Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 457 del 13/01/2021

Cassazione civile sez. III, 13/01/2021, (ud. 28/10/2020, dep. 13/01/2021), n.457

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 35800-2018 proposto da:

G.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FEDERICO

CESI 21, presso lo studio dell’Avvocato CARLO TAORMINA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’Avvocato GIORGIO TAORMINA;

– ricorrente –

nonchè da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO,

che lo rappresenta e difende;

– ricorrente incidentale –

contro

B.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DI

VILLA GRAZIOLI 15, presso lo studio dell’Avvocato ROBERTO CATALANO,

rappresentata e difesa dall’Avvocato PAOLO ZAVOLI, e dall’Avvocato

Paolo TROMBETTI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2218/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 30/08/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/10/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI ANNA MARIA, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale e per l’inammissibilità di quello incidentale.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. G.S. ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 2218/18, del 30 agosto 2018, della Corte di Appello di Bologna, che, investita quale giudice del rinvio – per effetto dell’annullamento, disposto dalla sesta sezione Penale di questa Corte, con sentenza n. 5888/14, del 6 febbraio 2014, della declaratoria di non doversi procedere, agli effetti civili, pronunciata dalla stessa Corte territoriale, con sentenza n. 11093/13, del 27 aprile 2013, nei confronti di B.F., imputata di taluni reati commessi, nell’esercizio della sua funzione di giudice delegato ai fallimenti del Tribunale di Livorno, in danno dell’odierno ricorrente e del Ministero della Giustizia – rigettava la domanda risarcitoria proposta dal G. e dal menzionato Ministero.

2. In punto di fatto, il ricorrente deduce, innanzitutto, che la B. ebbe a subire un processo penale innanzi al Tribunale e, poi, alla Corte felsinei.

In particolare, ella fu chiamata a rispondere delle ipotesi di reato di cui agli artt. 81 e 323 c.p., contestatele in relazione alle funzioni svolte, in primo luogo, nelle procedure fallimentari “(OMISSIS)” e ” C.F.”, nelle quali il G. aveva assunto l’incarico di curatore. Il magistrato era stato, infatti, imputato – per quanto qui ancora di interesse – di aver procurato un vantaggio ingiusto a Co.Su. (liquidando alla stessa un importo eccessivo, quale compenso per una consulenza tecnica espletata, segnatamente, nella seconda delle indicate procedure), cagionando danno al G., oppostosi a quella liquidazione, avendone promosso, con successo, la revoca dalla curatela. A tale imputazione, poi, ne era stata affiancata un’ulteriore, formulata anch’essa in relazione ai reati di cui agli artt. 81 e 323 c.p., concernente una diversa procedura fallimentare, quella della società “(OMISSIS)” s.r.l.

In questo caso, era ipotizzata violazione della L. Fall., artt. 105 e 108, oltre che dell’art. 51 c.p.c. (in ragione della grave inimicizia che, ormai, la contrapponeva all’odierno ricorrente), facendosi carico, in particolare, alla B. sempre per quanto qui ancora di interesse – di aver promosso, pure in tale occasione, la revoca del G. dall’incarico di curatore, dopo averne respinto l’istanza tesa alla vendita all’incanto dei beni immobili dell’attivo fallimentare, stimati dal curatore di valore superiore a quindici miliardi di Lire, ordinandone, invece, la vendita ad offerte private, emettendo poi l’ordinanza di aggiudicazione al prezzo di Lire cinque miliardi.

Affermava il Tribunale bolognese – con sentenza n. 104/07, del 5 luglio 2007 – la responsabilità della B. per entrambi i reati ascritti (ed in relazione a tutte le procedure concorsuali), quantunque limitatamente ai fatti commessi in danno del G., al quale veniva riconosciuto il risarcimento del danno liquidato nella misura di Euro 20.000,00, dichiarando, invece, non doversi procedere in relazione all’accusa di abuso di ufficio a vantaggio della Co., in ragione dell’intervenuta prescrizione del reato (ed assolvendo l’imputata, circostanza qui non di interesse, per l’analoga ipotesi di reato a vantaggio di altri soggetti).

Esperito gravame dall’imputata, la Corte di Appello felsinea, in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiarava – con sentenza n. 11093/12, del 27 aprile 2013 – non doversi procedere nei confronti dell’appellante in ordine al reato continuato ascrittole, in ragione della sua intervenuta prescrizione, sancendo che l’effetto estintivo della stessa si era, ormai, esteso alla fattispecie di reato commessa in danno del G.. Il giudice di appello, inoltre, dichiarava l’inammissibilità per tardività – a dire dell’odierno ricorrente, “trincerandosi” dietro la declaratoria di estinzione, per prescrizione, dei reati ascritti all’imputata – del gravame con cui esso G. aveva contestato il “quantum debeatur”, dolendosi che lo stesso non fosse stato stimato nella richiesta misura di Euro 811.477,00 (che teneva conto non solo del mancato guadagno connesso all’omesso conferimento di altri incarichi da parte del Tribunale di appartenenza della B., ma pure del “danno morale esistenziale, personale, sociale, professionale”, derivante dal discredito subito). La Corte territoriale, inoltre, risolveva la posizione del Ministero della Giustizia con un “non liquet” puramente processuale, richiamando l’ordinanza di estromissione da giudizio già adottata dal primo giudice.

Proposto ricorso per cassazione dalla B., ai soli effetti civili, per lamentare il fatto che giudice di appello, prima di addivenire alla declaratoria di non doversi procedere, avrebbe dovuto adottare – ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2, – una pronuncia assolutoria, questa Corte accoglieva il mezzo, sebbene “nei liti di seguito indicati”. Ovvero rilevando – sul presupposto che l’accertamento di cui all’art. 129 c.p.p., comma 2, presuppone che il giudice possa compiere una “percezione “ictu oculi” dell’assenza della penale responsabilità dell’imputato – come la “motivazione della sentenza gravata” apparisse “gravemente lacunosa per avere la Corte distrettuale operato un sintetico rinvio ai “contributi accusatori” contenuti nella pronuncia di primo grado”. A tale esito, infatti, il giudice di appello era pervenuto “senza rispondere alle specifiche doglianze dell’appellante, la quale, oltre a riproporre l’eccezione di inutilizzabilità della relazione stilata dagli ispettori ministeriali, aveva censurato la prima decisione sia in ordine all’assenza di prova dell’elemento soggettivo circa l’addebito di abuso commesso in favore del consulente Co., che in ordine alla mancanza del requisito oggettivo della doppia ingiustizia e del relativo elemento soggettivo circa l’altra imputazione di abuso commesso in pregiudizio del curatore G.”.

Riassunto il giudizio dalla B., la Corte di Appello di Bologna lo accoglieva, rigettando le domande risarcitorie proposte nei suoi confronti dall’odierno ricorrente e dal Ministero della Giustizia.

