Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4564 del 15/02/2019

Cassazione civile sez. trib., 15/02/2019, (ud. 07/03/2018, dep. 15/02/2019), n.4564

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI Maria Giulia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al numero 22114 del ruolo generale dell’anno

2011, proposto da:

Telcal s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine del

ricorso, dall’avv.to Giuseppe Fattori, elettivamente domiciliato

presso lo studio dell’avv.to Lucilla Lenti in Roma, alla Via

Crescenzio n. 19;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Lombardia n. 69/35/2010, depositata in data 16

giugno 2010, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 7

marzo 2018 dal Relatore Cons. Maria Giulia Putaturo Donati Viscido

di Nocera.

Fatto

RILEVATO

Che:

– con sentenza n. 69/35/2010 depositata in data 16 giugno 2010 e non notificata, la Commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva parzialmente l’appello proposto dalla Telcal s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, avverso la sentenza n. 11/01/2010 della Commissione tributaria provinciale di Milano, dichiarando, in parziale riforma di quest’ultima, la legittimità – nei limiti del disconoscimento dei crediti d’imposta vantati dalla contribuente nella dichiarazione – dell’avviso di accertamento n. (OMISSIS), con il quale l’Ufficio aveva contestato a quest’ultima, per l’anno di imposta 2002, maggiore reddito imponibile, ai fini Irpeg, e l’indebita detrazione di Iva, in relazione a fatture emesse dalla Cavi & Funi s.r.l. per operazioni di fornitura ritenute oggettivamente inesistenti;

– il giudice di appello, in punto di diritto, per quanto di interesse, osservava che: 1) il contribuente era stato messo in grado di conoscere le richieste dell’Ufficio e di svolgere le proprie difese, essendo stato – in ciò facendo proprie le argomentazioni del giudice di primo grado – tra l’altro, rispettato il contraddittorio, stante l’acquisizione della documentazione contabile in ambito penale e l’allegazione all’avviso di accertamento delle osservazioni svolte a seguito di riscontri incrociati; 2) l’atto impositivo era legittimo, nei limiti dell’azzeramento dei crediti d’imposta vantati dalla società contribuente nella dichiarazione, non potendo l’Ufficio, stante il condono tombale, richiedere supplementi d’imposta; 3) il disconoscimento dei crediti vantati si giustificava avuto riguardo alla inesistenza delle operazioni di fornitura da parte della società Cavi & Funi s.r.l., che proprio nel periodo di “smantellamento della struttura aziendale” per cessazione di attività, risultava avere emesso fatture per un imponibile sensibilmente superiore a quello precedente;

– avverso la sentenza della CTR, la Telcal s.r.l. propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui, con controricorso, resiste l’Agenzia delle entrate;

– la ricorrente ha depositato memoria insistendo per l’accoglimento del ricorso;

– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375, comma 2, e dell’art. 380-bis.1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

– con il primo motivo di ricorso, la Telcal s.r.l. denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 289 del 2002, art. 9, comma 10, per avere il giudice di appello erroneamente confermato la legittimità dell’avviso di accertamento quanto “all’azzeramento dei crediti d’imposta” vantati dalla società contribuente nella dichiarazione, ritenendo che il condono tombale non ostasse all’accertamento da parte dell’Ufficio della sussistenza dei detti crediti, con possibile decurtazione degli stessi;

– in particolare, la ricorrente deduce la erronea interpretazione e applicazione da parte del giudice a quo della L. n. 289 del 2002, art. 9, comma 10, per essere precluso all’Amministrazione finanziaria il controllo sostanziale della dichiarazione, ancorchè a credito, relativa a periodo di imposta oggetto di condono tombale, trattandosi di fattispecie diversa da quella contemplata dall’ordinanza della Corte Cost. n. 340 del 2005, in quanto, nel caso in esame, la contribuente aveva esposto il credito d’imposta in dichiarazione, senza che lo stesso fosse mai stato richiesto a rimborso o compensato;

