Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4572 del 22/02/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 22/02/2017, (ud. 20/12/2016, dep.22/02/2017),  n. 4572

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 5592/2011 proposto da:

Gestione Industrie Confezioni Gic Srl in liquidazione, rappresentata

e difesa dagli avv. Marco Miccinesi e Francesco Pistolesi, con

domicilio eletto in Roma, via Cola di Rienzo 180, presso lo studio

dell’avv. Paolo Fiorilli;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso 12, l’Avvocatura

Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

nonchè sul ricorso incidentale proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso 12, l’Avvocatura

Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente incidentale –

contro

Gestione Industrie Confezioni – G.I.C. Srl in liquidazione,

rappresentata e difesa dagli avv. Marco Miccinesi e Francesco

Pistolesi, con domicilio eletto in Roma, via Cola di Rienzo 180,

presso lo studio dell’avv. Paolo Fiorilli;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Toscana depositata il 14 giugno 2010.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 20 dicembre 2016

dal Consigliere Giuseppe Tedesco;

uditi l’avv. Marco Alena e l’avv. Fabrizio Urbani Neri;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale De Masellis Mariella, che ha concluso chiedendo

l’inammissibilità e in subordine il rigetto del ricorso principale

e l’accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Commissione tributaria regionale della Toscana, decidendo quale giudice di rinvio, ha accolto parzialmente il ricorso che la contribuente aveva proposto contro l’avviso di accertamento di maggiore imponibile Iva per l’anno di imposta 2006 (avviso emesso sulla base di indagini finanziarie su conti e rapporti intestati in nome di soci e dipendenti).

Contro la sentenza la società ha proposto ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi, cui resiste l’amministrazione con contro ricorso, contenente ricorso incidentale affidato a due motivi, al quale la contribuente resiste a sua volta con contro ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo del ricorso principale la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 5 e art. 55 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si rimprovera alla commissione tributaria regionale di avere qualificato l’accertamento eseguito nei confronti della società quale rettifica della dichiarazione IVA, trascurando che l’ufficio non si era limitato, attraverso l’utilizzazione dei dati bancari, a modificare la consistenza di alcuni, ben individuati, fatti di gestione dell’attività, ma aveva operato una rideterminazione complessiva dell’intera massa dei ricavi, senza tuttavia preventivamente riscontrare la sussistenza dei presupposti richiesti dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55 per l’accertamento induttivo. In altre parole, secondo la ricorrente, l’errore della sentenza è nel non avere colto che l’accertamento presuntivo operato nel caso di specie aveva travalicato i limiti della rettifica, rientrando a piano titolo nell’ambito dell’accertamento induttivo puro. In quanto tale esso doveva ritenersi nullo, posto che l’ufficio vi aveva fatto ricorso senza preventivamente riscontrare la complessiva inattendibilità della contabilità, così come richiede la norma.

Il motivo è infondato. L’avviso emesso nei confronti della contribuente si fondava su un accertamento bancario, ch’è metodo utilizzabile in ogni tipologia di accertamento: analitico, analitico induttivo, induttivo, sintetico, d’ufficio.

Vi è identità di vedute sul fatto che le norme relative a tale metodo di accertamento (D.P.R. n. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2; il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2) prevedono una presunzione legale di imponibilità, valida fino a prova contraria, che può essere fornita dal contribuente, non solo in sede di contraddittorio (eventuale) con l’organo accertatore, ma soprattutto in sede contenziosa.

Nel caso in esame è avvenuto che l’ufficio, sulla base degli esiti di indagini finanziarie condotte su conti e rapporti intestati a terzi, ma in presenza di elementi ritenuti sufficiente a operarne il riferimento alla società, ha operato la rettifica della dichiarazione della contribuente per l’anno 1996, incrementando l’imponibile IVA in misura pari alla sommatoria degli importi confluiti sui conti e libretti oggetto della verifica.

Si legge nella sentenza impugnata “per quanto attiene ai rapporti fra la rettifica delle dichiarazioni di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 e l’accertamento induttivo si rileva (…) che nel presente caso l’accertamento non è esorbitante rispetto ai limiti della rettifica delle dichiarazione, nella disciplina che ha ricevuto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54. La disposizioni in esame, infatti, ammette che l’esistenza di corrispettivi non dichiarati sia luogo alla rettifica parziale, che di per sè integra la dichiarazione del contribuente, senza alterarne il contenuto ed anzi prendendola a base per la determinazione della maggiore imposta dovuta. Pertanto, nella sua difesa, la contribuente impropriamente si riferisce alla disciplina dell’accertamento induttivo e dei suoi presupposti di cui all’art. 55”.

Tale passaggio della motivazione, su cui è essenzialmente fondato il motivo di ricorso in esame, non si espone ad alcuna censura.