3. Avverso la decisione della Corte felsinea ricorre per cassazione il G., sulla base – come detto – di tre motivi.

3.1. Con il primo motivo è denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – “omesso esame della condotta della Dott.ssa B. quale elemento decisivo della controversia evincibile dalle trascrizioni dei verbali del dibattimento di primo grado in sede penale e della relazione ministeriale”, oltre che “motivazione solo apparente della sentenza”, in violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, “con riferimento alla insussistenza del “dolo” quale elemento soggettivo del reato di abuso d’ufficio”, e ciò “in forza della ritenuta idoneità della “politica dei lauti compensi” ad escludere l’intenzionalità del fatto”, conclusione assunta “in violazione ed aperta contraddizione” con il D.P.R. 27 luglio 1988, n. 352.

Il ricorrente, in particolare, evidenzia che la Corte territoriale – dopo aver escluso sia la penale responsabilità dell’imputata in relazione all’estensione del fallimento “(OMISSIS)” a quello ” C.F.”, sia l’esistenza di elementi probatori oggettivi e rilevanti pure quanto alla sua responsabilità in merito alla nomina del consulente e al contenuto della sua relazione avrebbe deviato dai corretti principi enunciati, invece, dal giudice di prime cure, allorchè lo stesso ha ritenuto che il curatore, con la nomina, risulta investito non solo di uno status composto di obblighi, responsabilità e diritti, ma anche di un interesse personale alla conclusione del mandato, che non costituisce una mera aspettativa, bensì una pretesa legittima.

Si sottolinea, inoltre, come la condotta dell’imputata fosse connotata dalla “doppia ingiustizia” (non ravvisata, invece, dalla Corte di Appello), come confermato dalla possibilità, pure prospettata dal giudice delegato al Presidente del Tribunale, di astenersi dalle procedure che vedevano il G. come curatore. Difatti, sebbene la B. abbia dichiarato nell’interrogatorio effettuato dal Pubblico Ministero, nel corso dell’indagine a suo carico – di non aver ravvisato quelle ragioni di “grave inimicizia” con il G., tale dichiarazione si pone in contrasto, secondo il ricorrente, con quanto dalla stessa pure affermato, ovvero di essere stata vittima, da parte dello stesso, di una grave campagna denigratoria e diffamatoria, salvo, però, non essere mai stata in grado di riferire in cosa la stessa si fosse sostanziata.

Inoltre, la B., per legittimare la propria volontà di revoca del curatore, avrebbe fatto riferimento a pretesi inadempimenti dello stesso, in realtà inesistenti, oltre ad aver sottaciuto le vere ragioni del suo dissidio con il professionista.

Quanto, poi, all’abuso d’ufficio in favore della Co., il ricorrente contesta l’affermazione della Corte territoriale secondo cui l’incarico dalla stessa svolto richiese “moltissimo tempo e forse anche una proroga dei tempi concessi”, rilevando come il giudice di prime cure avesse, da un lato, qualificato lo stesso (sostanziatosi nella redazione di poche, al netto degli allegati) alla stregua di “un lavoro magari diligente”, ma tuttavia “reso in modo superficiale e burocratico”, il cui compenso, oltretutto, venne liquidato in violazione del D.P.R. n. 352 del 1988. In relazione, in particolare, a tale ultimo aspetto, il ricorrente reputa una “effimera giustificazione” quella addotta dalla B., ovvero la necessità di seguire la “politica dei lauti compensi”, e ciò perchè l’unico precedente giurisprudenziale invocato – una pronuncia della Corte di Appello di Roma – risulta contraddetta dalla giurisprudenza di legittimità (è citata Cass. Sez. 1, sent. 26 giugno 1995, n. 7214, Rv. 493102-01). Altrettanto sarebbe a dirsi dell’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui la prova della intenzionalità della condotta “abusiva” del magistrato si desumerebbe dalla constatazione che la “perseveranza a mantenere la liquidazione del compenso” liquidato alla Co. “contrasta con l’invito della stessa Dott.ssa B. rivolto al curatore fallimentare a proporre reclamo al collegio”, giacchè tale circostanza, semmai, “presuppone la volontà di tenere fermo il provvedimento” e, dunque, conferma l’intenzionalità di quel contegno, donde, allora, la natura “davvero contraddittoria” della motivazione e il suo carattere meramente apparente.

3.2. Con il secondo motivo è denunciata – sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 116 c.p.c., in relazione agli artt. 2043 e 2059 c.c., nonchè in relazione all’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia sull’ammissibilità della prova costituita dalla relazione ministeriale e della valutazione delle sue risultanze.

Si censura la sentenza impugnata in quanto, pur avendo la Corte territoriale posto la questione della utilizzabilità della relazione ministeriale, quanto alla valutazione della condotta del giudice B., essa ha, poi, omesso di esaminarla. Un dato che viene ritenuto “sconcertante”, se si considera che siffatta relazione “aveva portato alla luce la fitta trama di rapporti, amichevoli ed ostili, che il magistrato aveva instaurato all’interno del Tribunale livornese”, assumendo, di volta in volta, “atteggiamenti più aperti ( Co.), ovvero più intransigenti ( G.)”. Di qui, pertanto, la dedotta violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 116 c.p.c., nella parte in cui quest’ultimo “prevede l’obbligo per il giudice di valutare le prove secondo il proprio prudente apprezzamento, senza però concedergli il potere di omettere tale valutazione”.

3.3. Il terzo motivo denuncia – nuovamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 116 c.p.c., in relazione agli artt. 2043 e 2059 c.c., con riferimento sia all’accertamento del requisito della “doppia ingiustizia” quale elemento atto ad integrare la fattispecie di reato di cui all’art. 323 c.p., sia “al risarcimento dei danni patiti da G.S.”.

Il ricorrente si duole della mancata ammissione della prova per testi, come articolata nella comparsa di costituzione in appello (ed i cui capitoli sono stati, peraltro, integralmente trascritti nel presente ricorso). Rileva, sul punto, come la Corte bolognese abbia omesso ogni valutazione dell’entità dei danni lamentati da esso G., soffermandosi solo sul profilo del cd. “an debeatur”, escludendone la sussistenza. In realtà, però, il capitolato articolato in sede di riassunzione, avrebbe consentito di ricostruire anche l’antigiuridicità della condotta della B., oltre che l’entità del danno ingiusto, consentendone la quantificazione nella misura di Euro 811.477,00

4. Ha proposto ricorso incidentale, avverso la stessa sentenza, il Ministero della Giustizia, sulla base di un unico motivo.

Esso denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – nullità della sentenza per violazione dell’art. 116 c.p.c., comma 1, “per omesso esame ed assenza di valutazione di elementi istruttori imprescindibili per la valutazione del giudizio”.

Rileva il Ministero come “il sintagma “prudente apprezzamento””, presente nel testo della norma citata, non debba essere “confuso con quello di “libero convincimento”, sicchè la norma in esame attribuirebbe al giudice una discrezionalità solo relativa, e non assoluta, nell’apprezzamento della prova, l’esercizio della quale deve poter essere sottoposta a controlli nei successivi di gradi di giudizio, in forza della fondamentale garanzia costituita dall’obbligo di motivazione previsto dall’art. 111 Cost.

Nel caso che occupa, evidente sarebbe la violazione dell’art. 116 c.p.c., giacche la Corte territoriale ha omesso completamente di esaminare la relazione ministeriale che costituiva uno degli elementi cardine della istruttoria dibattimentale compiuta. Viene, pertanto, richiamato il principio secondo cui l’omesso esame di elementi istruttori integra una nullità della sentenza, per vizio processuale, denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) (è citata Cass. Sez. 2, ord. 14 marzo 2018, n. 6231).