– la censura è infondata;

– va rilevato ex officio l’incompatibilità del condono previsto dalla L. n. 289 del 2002, art. 9, con l’ordinamento eurounitario in materia di tributi armonizzati (nella specie, di IVA), per contrasto con la Sesta Dir. in materia di IVA, artt. 2 e 22, (del 17 maggio 1977 n. 77/388/CEE), nonchè con il Trattato della Comunità Europea, art. 10, espressamente affermata dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee nella sentenza resa in causa C-132/06, più volte ribadita da questa Corte, a principiare dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 3674 del 2010, poi seguita da numerosissime pronunce conformi di questa Sezione (cfr. Cass. n. 19546 del 2011; n. 8110 e n. 13505 del 2012; n. 2915 del 2013; n. 20435 del 2014; n. 420, n. 1003. n. 5953, n. 6667, n. 7852, n. 19436 e n. 20064 del 2015; fino alle recentissime sentenze n. 406. n. 409, n. 410, n. 411, n. 416 e n. 961 del 2016);

– l’incompatibilità delle misure con cui lo Stato membro rinuncia ad una corretta applicazione e/o riscossione di quanto dovuto per IVA che è il tributo oggetto dell’avviso di accertamento e del condono cui ha aderito il contribuente – comporta la disapplicazione della citata disposizione, che, come detto, va disposta d’ufficio e quindi, a prescindere da specifiche deduzioni di parte (cfr., tra le altre. Cass. n. 961 del 2016, nonchè Cass. S.U. sent. n. 26948 del 2006, e, per la giurisprudenza eurounitaria CGUE del 14 dicembre 1995, in causa C312/93. Peterbroeck; del 14 dicembre 1995, in causa C -430-431/93, Vari Schijndel; del 27 febbraio 2003, in causa C – 327/00, Santex);

– va, altresì, precisato che quanto attiene all’imposta si riferisce anche alle sanzioni, come indicato punto 42 della citata sentenza in causa C132/06, pur non essendo la materia delle sanzioni regolata dalla VI direttiva (Cass. n. 20068 e n. 25701 del 2009; n. 19546 del 2011; n. 13505 del 2012; n. 23750 del 2015);

– il motivo di ricorso è infondato posto che è orientamento assolutamente consolidato di questa Corte (Cass. n. 6982 del 2015, n. 20433 del 2014, n. 1967 del 2012, n. 375 del 2009, n. 22559 del 2008, n. 3682 del 2007) che l’Erario non è tenuto, per automatico effetto del condono, a procedere al rimborso nè gli è inibito l’accertamento diretto a dimostrare l’inesistenza del diritto al rimborso, in quanto il condono fiscale elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, i quali restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’ufficio; è questo l’esito dell’interpretazione che è stata fatta dalla giurisprudenza di questa Corte della Disp. contenuta nel cit. art. 9, comma 9, terzo periodo, secondo cui “La definizione automatica non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini (…) dell’imposta sul valore aggiunto”, che va, appunto, intesa nel senso che nessuna modifica di tali importi può essere determinata dalla definizione automatica ma non nel senso che questa sottragga all’Ufficio il potere di contestare il credito, ad es., per accertata inesistenza dell’operazione commerciale da cui esso deriverebbe (Cass. n. 375/2009 citata); interpretazione, questa, avallata dalla Corte costituzionale che nell’ordinanza n. 340 del 2005 ha affermato che quella norma “va intesa nel senso che il condono non influisce di per sè sull’ammontare delle somme chieste a rimborso, non impone al contribuente la rinuncia al credito e non impedisce all’erario di accogliere tali richieste, allorchè la pretesa di rimborso sia riscontrata fondata” e di rigettarla, ove sia invece infondata. Ed ha, altresì, precisato il Giudice delle leggi che la Disp. contenuta nel successivo art. 9, comma 10, lett. a) secondo cui “il perfezionamento della procedura prevista dal presente articolo comporta la preclusione, nei confronti del dichiarante e dei soggetti coobbligati, di ogni accertamento tributario”, va intesa nel senso che quel perfezionamento “preclude bensì l’accertamento dei debiti tributari dei contribuenti che hanno ottenuto il condono, ma non impedisce l’accertamento dell’inesistenza dei crediti posti a base delle richieste di rimborso, data la natura propria del condono, che incide sui debiti tributari dei contribuenti e non sui loro crediti”;