L’accertamento bancario non incorre nei limiti previsti per l’accertamento induttivo dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55 nè, d’altra parte, qualora sia stato impiegato al fine della rettifica della dichiarazione Iva ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 (come nel caso di specie), non è configurabile una soglia oltre la quale il potere di rettifica viene meno e subentra il carattere induttivo dell’accertamento D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 55. La rettifica rimane tale qualunque sia il rapporto con l’imponibile dichiarato dal contribuente.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato ex art. 112, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. In particolare si rimprovera alla commissione tributaria regionale di non avere detto alcunchè sulla deduzione con cui la contribuente aveva lamentato che l’amministrazione non avrebbe correttamente instaurato il contraddittorio con i titolari dei conti oggetto della indagine.

Con i terzo motivo del ricorso si deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si sostiene che, nei metodi di accertamento a carattere presuntivo (come quello bancario), il contraddittorio preventivo con il contribuente ai atteggia a presupposto imprescindibile, “con la conseguenza che la sua mancata o non corretta instaurazione non può che determinare la nullità dell’atto impositivo, che, come quello per cui è causa, di tali metodi presuntivi faccia applicazione”.

I motivi, che per la loro connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono inammissibili. La ricorrente richiama il cit. del D.P.R. n. 633 del 1972, art 51, comma 3 secondo cui gi inviti di cui al precedente comma “devono essere fatti a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, fissando un termine per l’adempimento non inferiore a quindici giorni”.

Si deve però replicare che la forma della raccomandata costituisce la garanzia minima, che non esclude la possibilità di partecipare l’invito in forme più garantiste. Dal momento che la ricorrente non contesta che l’avviso ci sia stato, ma pone solo una questione delle forme che furono seguite, ne derivava l’onere a suo carico, impostogli dal principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare come gli avvisi furono fatti nel caso in esame e il termine accordato per fornire i chiarimenti e le giustificazioni. Omissioni – quelle appena rilevate – tanto più gravi tenuto conto delle precisazioni che si leggono su questo punto negli scritti difensivi depositati nel giudizio di riassunzione dall’Agenzia delle entrate e riprodotte nel controricorso: “emerge con chiarezza dall’allegato 2 del PVC del 29/10/1999 che agli intestatari dei vari conti correnti il relativo invito a fornire delucidazione è stato notificato dai militari della GdF presso il loro domicilio, unitamente a copia del tabulato contenente il riepilogo di tutte le operazioni riferibili a ciascuno di essi, fissando la data dell’audizione presso la sede del Comando della stessa GdF in una data mai inferiore a un mese (…)”.

E’ chiaro che le modalità sopra descritte delineano un iter assai più garantista per il contribuente rispetto a quelle previste dalla norma, sia sul piano della effettività della conoscenza (notificazione in mani proprie), sia sul piano del termine (trenta giorni e non quello minimo di 15). Nessun dubbio inoltre che il contenuto dell’invito riproduce esattamente quello previsto al riguardo dall’art. 51 ora in esame.

Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (conti intestati a terzi). L’aspetto investito dalla censura riguarda il fatto che i conti oggetto di indagine non erano intestati alla contribuente, ma a terzi soggetti, legati a quest’ultima da rapporti di varia tipologia, e che tuttavia la commissione tributaria regionale ritenne ugualmente riferibili alla contribuente.

La ricorrente non nega che, ai fini dell’accertamento fiscale nei riguardi di società, sia legittimo l’impiego di notizie e documenti anche relativi a conti correnti intestati a soggetti diversi, ma sottolinea come tale utilizzazione sia legittima solo allorquando “risulti provata dall’Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati”.

La regola richiamata dalla ricorrente rispecchia realmente l’orientamento in materia di questa Corte; ma è chiaro che, una volta identificato nei termini suddetti il substrato giuridico della censura, il motivo in esame incorre in una palese ragione di inammissibilità, perchè esso, sotto la veste della violazione di legge, investe in realtà la valutazione di merito compiuta dalla commissione tributaria regionale, che avrebbe ritenuto i conti riferibili alla società pur in assenza di una adeguata dimostrazione.

Con il quinto motivo si deduce insufficiente motivazione della sentenza circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. La commissione tributaria regionale, recependo la giustificazioni proposte dalla contribuente, ha ritenuto riferibili agli intestatari dei conti operazioni per importo pari a Lire 2.756.648.090, che ha detratto dai maggiori ricavi determinati dall’amministrazione finanziaria. La ricorrente non nega che i documenti prodotti giustificavano la natura personale delle operazioni nei limiti riconosciuti dalla commissione tributaria regionale, ma critica la decisione sotto il seguente diverso profilo: poichè le giustificazione fornite dalla contribuente riguardavano una cospicua parte dell’ammontare ipotizzato dall’ufficio, la commissione tributaria regionale, nel recepire quelle giustificazioni, avrebbe dovuto trarne la conseguenza che “non solo alcune singole operazioni, ma i conti e libretti esaminati fossero integralmente nella esclusiva disponibilità dei loro intestatari”.