5. Ha resistito, con controricorso, alle avversarie impugnazioni la B., chiedendo la declaratoria di inammissibilità di entrambe.

In relazione, in particolare, al ricorso del G., la B. riferisce di esserne venuta a conoscenza soltanto quando, in data 27 dicembre 2018, l’Avvocatura Generale dello Stato le notificava a mezzo “PEC”, presso il suo procuratore costituito, il proprio controricorso, contenente ricorso incidentale. Assume, infatti, la B. di non aver mai ricevuto la notificazione del ricorso principale, rilevando essere onere del ricorrente dimostrare il perfezionamento dell’incombente.

Deduce, inoltre, che l’unica evenienza in grado di spiegare l’accaduto potrebbe essere che la notificazione sia stata effettuata senza tenere conto dell’avvenuto mutamento di indirizzo del proprio difensore e domiciliatario, avvocato Paolo Zavoli, da (OMISSIS), e ciò sebbene tale circostanza fosse nota al G., risultando il nuovo domicilio dall’intestazione della comparsa conclusionale e dalla memoria di replica, nonchè, soprattutto, dalla notificazione a mezzo “PEC” della sentenza oggi impugnata.

Pertanto, qualora il ricorso del G. le fosse stato, effettivamente, notificato presso il precedente indirizzo del domiciliatario, ricorrerebbe un’ipotesi di errata notificazione per causa imputabile al notificante, che escluderebbe la possibilità per lo stesso di riattivare – peraltro, comunque, sempre entro un tempo ragionevole – il procedimento notificatorio (è citata Cass. Sez. Un., sent. 15 luglio 2016, n. 14594, e con essa altre successive pronunce di questa Corte).

Sussisterebbe, anzi, una vera e propria ipotesi di inesistenza della notificazione, idonea a travolgere anche il ricorso incidentale dell’Avvocatura dello Stato, giacchè notificato oltre sessanta giorni dopo la notificazione della sentenza impugnata. In ogni caso, poi, il ricorso incidentale dovrebbe considerarsi inammissibile, per mancato rispetto del principio di autosufficienza, ovvero, comunque, inefficace, ai sensi dell’art. 334 c.p.c.

6. Il ricorrente ha depositato memoria, insistendo nelle proprie censure, nonchè replicando all’eccezione di inammissibilità, per tardività, della proposta impugnazione.

Sul punto, in particolare, egli assume la scusabilità del proprio errore (essendo il conferimento del mandato defensionale avvenuto solo dopo la pronuncia della sentenza impugnata, visto che il G. nelle fasi di merito era stato assistito da altro difensore), nonchè la tempestiva riattivazione del procedimento notificatorio, una volta avvedutosi dell’errore.

7. Anche la controricorrente ha presentato memoria, insistendo nelle proprie eccezioni e difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

8. Preliminarmente, va disposta la riunione delle impugnazioni, che nella specie è obbligatoria, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto esse investono lo stesso provvedimento (Cass. Sez. Un., sent. 23 gennaio 2013, n. 1521, Rv. 624792-01; in senso conforme, tra le altre, Cass. Sez. 5, sent. 30 ottobre 2018, n. 27550, Rv. 651065-01).

9. Sempre in via preliminare, va disattesa l’eccezione di intempestività del ricorso principale.

9.1. E’ noto, come del resto rammentano anche le parti interessate, che le Sezioni Unite di questa Corte – con tre arresti resi nel corso di un decennio circa – hanno affrontato il tema relativo alla rimessione in termini della parte che sia incorsa, incolpevolmente, in un errore nella notificazione del proprio atto di impugnazione, eseguita presso il domicilio del difensore di controparte.

Presupposto di tale, triplice, intervento è costituito dalla presa d’atto che, nell’ordinamento processuale civile, è presente un principio di fondamento costituzionale, ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost., “secondo il quale – relativamente alla funzione che sul piano processuale, cioè come atto della sequenza del processo, la notificazione è destinata a svolgere per il notificante – il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il medesimo deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario” fermo, naturalmente, restando “che la produzione degli effetti che alla notificazione stessa sono ricollegati è condizionata al perfezionamento del procedimento notificatorio anche per il destinatario e che, ove a favore o a carico di costui la legge preveda termini o adempimenti o comunque conseguenze dalla notificazione decorrenti, gli stessi debbano comunque calcolarsi o correlarsi al momento in cui la notifica si perfeziona nei suoi confronti” (così, in particolare, Corte Cost., ord. 13 gennaio 2004, n. 28; nello stesso senso, peraltro, già Corte Cost., sent. 20 novembre 2002, n. 477 e, poi, Corte Cost., ord. 8 marzo 2004, n. 97).

Tale presa d’atto, pertanto, ha portato il Supremo collegio ad attenuare l’indirizzo giurisprudenziale “univoco e consolidato”, fino ad allora seguito, “secondo il quale l’esito negativo della notifica dell’impugnazione per il mutamento dei domicilio del procuratore presso il quale è stata richiesta, non produce alcun effetto”, essendo, difatti, sempre e comunque, “a carico del notificante il rischio che le nuove modalità da adottare per la notifica non consentano il rispetto dei termini perentori stabiliti per l’impugnazione dagli artt. 325 e 327 c.p.c.” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 18 febbraio 2009, n. 3818, Rv. 607092-01). La necessità di operare, per contro, un’interpretazione conforme a Costituzione, ha portato le Sezioni Unite a mitigare il “tradizionale orientamento giurisprudenziale caratterizzato, salvo rare eccezioni, da un particolare rigore nel negare che, in difetto di un’espressa previsione normativa, le finalità di celerità del processo e di certezza delle situazioni giuridiche perseguite dal legislatore con la fissazione di termini perentori per l’impugnazione consentano di attribuire rilievo a situazioni oggettive o soggettive verificatesi medio tempore che ne abbiano comportato l’inutile decorso” (cfr., nuovamente in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 3818 del 2009, cit.).

In particolare, le Sezioni Unite si sono adoperate per l’emersione di quegli “specifici casi nei quali l’omessa notifica presso il domicilio effettivo del procuratore” possa ritenersi “riconducibile a caso fortuito o forza maggiore”, sicchè “la parte, pur se successivamente alla scadenza dei termini”, risulti avere “diligentemente” riattivato o chiesto di riattivare il procedimento notificatorio. Tali casi sono stati individuati, per l’esattezza, allorchè “le norme professionali” prevedono “l’obbligo del procuratore di eleggere un domicilio, e comunicarne i mutamenti”, ovvero “nel caso di svolgimento di attività al di fuori della circoscrizione di assegnazione (cfr. R.D. n. 37 del 1934, n. 82)”, giacchè “la ratio della disposizione, costituita dall’adeguatezza delle annotazioni nell’albo professionale a soddisfare in ambito locale le esigenze processuali di conoscenza del domicilio del procuratore, esclude che, ove il procuratore abbia dichiarato all’atto della costituzione un proprio domicilio, la mancata comunicazione del mutamento di esso possa contrastare con i doveri di lealtà e probità imposti alle parti ed ai loro difensori, tenuti comunque, considerata la non imprevedibilità del mutamento il relazione alla durata dei processi e delle loro fasi, a fare riferimento al domicilio effettivo risultante dall’albo professionale” (così, ancora una volta in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 3818 del 2009, cit.).