– nella specie, il giudice di appello ha correttamente fatto applicazione dei suddetti principi, nel ritenere, in relazione ad anno di imposta oggetto di condono tombale, legittimo l’accertamento dell’Ufficio della inesistenza dei crediti vantati dalla società contribuente in dichiarazione, per inesistenza delle operazioni commerciali da cui sarebbero derivati;

– con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c. in ordine al motivo di appello inerente l’illegittimità dell’avviso di accertamento per inosservanza del termine di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12,comma 7;

– in particolare, la ricorrente deduce la omessa pronuncia da parte del giudice a quo sul motivo di appello concernente la violazione del termine di sessanta giorni tra la notifica dell’atto di constatazione e contestazione delle violazioni e l’atto impositivo, essendo stato il primo – sotto forma di “rapporto investigativo”, compendiante le risultanze dei processi verbali del 17 ottobre 2007, del 13 novembre 2007 e del 14 novembre 2007 – notificato contestualmente all’avviso di accertamento in quanto ad esso allegato e non essendo stato l’atto impositivo motivato in termini di “particolare urgenza”;

– la censura è infondata;

– in giurisprudenza è stato difatti più volte affermato che ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica, in particolare, quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione (Cass. n. 24155 del 2017; n. 20311 del 2011);

– il giudice a quo, confermando la decisione di primo grado, quanto alla legittimità dell’atto impositivo nei limiti del disconoscimento dei crediti di imposta, ha evidentemente pronunciato anche sul motivo di appello concernente l’assunta violazione del principio di contraddittorio endoprocedimentale; in particolare, la CTR – in ciò facendo proprie le argomentazioni del giudice di primo grado – ha ritenuto, rispettato il contraddittorio, stante l’acquisizione della documentazione contabile in ambito penale e l’allegazione all’avviso di accertamento delle osservazioni svolte a seguito di riscontri incrociati;

– con il terzo motivo la ricorrente denuncia: 1) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, per non avere la CTR ravvisato la violazione dello spatium deliberandi di sessanta giorni – costituente motivo di appello – tra la notifica dell’atto di constatazione e contestazione delle violazioni e l’atto impositivo, essendo stato il primo – sotto forma di “rapporto investigativo”, compendiante le risultanze dei processi verbali del 17 ottobre 2007, del 13 novembre 2007 e del 14 novembre 2007 – notificato contestualmente all’avviso di accertamento in quanto ad esso allegato e non essendo stato l’atto impositivo motivato in termini di “particolare urgenza”; 2) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la correlata omessa e insufficiente motivazione in ordine al fatto controverso e decisivo della dedotta violazione del termine di sessanta giorni tra la notifica dell’atto di contestazione delle violazioni – sotto forma di “rapporto investigativo”- e l’atto impositivo;

– nel controricorso, l’Agenzia delle entrate eccepisce essersi trattato di accessi (l’ultimo dei quali in data 14 novembre 2007) mirati all’acquisizione di documentazione contabile nell’ambito di procedimento penale anche a carico della società contribuente, senza alcuna contestazione, al termine degli stessi, di violazioni fiscali, essendo stato, solo a seguito di controlli incrociati, formato il rapporto investigativo;

– il primo profilo del terzo motivo è fondato;