Ma tale deduzione si traduce in una petizione di principio, cui è facile replicare che, in materia di accertamenti bancari su conti e rapporti intestati a soggetti diversi dalla società contribuente, la operatività delle relative presunzioni non implica il carattere fittizio dell’intestazione, essendo sufficiente la riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati” (Cass. 2013/16575). In questo senso la riferibilità delle operazioni è nozione compatibile con la contemporanea utilizzazione del conto per finalità personali dell’intestatario.

Ciò posto il motivo è infondato, posto che la ricorrente non ha indicato alcun elemento fattuale, fra quelli dedotti in giudizio, il cui esame avrebbe potuto giustificare una conclusione favorevole per la contribuente per la totalità degli addebiti o comunque per somma maggiore di quella riconosciuta dalla commissione tributaria regionale a favore della contribuente.

Il motivo va quindi rigettato.

Con il primo motivo del ricorso incidentale l’Agenzia dell’entrate deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 3 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. E’ oggetto di censura l’affermazione della sentenza in cui si assume non essere chiaro “se sia stato realmente osservato quanto prescritto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 3 riguardo alle modalità di invito e di richiesta agli interessati da parte dell’ufficio IVA”.

Il motivo è infondato. E’ stato già chiarito, nel momento in cui furono trattati il secondo e il terzo motivo del ricorso principale, che, sulla base del dubbio sulla regolarità degli inviti, la commissione tributaria regionale ritenne ammissibile la produzione operata dalla contribuente per giustificare le operazione, escludendo (implicitamente) la sanzione prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 4: “le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa (…)”).

Senza che sia necessario dilungarsi ulteriormente sul significato della norma ai fini della ricostruzione dei rapporto fra contribuente e amministrazione, rapporto che si vuole al principio di collaborazione, buona fede e correttezza, è sufficiente qui ricordare il principio di diritto secondo cui “la preclusione fissata dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, commi 3 e 4, non opera a carico del contribuente che non abbia ottemperato alle richieste rivoltegli nel termine assegnatogli, qualora l’amministrazione non l’abbia previamente avvertito delle conseguenze col legate a tale inottemperanza” (Cass. 2013/453).

Da ciò consegue che, al fine di censurare efficacemente la decisione della commissione tributaria regionale per avere ritenuto ammissibili quanto prodotto dal contribuente in sede giudiziale, l’Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto riprodurre (e invece non l’ha fatto) il contenuto degli inviti, per dimostrare che l’interessata fosse stato reso edotta delle conseguenze della inottemperanza.

In aggiunta a tale rilievo c’è ancora da dire che l’invito a cui si riferisce la ricorrente incidentale è l’invito che fu rivolto ai soggetti titolari dei conti e dei rapporti che l’ufficio assumeva riferibili alla società, il che introduce un ulteriore profilo di infondatezza. E’ fuori di dubbio che l’accertamento bancario sia utilizzabile, nel concorso dei presupposti, anche in ordine a conti intestati a soggetti diversi dal contribuente sottoposto a verifica; ciò non toglie, però, che il comportamento omissivo dal quale può conseguire la sanzione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 4, è pur sempre quello del contribuente, contro il quale, sulla base dei dati acquisiti con l’accertamento, sia poi emesso l’atto impositivo. In altre parole, pure nel caso in cui i dati siano stati attinti da conti di soggetti diversi, la sanzione della inutilizzabilità delle postume produzione non potrà che conseguire a un invito inviato nella debite forme al contribuente contro il quale l’amministrazione ha poi utilizzato quegli stessi dati.

Nel caso in esame, dovendo ritenersi acquisito che l’invito non fu inviato alla contribuente, viene a mancare a priori il presupposto essenziale per la possibile operatività della preclusione.

Tanto basta per giustificare il rigetto del motivo in esame, rimanendone assorbita la verifica tutti gli altri profili di possibile infondatezza evidenziati nel contro ricorso. E tuttavia vero che su questo punto, la motivazione della sentenza è inappropriata, perchè ha legato la legittimità della produzione a un fatto (l’incerta regolarità degli inviti rivolti ai titolari dei conti) da cui non poteva, in ogni caso, discenderne la decadenza ex 32 cit. in danno della società, che era il contribuente nei cui confronti si svolgeva l’accertamento.

Il rigetto del primo motivo comporta l’assorbimento del secondo motivo del ricorso incidentale, articolato in via subordinata, con il quale la ricorrente deduce l’insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione a un fatto decisivo della controversia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Invero il fatto cui si riferisce il motivo attiene pur sempre al giudizio espresso dalla commissione tributaria regionale in ordine alle modalità di invito e di richiesta agli interessati da parte dell’ufficio Iva.

PQM

rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale. Compensa integralmente le spese processuali.

Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2017

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