Tali rilievi, pertanto, hanno condotto, in particolare, all’enunciazione del principio secondo cui “l’impugnazione presso il procuratore costituito, e/o domiciliatario della parte, per soddisfare gli oneri imposti dall’art. 330 c.p.c., va effettuata nel domicilio da lui eletto nel giudizio, se esercente l’ufficio in un circondario diverso da quello di assegnazione, o, altrimenti, nel suo domicilio effettivo, previo riscontro dell’albo professionale, e, nel caso di esito negativo della notifica richiesta in detti luoghi non imputabile al notificante, il procedimento notificatorio può essere riattivato e concluso, anche dopo il decorso dei relativi termini” (ancora una volta, Cass. Sez. Un., sent. n. 3818 del 2009, cit.), con l’ulteriore precisazione, però, che tale riattivazione – a differenza di quanto in origine affermato dalle Sezioni Unite (peraltro, con un mero “obiter”), ovvero che essa dovesse “essere promossa mediante istanza del giudice ad quem di fissazione di un termine perentorio per il completamento della notifica” – può avvenire nell’ambito della stessa procedura notificatoria originata dalla “iniziale richiesta di notificazione, nel quadro della scissione dei momenti di realizzazione della notificazione per il notificante e il destinatario, ai fini del rispetto di termini perentori da parte del primo” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 24 luglio 2009, n. 17352, Rv. 609264-01).

Soluzione, quest’ultima, innanzitutto valutata come “congrua con la stessa natura dello strumento giuridico a cui si fa riferimento per giustificare la retrodatazione relativa degli effetti della notificazione”, vale a dire “la scissione (a taluni fini) degli effetti” della stessa “nei confronti dell’istante e del destinatario, valorizzando, rispettivamente, la data iniziale e quella di perfezionamento del procedimento”. Tale esito, inoltre, è stato ritenuto imposto dalla “esigenza di rispettare la direttiva costituzionale sul giusto processo, secondo cui la legge ne assicura la ragionevole durata (art. 111 Cost., comma 2), essendo evidente che la necessità di una previa costituzione in giudizio per la richiesta di un provvedimento giudiziale sulla rinnovazione della notificazione comporta un rilevante allungamento dei tempi del giudizio, oltre che un appesantimento delle procedure” (così, sempre in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 17352 del 2009, cit.).

Infine, le Sezioni Unite – con il terzo ed ultimo degli interventi ai quali si accennava in premessa – hanno precisato come “dai sistema sia anche desumibile un limite massimo del tempo necessario per riprendere e completare il processo notificatorio relativo alle impugnazioni, una volta avuta notizia dell’esito negativo della prima richiesta” di notificazione, ritenendo che tale termine vada “fissato in misura pari alla metà del tempo indicato per ciascun tipo di atto di impugnazione dall’art. 325 c.p.c.”, e, comunque, sempre fatta salva la ricorrenza di “circostanze eccezionali” che ne possano consentire il superamento, purchè delle stesse “sia data prova rigorosa” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 15 luglio 2016, n. 14594, Rv. 640441-01).

9.2. Orbene, se è vero che le Sezioni Unite di questa Corte, in ciascuno dei tre arresti appena indicati, hanno ravvisato quale caso di incolpevole ignoranza dell’avvenuto mutamento del domicilio del procuratore (destinatario della notificazione) quello che ha interessato difensori esercenti l’attività professionale in luogo diverso dalla circoscrizione di assegnazione, e in relazione al domicilio dagli stessi eletto ai sensi del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82 reputa questo collegio che a detta fattispecie vada equiparata quella oggetto del presente giudizio, per le ragioni di seguito indicate.

Nel caso che occupa, infatti, il difensore dell’odierno ricorrente (ovvero, colui che ha provveduto alla notificazione dell’atto di impugnazione) non risulta nè aver espletato attività defensionale a favore dello stesso nei precedenti gradi di merito, nè essere iscritto all’albo professionale del luogo ove hanno sede gli uffici giudiziari innanzi ai quali essi sono stati celebrati.

Avuto, dunque, riguardo, in particolare, alla prima di tali circostanze, deve rilevarsi che l’avvenuto trasferimento, in altro luogo sempre della città di Bologna, dello studio del difensore di parte convenuta (trasferimento non risultante dalla sentenza oggi impugnata, che nella intestazione si è limitata ad indicare il solo nominativo del difensore, ma non pure il suo recapito professionale, il mutamento del quale, oltretutto, non era stato specificamente comunicato nel corso del giudizio di appello), non poteva, pertanto, essere noto al legale dell’attore/appellato in forza di atti – la comparsa conclusionale e la memoria di replica, nonchè la notificazione a mezzo “PEC” della sentenza resa dalla Corte felsinea – rispetto ai quali il medesimo è rimasto estraneo. Siffatta evenienza, di per sè non sufficiente ad integrare l’ipotesi del “caso fortuito” (idonea, come visto, a rendere incolpevole la mancata conoscenza del mutamento dello studio professionale del difensore destinatario della notificazione dell’atto di impugnazione), assume, tuttavia, rilevanza in tal senso, alla luce dell’ulteriore dato di cui si diceva. Va considerato, infatti, che il nuovo – legale dell’odierno ricorrente risulta, come detto, iscritto nell’albo professionale di un luogo non rientrante della circoscrizione di appartenenza degli uffici giudiziari innanzi ai quali si svolsero il primo e secondo grado del presente giudizio. Ne consegue che, anche nel caso che qui occupa – analogamente a quanto avviene nell’ipotesi delle notifiche al procuratore esercente “extra districutm”, nella quale non è onere del notificante di sincerarsi di eventuali modifiche del domicilio (in quel caso eletto “ex /ege”) del difensore – non può invocarsi “l’adeguatezza delle annotazioni nell’albo professionale a soddisfare in ambito locale le esigenze processuali di conoscenza del domicilio del procuratore” (Cass. Sez. Un., sent. n. 3818 del 2009, cit.). E ciò in quanto è solo in tale ristretto ambito, quello “locale” appunto, che per effetto delle risultanze del sistema pubblicitario “de quo” – stando alle indicazioni delle Sezioni Unite – “all’onere di verificare anteriormente alla notifica dell’impugnazione presso l’albo professionale il domicilio del procuratore presso il quale notificare l’impugnazione corrisponde l’assunzione da parte del notificante del rischio dell’esito negativo della notifica richiesta in un domicilio diverso da quello effettivo” (Cass. Sez. Un., sent. n. 3818 del 2009, cit.).

D’altra parte, l’individuazione di un’ipotesi ulteriore – per analogia di “ratio” con quella già identificata dalle Sezioni Unite – in cui la mancata conoscenza del mutamento del domicilio del procuratore del difensore, destinatario della notificazione dell’impugnazione, non può ritenersi “colpevole”, appare operazione ermeneutica non preclusa in tale sede, o meglio non suscettibile di richiedere l’assunzione di iniziativa ai sensi dell’art. 376 cp.c., comma 3.