– le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. 9 dicembre 2015, n. 24823), premesso che la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, si applica ai soli casi di accesso ed ispezioni e verifiche nei locali del contribuente, hanno chiarito che “in tema di tributi c.d. non armonizzati, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi cd. armonizzati, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto” (Cass., sez. un., n. 24823 del 2015; tra la successiva giurisprudenza conforme si vedano, tra le altre, Cass. n. 2875 del 2017; Cass. n. 10030 del 2017; Cass. n. 20799 del 2017; Cass. n. 21071 del 2017; Cass. n. 26943 del 2017); pertanto, l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale è stato escluso, relativamente ai tributi non armonizzati, solo per gli accertamenti cd. a tavolino e, cioè, per quelli derivanti da verifiche effettuate presso la sede dell’Ufficio, in base alle notizie acquisite da altre Pubbliche Amministrazioni, da terzi ovvero dallo stesso contribuente, in conseguenza della compilazione di questionari o in sede di colloquio (da ultimo, Cass. n. 998 del 2018);

– questa Corte ha anche chiarito a) che “la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, non prevede alcuna distinzione, nemmeno in via interpretativa, tra verbale di chiusura di operazioni di controllo o di mero accesso istantaneo finalizzato ad acquisire documentazione e pertanto risulta arbitrario applicare il termine di 60 giorni distinguendo a seconda del tipo di operazione svolta dall’Ufficio” (Cass. Sez. 5, n. 15624/14); b) che la redazione di un verbale è sempre necessaria, “anche in caso di mera acquisizione di documentazione”, alla luce del chiaro disposto del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52,comma 6, per cui “di ogni accesso deve essere redatto processo verbale da cui risultino le ispezioni e le rilevazioni eseguite, le richieste fatte al contribuente o a chi lo rappresenta e le risposte ricevute. Il verbale deve essere sottoscritto dal contribuente o da chi lo rappresenta ovvero indicare il motivo della mancata sottoscrizione. Il contribuente ha diritto di averne copia” (Cass. n. 20770 del 2013); c) che una volta redatto il verbale, va, in ogni caso, rispettato l’obbligo di emanare l’avviso solo dopo sessanta giorni dal rilascio al contribuente della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni di accesso o di ispezione, salvo casi di particolare e motivata urgenza (Cass., sez. un., n. 18184 del 2013; Cass. n.n. 15624 del 2014 e 9424 del 2014);

– “la garanzia di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, si applica a qualsiasi atto di accertamento o controllo con accesso o ispezione nei locali dell’impresa, ivi compresi gli atti di accesso istantanei finalizzati all’acquisizione di documentazione, in quanto la citata disposizione non prevede alcuna distinzione ed è, comunque, necessario redigere un verbale di chiusura delle operazioni anche in quest’ultimo caso, come prescrive il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, comma 6,” (Cass. n. 15624 del 2014, da ultimo Cass. n. 19259 del 2017);

– “In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, ove siano eseguiti più accessi nei locali dell’impresa per reperire documentazione strumentale all’accertamento, il termine di sessanta giorni di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, decorre dall’ultimo accesso, in quanto postula il completamento della verifica e la completezza degli elementi dalla stessa risultanti, essendo posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio, in modo da attribuire al contribuente un lasso di tempo sufficiente a garantirgli la piena partecipazione al rocedimento ed ad esprimere le proprie valutazioni ” (Cass. sez. 6-5 n. 18110/16);

– ed invero, a far tempo dalla pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte n. 18184/13 – ripresa e confermata dalla sentenza S.U. n. 24823/15 – si è affermato l’orientamento per cui la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, “deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del temine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento – decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, di copia del processo verbale di chiusura delle operazioni” (ed “indipendentemente dal fatto che l’operazione abbia o non comportato constatazione di violazioni fiscali: (Cass. n. 15010/14; 9424/14, 5374/14, 20770/13, 10381/14, come si ha cura di precisare in Cass., sez. un., n. 24823 del 2015) – “determina di per sè, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus, poichè detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva”; con la precisazione che “il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativi dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’ufficio” (ex multis, da ultimo, Cass. nn. 7897 del 2016, 7601 del 2016, 7218 del 2016, 5365 del 2015, 14287 del 2014, 1563 del 2014, 25118 del 2014, 25759 del 2014);

