. 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Afferma, in sostanza, che il provvedimento di diniego è illegittimo perchè non motivato.

Secondo la L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1:

Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3 concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama.

A sua volta, la L. n. 241 del 1990, art. 3 stabilisce:

1. Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma 2. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria.

2. La motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale. Il motivo è infondato.

La CTR sul punto ha stabilito che il provvedimento ha illustrato in maniera succinta ma evidente le ragioni per cui il credito di imposta non veniva concesso, e cioè l'”esaurimento delle risorse”, così come era chiaro che il diniego si riferiva a tutte le somme stanziate fino al 2011.

Il motivo è dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, ma l’interpretazione che ha dato la CTR dell’onere di motivazione non appare errata.

In tema di motivazione di atti (nella specie, ruolo e cartella), Sez. 5^, n. 11466 del 2011 afferma che è sufficiente l’indicazione degli elementi che permettano di controllare la legittimità della procedura cui esso si riferisce.

L’interpretazione che la CTR ha dato del concetto di “motivazione” dell’atto è, pertanto, in linea con la giurisprudenza sul tema, avendo la stessa ritenuto che l’atto permettesse di comprendere appieno le ragioni del diniego.

Con il sesto motivo la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 2 nonchè della L. n. 241 del 1990, art. 21-octiesin relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Lamenta che la CTR ha male interpretato la norma sul responsabile del procedimento ritenendo sufficiente l’indicazione del direttore del Centro di Pescara.

Il motivo è infondato.

La L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 2, secondo il quale gli atti dell’amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione devono tassativamente indicare, tra l’altro, l’ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni complete in merito all’atto notificato o comunicato e il responsabile del procedimento, peraltro non prevede sanzione; per la cartelle esattoriali, poi, la normativa specifica che prevede espressamente la nullità è stata introdotta a partire dal 2008.

Il D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4-ter, ha previsto tale sanzione solo con riguardo alle cartelle di pagamento relative a ruoli consegnati a decorrere dalla data menzionata (in tale senso, per tutte, Sezioni Unite, sentenza n. 11722 del 2010), nè, per le cartelle anteriori prive di tale requisito, ricorre l’annullabilità delle stesse, atteso che, “essendo la disposizione di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7 priva di sanzione, e non incidendo direttamente la violazione in questione sui diritti costituzionali del destinatario, trova applicazione la L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 21 octies il quale, allo scopo di sanare con efficacia retroattiva tutti gli eventuali vizi procedimentali non influenti sul diritto di difesa, prevede la non annullabilità del provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, qualora, per la natura vincolata del provvedimento, come nel caso di cartella esattoriale, il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (ordinanza n. 332 del 2016; nello stesso senso, sentenze n. 25773 del 2014, n. 3754 del 2013 e n. 4516 del 2012).

Peraltro tale norma, il D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4 ter si riferisce espressamente solo alle cartelle esattoriali di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 25 mentre nella specie, sebbene si tratti di un atto del giugno 2009, siamo davanti ad un diniego di agevolazione, quindi un atto di natura diversa.

La L. n. 241 del 1990, art. 21 septies commina la nullità al provvedimento che manca degli elementi essenziali, ma la L. n. 241 non prevede il nome del responsabile del procedimento come uno degli elementi essenziali dell’atto.

L’art. 21 opties, comma 1, prevede l’annullabilità del provvedimento adottato in violazione di legge.

Peraltro, va osservato che, nella specie, ci si trova in presenza di un procedimento particolare, completamente telematico, consistente nella introduzione in via elettronica di una domanda alla quale segue, a distanza di tempo, un provvedimento, emesso sulla base di una elaborazione – anche in questo caso – meramente informatica della domanda. L’elaborazione consiste nella mera assegnazione automatica di fondi in base ad un puro criterio cronologico, fino ad esaurimento risorse, ed il provvedimento, che dà semplicemente atto dell’assegnazione o meno del credito di imposta, è comunicato sempre in via informatica.

In tale contesto, il provvedimento, come detto, è telematico, generato automaticamente dal sistema, e quindi a contenuto vincolato, nel senso che, nei casi di rigetto della domanda, è predeterminato nella forma e nel contenuto. Può, quindi, fondatamente ritenersi uno di quegli atti a contenuto vincolato per il quale la L. n. 241 del 1990, art. 21-octies, comma 2, esclude non solo la nullità, ma anche l’annullabilità in caso di adozione in violazione delle norme sul procedimento o sulla forma.

Va, peraltro, anche osservato che la CTR ha dato atto del fatto che, inoltre, l’indicazione di un nominativo al quale riferire il provvedimento, e quindi il procedimento, era presente sull’atto, nella persona del direttore del Centro operativo di Pescara.

Va evidenziato, al riguardo, che questa Corte ha avuto modo di affermare, sempre in riferimento alle cartelle ma con un principio che appare applicabile in generale, che, al fine di non incorrere in nullità, è sufficiente l’indicazione sull’atto di una persona responsabile del procedimento, a prescindere quindi dalla funzione (apicale o meno) della stessa effettivamente esercitata; siffatta indicazione appare, infatti, sufficiente ad assicurare gli interessi sottostanti alla detta indicazione, che sono la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa. (Sez. ord. n. 3533 del 2016).

Anche sul punto, quindi, la motivazione della CTR non appare errata. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Considerata la novità della questione, sussistono giusti motivi per la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Compensa tra le parti le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2018

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