Difatti, è già stato sottolineato da questa Corte come il principio che attribuisce rilievo, sia pure eccezionalmente, al “caso fortuito” nell’errore nella notificazione dell’atto di impugnazione, si pone “in linea con le esigenze di effettività della tutela del diritto di azione”, corrispondendo, del resto, “ad una linea evolutiva dell’ordinamento, resa manifesta dalla generalizzazione del principio della rimessione in termini, di cui all’art. 153 cpv. c.p.c. (come aggiunto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 19), proprio allorquando la violazione del termine perentorio sia dipesa da causa non imputabile”, fermo sempre restando, beninteso, che “la valutazione di quest’ultima dovrà essere particolarmente rigorosa, per non snaturare il regime della perentorietà e non comprimere oltremodo il diritto delle controparti al rispetto delle regole processuali assistite dalla grave sanzione della decadenza” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 19 novembre 2014, n. 24641, Rv. 633523-01).

Che poi nel caso di specie, per concludere sul punto, il legale del ricorrente G. abbia anche tempestivamente riattivato il procedimento notificatorio (rispettando, così, l’altra condizione prescritta dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite sopra illustrata) è conclusione che emerge dall’esame degli atti di causa. Infatti, tra la prima notificazione non andata a buon fine (ed avviata il 23 novembre 2016), e quella successiva, viceversa perfezionatasi presso l’effettivo nuovo domicilio del legale della B. (il successivo 13 dicembre), risultano trascorsi meno di trenta giorni, con l’osservanza, così, del termine necessario a tale scopo, e pari alla metà del tempo sessanta giorni – indicato per la notificazione del ricorso per cassazione dall’art. 325 c.p.c.

10. Infine, sempre in via preliminare, va disattesa pure l’eccezione, formulata dalla controcorrente, di inammissibilità del ricorso incidentale del Ministero, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3).

10.1. Premesso, invero, che il controricorso recante impugnazione incidentale deve anch’esso soddisfare il requisito di cui alla norma suddetta (da ultimo, Cass. Sez. 5, ord. 17 gennaio 2019, n. 1150, Rv. 652710-01), resta inteso che essa, “nel prescrivere che il ricorso per cassazione deve essere corredato dall’esposizione “sommaria” dei fatti di causa, implica che la stessa deve contenere il necessario e non il superfluo” (Cass. Sez. 1, sent. 27 ottobre 2016, n. 21750, Rv. 642634-01), condizione soddisfatta nel caso di specie, visto che il ricorso incidentale del Ministero reca una ricostruzione sintetica, ma idonea allo scopo di renderla conoscibile in tutti i suoi sviluppi, della vicenda per cui è causa, occorrendo qui ribadire che “il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità al dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva, dovendo il ricorrente selezionare i profili di fatto e di diritto della vicenda “sub iudice” posti a fondamento delle doglianze proposte in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.” (da ultimo, Cass. sez. 5, sent. 30 aprile 2020, n. 8425, Rv. 65819601).

11. Ciò detto, entrambi i ricorsi vanno accolti, per quanto di ragione.

11.1. L’iniziativa impugnatoria del ricorrente principale investe la decisione della Corte territoriale, sotto vari e concomitanti profili, nella parte in cui ha escluso la possibilità di ritenere illecito, ai sensi degli artt. 2043 e 323 c.p., il contegno tenuto dalla B. in danno del G..

In particolare, sarebbero mancati, nella specie, secondo la sentenza impugnata, il requisito oggettivo costituito “dalla doppia e autonoma ingiustizia della condotta” e quello soggettivo dell’intenzionalità del dolo.

Difatti, quanto, innanzitutto, alla disposta liquidazione di un compenso in favore della consulente Co. (a dispetto dell’opposizione manifestata dal curatore G.) pari al doppio della misura massima liquidabile, la Corte territoriale ha dato rilievo al fatto che la stessa Dott.ssa B. ha dichiarato di seguire quella che il giudice di prime cure ha definito come “politica dei lauti compensi”, ovvero di “liquidare sempre notule vicine al massimo, perchè non dando molti incarichi ai professionisti, voleva ricompensarli, perchè certuni lavoravano solo per l’ufficio”. Ciò, in particolare, escluderebbe l’esistenza del dolo intenzionale, proprio del reato di abuso di ufficio, “perchè denota” – secondo la Corte felsinea – “un atteggiamento generale nei confronti della platea delle diverse figure professionali normalmente coinvolte nelle procedure fallimentari, che mal si concilia con l’intenzionalità che deve caratterizzare l’elemento soggettivo del reato contestato”.

Ad analoga conclusione la sentenza impugnata è pervenuta per la disposta revoca del curatore fallimentare dalle procedure in cui era stato incaricato, essendosi sottolineato che la stessa, nella specie, costituiva “atto discrezionale del Tribunale”, visto che ai sensi del previgente testo – ovvero, quello anteriore alle modifiche apportate dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 20, comma 1, – della L. Fall., art. 23 (testo applicabile “ratione temporis” al presente caso), tale provvedimento prescindeva dalla sussistenza di “giustificati motivi”. La disposta revoca, inoltre, sarebbe stata del tutto conforme agli interessi della procedura, dato che la situazione di aspra conflittualità tra il giudice delegato e il curatore “aveva fatto venire meno i rapporti di fiducia tra i medesimi”. D’altra parte, ad escludere, nuovamente, “la rappresentazione dell’ingiustizia del danno e la richiesta intenzionalità” della condotta abusiva, varrebbe la circostanza che la revoca fu “una decisione collegiale adottata nel rispetto di tutte le garanzie previste a tutela degli interessi del curatore” (oltre che “dei creditori, del fallito e della stessa procedura concorsuale”), come confermerebbe in maniera “significativa” la circostanza della “mancata violazione dell’art. 51 c.p.c.”, quantunque l’inosservanza di tale norma fosse richiamata nei capi di imputazione, dal momento che ad essa, sotto il profilo della “grave inimicizia con il Curatore G.”, non si intese fare alcun riferimento “nemmeno nel procedimento per la revoca del curatore”.

Orbene, alle censure che investono tali affermazioni, il ricorrente principale affianca anche quella – che è, peraltro, l’unica formulata pure dal ricorrente incidentale – circa la mancata, immotivata, utilizzazione, proprio ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’illecito contestato al giudice B., della relazione redatta dell’Ispettorato Generale del Ministero della Giustizia.

11.2. Orbene, tali censure sono – come detto – fondate, nei termini di seguito precisati, dovendo in particolare ravvisarsi sia la falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. (in relazione all’art. 323 c.p.), per effetto anche della violazione del D.P.R. 27 luglio 1988, n. 352 e dell’art. 51 c.p.c., sia un’ipotesi di difetto di motivazione, in merito alla questione della “utilizzabilità” della relazione ministeriale.