– questa Corte ha poi chiarito che nel caso di accesso, ancorchè finalizzato ad un’acquisizione documentale immediata, comunque la c.d. “prova di non resistenza” non può trovare ingresso in virtù della obbligatorietà generalizzata del contraddittorio preventivo sancito per legge dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, (Cass. n. 1007 del 2017);

– da ultimo, nelle sentenze n. 701 e 702 del 2019, la Corte ha espresso i principi – che il Collegio condivide e ai quali intende dare continuità- secondo cui ” 1) la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, prevede, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio operata dal legislatore, attraverso la previsione di nullità dell’atto impositivo per mancato rispetto del termine dilatorio, che già, a monte, assorbe la “prova di resistenza” e, volutamente, la norma dello Statuto del contribuente non distingue tra tributi armonizzati e non; 2) il principio di strumentalità delle forme ai fini del rispetto del contraddittorio, principio generale desumibile dall’ordinamento civile, amministrativo e tributario, viene meno in presenza di una sanzione di nullità comminata per la violazione, e questo vale anche ai fini del contraddittorio endoprocedimentale tributario; 3) per i tributi armonizzati la necessità della “prova di resistenza”, ai fini della verifica del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, scatta solo se la normativa interna non preveda già la sanzione della nullità.”;

– nella sentenza impugnata, il giudice di appello, nel ritenere rispettato il contraddittorio endoprocedimentale, non ha fatto buon governo dei suddetti principi;

– premesso che, nella specie, tra l’ultimo “processo verbale giornaliero di verifica” presso gli uffici amministrativi della società contribuente (datato 14 novembre 2007) e la notifica dell’atto impositivo (in data 17 dicembre 2007) erano intercorsi meno dei sessanta giorni prescritti dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, non rilevando, a tal fine, il successivo “rapporto investigativo”, allegato all’avviso di accertamento – sia con riguardo all’Iva che con riguardo all’imposta diretta (Irpeg)-non trattandosi di accertamenti “a tavolino”- è evidente la violazione ex art. 12, comma 7, cit., del contraddittorio endoprocedimentale;

– l’accoglimento del primo profilo del terzo motivo, comporta l’assorbimento del secondo profilo del terzo motivo;

– con il quarto motivo, la ricorrente denuncia: 1) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine al fatto controverso e decisivo della esistenza delle operazioni commerciali di cui alle contestate fatture emesse dalla Cavi e Funi s.r.l.; 2) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, per avere il giudice di appello erroneamente ritenuto, da un lato, provata da parte dell’Ufficio l’inesistenza delle operazioni fatturate e, dall’altro, non assolta la prova contraria a carico della contribuente della effettiva fornitura alla società contribuente dei beni oggetto delle fatture emesse dalla Cavi e Funi s.r.l.;

– l’accoglimento del primo profilo del terzo motivo comporta l’assorbimento del quarto motivo;

– in conclusione, va accolto il primo profilo del terzo motivo mentre vanno rigettati il primo e il secondo motivo; assorbiti il secondo profilo del terzo motivo e il quarto motivo; con cassazione della sentenza impugnata in relazione al profilo accolto e decidendo nel merito con accoglimento del ricorso introduttivo della contribuente.

– la recente evoluzione giurisprudenziale sul tema del contraddittorio endoprocedimentale induce questa Corte a compensare le spese dell’intero giudizio tra le parti.

PQM

La Corte accoglie il primo profilo del terzo motivo; rigetta il primo e il secondo motivo; assorbiti il secondo profilo del terzo motivo e il quarto motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al profilo accolto e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo della contribuente; compensa tra le parti le spese di tutti i gradi di giudizio;

Così deciso in Roma, il 7 marzo 2018, e in seconda riconvocazione, il 12 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2019

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