11.2.1. A tale conclusione deve giungersi, innanzitutto, muovendo dalla premessa che l’onere della specificità del ricorso, ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), se richiede – sulla base di quanto chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte – che l’atto di impugnazione debba recare “i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano”, non va, tuttavia, “inteso quale assoluta necessità di formale ed esatta indicazione dell’ipotesi, tra quelle elencate nell’art. 360 c.p.c., comma 1, cui si ritenga di ascrivere il vizio, nè di precisa individuazione degli articoli, codicistici o di altri testi normativi (nei casi di deduzione di violazione o falsa applicazione di norme sostanziali o processuali). Esso comporta, invece, solo “l’esigenza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che consentano al giudice di legittimità di individuare la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo d’impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivoca mente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 24 luglio 2013, n. 17931, Rv. 627268-01).

Tanto premesso, ovvero avuto riguardo, per l’appunto, alle “ragioni per le quali la censura sia stata formulata” e “al tenore della pronunzia caducatoria richiesta”, risulta evidente che ciò di cui si duole il ricorrente principale è, innanzitutto, un vizio di sussunzione, consistito nell’avere la Corte territoriale escluso che la condotta della Dott.ssa B. potesse considerarsi illecita, ai sensi del combinato disposto dell’art. 2043 c.c. e art. 323 c.p..

Invero, come ha ribadito ancora di recente questa Corte, il vizio di sussunzione è ipotizzabile non solo “quando il giudice di merito” – dopo avere individuato e ricostruito, “sulla base delle allegazioni e delle prove offerte dalle parti e comunque all’esito dello svolgimento dell’istruzione cui ha proceduto, la “quaestio facti”, cioè i termini ed il modo di essere della c.d. fattispecie concreta dedotta in giudizio” – procede “a ricondurre quest’ultima ad una fattispecie giuridica astratta piuttosto che ad un’altra cui sarebbe in realtà riconducibile”, ma anche quando “si rifiuta di ricondurla ad una certa fattispecie giuridica astratta cui sarebbe stata riconducibile” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 agosto 2019, n. 21772, Rv. 655084-01).

Pertanto, “la valutazione così effettuata dal giudice di merito e la relativa motivazione, non inerendo più all’attività di ricostruzione della “quaestio facti” e, dunque, all’apprezzamento dei fatti storici in funzione di essa, bensì all’attività di qualificazione “in iure” della “quaestio” per come ricostruita, risulta espressione di un vero e proprio giudizio normativo”, sicchè “il relativo ragionamento” operato dal giudice di merito, “connotandosi come ragionamento giuridico (espressione del momento terminale del broccardo “da mihi factum dabo tibi ius”) è controllabile e deve essere controllato dalla Corte di Cassazione nell’ambito del paradigma del n. 3) dell’art. 360 c.p.c.” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, ord. n. 21772 del 2019, cit.).

Si tratta di affermazione, questa, assurta ormai al rango di vero e proprio “diritto vivente”, essendo costante e pacifico nella giurisprudenza di questa Corte – anche al suo più elevato livello nomofilattico – il principio secondo cui “il controllo di legittimità non si esaurisce in una verifica di correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva della norma, ma è esteso alla sussunzione del fatto, accertato dal giudice di merito, nell’ipotesi normativa” (così, Cass. Sez. Un., sent. 18 gennaio 2001, n. 5, Rv. 543247-01; in senso conforme Cass. Sez. Lav., sent. 16 agosto 2004, n. 15968, Rv. 575757-01; Cass. Sez. Lav., sent. 12 maggio 2006, n. 11037, Rv. 58905901; Cass. Sez. 3, sent. 28 novembre 2007, n. 24756, Rv. 600470-01, oltre a Cass. Sez. 3, sent. n. 21772 del 2019, cit.).

11.2.1.1. Orbene, nel caso che occupa, il rifiuto della Corte felsinea di ricondurre la fattispecie concreta sottoposta al suo esame alla previsione di cui all’art. 2043 c.c. è, innanzitutto, il risultato dell’errore consistito nell’intendere l’elemento soggettivo del dolo non secondo il paradigma di tale norma, bensì dell’art. 323 c.p..

Questa Corte, invero, ha di recente osservato che, nell’ipotesi di cui all’art. 622 c.p.p. (che è, appunto, quella che quì occupa), “il giudizio civile di responsabilità, in quanto completamente affrancato dal giudizio penale che si è celebrato in parallelo e che non è in grado di interferire con il giudizio civile di responsabilità da fatto illecito, avviato in sede penale e traslato in sede civile, segue le regole sue proprie, diverse da quelle penali in tema di nesso di causalità, dell’elemento soggettivo e di valutazione dei danni da risarcire, anche a prescindere dalle contrarie indicazioni eventualmente contenute nella sentenza penale di rinvio” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 15 ottobre 2019, n. 25918, Rv. 655377-02).

Poichè tale autonomia valutativa opera “anche sul piano dell’elemento soggettivo dell’illecito”, ne consegue che “ove l’azione civile sia stata esercitata in un processo penale per un reato doloso e la legge penale non preveda espressamente la punibilità del fatto anche a titolo di colpa”, in tali ipotesi, “nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p., può essere fatto valere il (e il giudice può accogliere la domanda sulla base del) diverso elemento soggettivo della colpa in relazione all’art. 2043 c.c.”, essendo esso “perfettamente fungibile con quello del dolo nell’illecito civile, a differenza che per i delitti (art. 42 c.p.)” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 25918 del 2019, cit., che richiama Cass. Sez. 3, sent. 12 giugno 2019, n. 15859, Rv. 654290-01).

Tali affermazioni, che evidenziano l’autonomia del giudizio civile di danno da quello penale che ha costituito occasione del suo radicamento, applicate al caso che qui occupa comportano, dunque, che il carattere doloso del contegno della B. andava valutato alla stregua della nozione di “fatto doloso”, ricavabile dall’art. 2043 c.c., e non a quella del delitto contemplato dall’art. 323 c.p..

Ricorrendo, invero, l’ipotesi di cui all’art. 622 c.p.p., si assiste alla “definitiva ed integrale translatio iudicii dinanzi al giudice civile, con la conseguenza che rimane del tutto estranea all’assetto del giudizio di rinvio la possibilità di applicazione di criteri e regole probatorie, processuali e sostanziali, tipiche della fase penale esauritasi a seguito della pronuncia della Cassazione”. Difatti, “la funzione di tale pronuncia, al di là della restituzione dell’azione civile all’organo giudiziario a cui essa naturaliter appartiene, è limitata a quella di operare un trasferimento della competenza funzionale dal giudice penale a quello civile, essendo propriamente rimessa in discussione la res in iudicium deducta, nella specie costituita da una situazione soggettiva ed oggettiva del tutto autonoma (il fatto illecito) rispetto a quella posta a fondamento della doverosa comminatoria della sanzione penale (il reato), attesa la limitata condivisione, tra l’interesse civilistico e quello penalistico, del solo punto in comune del “fatto” (e non della sua qualificazione), quale presupposto del diritto al risarcimento, da un lato, e del dovere di punire, dall’altro” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 15859 del 2019, cit.).

Da quanto precede, dunque, già emerge l’errore commesso dalla sentenza impugnata. Essa, infatti, ha compiuto la verifica in ordine alla sussistenza del dolo, nel comportamento della Dott.ssa B., interrogandosi – senza che ciò fosse, invero, necessario – sulla “intenzionalità” della volontà della stessa tanto di favorire la consulente Co. attraverso la liquidazione di un compenso non dovutole (atto al quale il G. si era, invano, opposto), quanto di adoperarsi, in quella procedura ed in altra, per la revoca della curatela fallimentare conferita all’odierne ricorrente. Un accertamento, come si notava, non necessario, occorrendo solo la verifica della “volontarietà” di tale condotte, conformemente all’atteggiarsi del “fatto doloso” (come espressione di dolo semplicemente generico) nella Generalklausel di cui all’art. 2043 c.c.

Collocati, pertanto, in questa prospettiva, colgono nel segno i rilievi del ricorrente principale circa la violazione del D.P.R. n. 352 del 1988 e dell’art. 51 c.p.c.

11.2.1.2. Difatti, non idoneo ad escludere la natura meramente “dolosa” del comportamento assunto della B., nella liquidazione dei compensi in favore della Co., è il rilievo della Corte territoriale secondo cui il magistrato era solito “liquidare sempre notule vicine al massimo, perchè non dando molti incarichi ai professionisti, voleva ricompensarli, perchè certuni lavoravano solo per l’ufficio”.

Sul punto, occorre rammentare che, secondo questa Corte, quello di consulente tecnico, e più in generale di ausiliare del giudice, è un “munus publicum”, sicchè ai problemi “della mancanza di uniformità dei criteri adottati per la liquidazione dei compensi per le prestazioni del consulente tecnico di ufficio, della inadeguatezza dei compensi stessi, del loro divario con i compensi previsti per analoghe prestazioni dalle tariffe professionali”, non può che ovviarsi – proprio perchè “l’espletamento dell’incarico peritale costituisce munus publicum non assimilabile all’esercizio della libera professione” – se non attraverso “il ricorso al loro raddoppio, espressamente previsto” dalla legge, ovvero, nel sistema già disciplinato in passato dalla L. 8 luglio 1980, n. 319, dall’art. 5 della stessa (cfr. Cass. Sez. 2, sent. 6 agosto 1990, n. 7905, Rv. 468597-01).

La cd. “politica dei lauti compensi” osservata dal giudice B., come correttamente rileva il ricorrente principale, si pone(va) in contrasto con il D.P.R. n. 352 del 1988, se è vero che l’espletamento degli incarichi di perito e consulente risulta “non assimilabile all’esercizio della libera professione, onde gli specifici criteri di liquidazione dei compensi per tali incarichi trovano giustificazione appunto nella loro natura ausiliaria rispetto all’esercizio della giurisdizione”, sicchè “il quadro normativo di riferimento”, ovviamente, “rimane delimitato dalle regole proprie della materia de qua, non essendo invocabili disposizioni (come l’art. 2233 c.c.) dettate per disciplinare rapporti di lavoro autonomo non riconducibili all’attività espletata nell’assolvimento dei doveri propri del perito o del consulente di ufficio” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 26 giugno 1995, n. 7214, Rv. 493102-01; in senso conforme, Cass. Sez. 2, sent. 12 giugno 2001, n. 7915, Rv. 547415-01; Cass. Sez. 2, sent. 3 agosto 2001, n. 10745, Rv. 548786-01).

Ne consegue, pertanto, che una generalizzata ed immotivata trasgressione del citato D.P.R. n. 352 del 1988 non può certo ritenersi indice, come affermato erroneamente dalla Corte territoriale, dell’assenza di volontà del favorire (anche) la Co..

11.2.1.3. Analogamente, ad escludere la sussistenza del dolo generico, nel contegno della Dott.ssa B. consistito nel promuovere la revoca del G. dalle curatele fallimentari delle quali era stato incaricato, non possono valere le considerazioni svolte nella sentenza impugnata, che integrano, invece, violazione dell’art. 51 c.p.c.

Invero, la scelta del giudice delegato di non astenersi dal partecipare all’udienza fissata per la decisione sulla revoca del curatore – e ciò sebbene la proposta di revoca trovasse origine proprio nell’asperrima conflittualità che, a dire del magistrato, derivava da una (supposta) grave campagna denigratoria e diffamatoria dal G. ordita ai suoi danni – assumendo, per giunta, in tale procedura pure il ruolo di relatore, non può ritenersi lecita, ai fini e agli effetti di cui all’art. 2043 c.c. (in relazione all’art. 323 c.p.), per il sol fatto che il provvedimento di revoca fu frutto, come da previsione di legge, “di una decisione collegiale”, adottata “nel rispetto di tutte le garanzie e delle norme” di legge.

Difatti, la Corte territoriale non ha considerato che – anche in forza del riconoscimento, ormai, di un vero e proprio “diritto soggettivo al giudice imparziale”, atteso che “l’imparzialità del giudice”, costituisce “non soltanto un interesse generale dell’amministrazione della giustizia, ma anche, se non soprattutto, un diritto soggettivo della parte (e ciò alla luce sia dell’art. 6 Cedu, sia del nuovo testo dell’art. 111 Cost.)” (così Cass. Sez. Un., ord. interl. 22 luglio 2014, n. 16628, non massimata) – si è venuta progressivamente enucleando, nella giurisprudenza di merito come di legittimità, relativa alla responsabilità disciplinare del magistrato per l’illecito di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, comma 1, lett. c), (norma che sanziona “la consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge”), un orientamento incline a dare accentuato rilievo a tale obbligo.

Invero, da tempo si ritiene che il regime complessivo dettato, in materia di astensione, dai codici di rito civile e penale possa (o meglio, debba) “essere integrato in applicazione dell’art. 323 c.p., che quale ipotesi di abuso d’ufficio prevede appunto la mancata astensione del pubblico ufficiale in presenza di un interesse proprio o di un suo prossimo congiunto”, di talchè per qualsiasi magistrato sussiste l’obbligo “di valutare, nell’esercizio delle sue funzioni, le ragioni di grave convenienza per non trattare cause in cui egli o suoi stretti congiunti abbiano interessi”, sia “di astenersi nel caso di verificata esistenza di tali ragioni, con particolare riguardo a interessi propri o personali dello stesso magistrato” (così Sez. Disc. C.S.M., sent. 4 luglio 2014, n. 126).

Già nella vigenza del R.D. 31 maggio 1946, n. 511, art. 18 si riteneva, invero, integrato l’illecito disciplinare del magistrato “ove l’omissione dell’atto avesse inciso in una situazione tale da rendere l’astensione indiscutibilmente opportuna, al fine di scongiurare sospetti di compiacenza o parzialità nei confronti della parte” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 16 luglio 2009, n. 16559, Rv. 609011-01). Ma è stato, tuttavia, con l’avvento del D.Lgs. n. 109 del 2006, che ha optato per il principio della “tipizzazione” dell’illecito, che “s’è posto il quesito se l’illecito disciplinare sia ravvisabile anche nei casi in cui l’astensione sia giustificata per ragioni di grave convenienza, posto che l’art. 51 c.p.c., comma 2, la prevede come facoltativa, sicchè non potrebbe essere qualificata come un obbligo di legge”. Si è ritenuto, però, che “l’obbligo legale di astensione del magistrato” non possa “essere circoscritto alle ipotesi contemplate dall’art. 51 c.p.c., comma 1, giacchè esiste nell’ordinamento almeno una norma penale di portata generale, che punisce il comportamento del pubblico ufficiale il quale “in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto” ometta di astenersi procurando a sè o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o arrecando ad altri un danno ingiusto (art. 323 c.p.)” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 11 aprile 2012, n. 5701, Rv. 622047-01; in senso conforme, Cass. Sez. Un., sent. 13 novembre 2012, n. 19704, Rv. 624162-01).

Orbene, se si considera che l’obbligo di astenersi dalla trattazione di un affare sussiste pure quando il magistrato abbia un “interesse proprio, anche solamente di natura morale, nel procedimento” (Sez. Disc. C.S.M., sent. 24 febbraio 2012, n. 36), e che l’illecito consistente nella consapevole violazione di tale obbligo, sebbene caratterizzato sul piano soggettivo dall’elemento del dolo, non richiede come “necessaria la “coscienza dell’antigiuridicità” del comportamento integrante la violazione del precetto” (Cass. Sez. Un., sent. 11 marzo 2013, n. 5942, Rv. 625535-01), nè la ricorrenza di “uno specifico intento trasgressivo” (Cass. Sez. Un., sent. 20 maggio 2016, n. 10502, Rv. 639678-01), risulta evidente l’erroneità della conclusione della Corte territoriale, nella parte in cui ha ritenuto di poter risolvere il tema della violazione dell’art. 51 c.p.c. con la sbrigativa affermazione secondo cui “non si configura il dolo intenzionale a carico della Dott.ssa B. diretto a procurare uno svantaggio ingiusto al Rag. G. con la revoca dell’incarico, trattandosi di una decisione collegiale adottata nel rispetto di tutte le garanzie previste a tutela degli interessi del curatore, dei creditori, del fallito e della stessa procedura concorsuale”.

A parte, infatti, il già erroneo riferimento al difetto di “intenzionalità” del comportamento (per le ragioni appena illustrate, ovvero per l’estraneità rispetto alla “consapevole violazione dell’obbligo di astensione” di uno “specifico intento trasgressivo”), la “collegialità” della decisione finale non vale, di per sè, ad “esorcizzare” il problema legato alla presenza, in seno a quel consesso, di un giudice portatore di un interesse, come detto anche solo di natura “morale”, che minava potenzialmente il dovere di imparzialità dell’intero organo. Tale dovere, infatti, “riveste due aspetti”, essendo non solo “indispensabile” che il giudice collegiale “sia imparziale sotto il profilo soggettivo, cioè che nessuno dei suoi membri manifesti opinioni preconcette o pregiudizi personali”, ma pure che il medesimo risulti “imparziale sotto il profilo oggettivo”, ovvero che sia “tenuto ad offrire” evidentemente, innanzitutto, quanto alle sue modalità di composizione – “garanzie sufficienti per escludere al riguardo qualsiasi legittimo dubbio” (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sent. 1 luglio 2008, Chronopost e La Poste, in C341/06 e C-342/06, p. 54).

D’altra parte, nella medesima prospettiva, non indifferente sembra l’assunzione, da parte della Dott.ssa B., del compito di relatore nella procedura di revoca delle curatele fallimentari già conferite al G.. Questa Corte, infatti, ha sottolineato – in un caso in cui veniva in rilievo il comportamento di un giudice che aveva contravvenuto al dovere di imparzialità, con conseguenze penalmente rilevanti (ancorchè, in quella ipotesi, ai sensi dell’art. 319-ter c.p.) – “il ruolo sicuramente più rilevante e più incisivo rivestito dal giudice relatore nella formazione di una decisione collegiale”, e ciò “con particolare riferimento a processi tanto delicati quanto voluminosi, che non sempre consentono al presidente e ai giudici a latere un completo ed analitico studio del complesso ed imponente coacervo di tutti gli atti processuali”, processi “che per prassi postulano un completo quanto legittimo affidamento nell’onestà intellettuale (e prima ancora nell’onestà tout court) del relatore chiamato ad esporre i fatti e le questioni di diritto dell’intera vicenda” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 17 settembre 2013, n. 21255, non massimata sul punto).

Tanto, del resto, è imposto dalla necessità di assicurare l’esatta osservanza del principio costituzionale del “giusto processo”, se è vero che esso – secondo quanto affermato dalla Corte delle leggi, già prima della formale enunciazione di tale principio nel testo dell’art. 111 Cost. – risponde ad una “esigenza suprema che non si risolve in affari di singoli, ma assurge a compito fondamentale di una giurisdizione che non intenda abdicare alla primaria funzione di “dicere ius” di cui i diritti di agire e di resistere nel processo (quale che ne sia l’oggetto) rappresentano soltanto i veicoli necessari in non diversa guisa delle norme disciplinatrici della titolarità e dell’esercizio della potestà dei giudici” (Corte Cost., sent. 2 maggio 1984, n. 137).

11.2.2. Infine, merita accoglimento anche la censura oggetto pure del ricorso incidentale del Ministero, oltre che di quello principale del G. – che denuncia l’assenza di qualsiasi motivazione in ordine alla “utilizzabilità” della relazione ministeriale, a riscontro della sussistenza dell’illecito, o meglio dei suoi elementi costitutivi.

Premesso, invero, che la questione sollevata con la presente censura attiene all’ammissibilità della relazione suddetta – e non alla “utilizzabilità” (o meno) della stessa – come prova documentale (e ciò perchè “la categoria dell’inutilizzabilità prevista ex art. 191 c.p.p. in ambito penale non rileva in quello civile”; cfr. Cass. Sez. 3, sent. 5 maggio 2020, n. 8459, Rv. 657825-01), va qui ribadito che “la motivazione deve ritenersi affetta dal vizio di contraddittorietà insanabile e viola, quindi, il “minimo costituzionale”, qualora il giudice di merito rigetti la domanda ritenendola non provata dopo aver respinto una richiesta non inammissibile di prova” (Cass. Sez. 3, ord. 9 novembre 2017, n. 26538, Rv. 646837-01). Tale, nella specie, doveva senz’altro ritenersi la relazione ministeriale suddetta, che apportava un decisivo contributo conoscitivo alla ricostruzione degli elementi, oggettivo e soggettivo, dell’illecito contestato alla B..

12. All’accoglimento dei ricorsi, nei termini indicati, segue la cassazione, in relazione, della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Bologna, in diversa composizione, perchè decida nel merito, nel rispetto del seguente principio di diritto:

“allorchè il giudice del rinvio sia chiamato, ex art. 622 c.p.p., a pronunciarsi su una domanda di risarcimento del danno da reato, il medesimo deve verificare la ricorrenza, sul piano oggettivo e soggettivo, di tutti gli elementi dell’illecito come delineati dall’art. 2043 c.c. sicchè, quando il reato contestato risulti essere stato quello di cui all’art. 323 c.p., occorre avere riguardo non all’intenzionalità del comportamento dell’asserito responsabile, bensì alla generica dolosità dello stesso”.

13. Le spese del presente giudizio saranno definite all’esito del giudizio di rinvio.

P.Q.M.

La Corte accoglie, per quanto di ragione, il ricorso principale e quello incidentale, e cassa, in relazione, la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Bologna, in diversa composizione, perchè decida nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Così deciso in Roma, all’esito dell’udienza pubblica della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 28 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021

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