Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4561 del 19/02/2021

Cassazione civile sez. lav., 19/02/2021, (ud. 15/09/2020, dep. 19/02/2021), n.4561

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9996-2017 proposto da:

I.T., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ARCHIMEDE

112, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO PAVAROTTI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

SOCIETA’ UNICA ABRUZZESE DI TRASPORTO – TUA S.P.A., in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA OVIDIO 3 presso lo studio dell’avvocato MASSIMO MALENA,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MICHELE

MASCOLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 841/2016 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 13/10/2016 r.g.n. 882/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/09/2020 dal Consigliere Dott. CARRI FABRIZIA.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

CHE:

1. I.T., dipendente della Società Unica Abruzzese di Trasporto – T.U.A. s.p.a., e prima della incorporata F.A.S. s.p.a. e dal 1988 dirigente, chiese la condanna della convenuta al risarcimento del danno derivatogli dall’illegittimo demansionamento sofferto per effetto della riorganizzazione della società dal 10.1.2011 – quando gli erano stati sottratti alcuni importanti incarichi rivestiti con conseguente svilimento della sua professionalità – quantificato in Euro 232.863,88 quanto al danno patrimoniale ed Euro 100.000,00 quanto al danno biologico. Inoltre, chiese la condanna della società al pagamento della somma di Euro 167.289,99 a titolo di assegno ad personam per l’attività di dirigente del Trasporto su rete RFI svolta ad interim nel periodo 1.11.2007-10.1.2011, di Euro 213.011,03 a titolo di incentivo previsto dal D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 92, comma 5, di Euro 23.339,88 a titolo di indennità di trasferte nel periodo 1.7.2001-31.12.2004 ed Euro 28.623,19 nel periodo 1.1.2005-30.6.2005 per diarie forfettizzate.

1.1. Il Tribunale accolse la domanda limitatamente al riconoscimento della c.d. diaria forfettizzata e condannò la società a corrispondere al ricorrente la somma di Euro28.623,19 rigettando le altre domande.

2. La Corte di appello di L’Aquila, investita del gravame in via principale da parte di I.T. e di quello incidentale della T.U.A. li rigettava entrambi e compensava le spese.

2.1. La Corte territoriale, per quanto ancora interessa, accertava che per effetto di una riorganizzazione della pianta organica il ricorrente aveva continuato a svolgere mansioni che erano comunque riconducibili alla qualifica dirigenziale rivestita ed aveva conservato il ruolo di dirigente del settore investimenti.

2.2. Rammentava che la scelta organizzativa imprenditoriale di modificare l’organigramma non poteva essere sindacata salvo il caso che avesse inciso, e nella specie tale evenienza non ricorreva, sull’inquadramento del dipendente.

2.3. Verificava che comunque lo I. non aveva in concreto subito un demansionamento effettivo tenuto conto del fatto che, pur se svolte in un ambito meno esteso, il contenuto professionale delle mansioni non era qualitativamente inferiore. Osservava infatti che lo stesso ricorrente non aveva specificato sotto quale profilo la nuova posizione lavorativa aveva impedito la piena utilizzazione del patrimonio professionale acquisito.

2.4. Osservava inoltre la Corte che il lavoratore non poteva vantare un diritto a conservare la medesima posizione organizzativa anche dopo la modifica della pianta organica aziendale ed evidenziava che non era riscontrabile in concreto un impoverimento del bagaglio professionale maturato.

2.5. Escluso il demansionamento la Corte riteneva che non sussisteva il danno osservando che ne era stata chiesta genericamente una liquidazione equitativa ma non ne era stata offerta, come dovuto, una prova adeguata. Rilevava al riguardo che del tutto insufficienti erano, quanto al danno biologico lamentato, le certificazioni mediche e la relazione di parte depositate in giudizio.

2.6. Quanto all’incentivo previsto dal D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 5, la Corte territoriale escludeva che il ricorrente ne avesse diritto osservando che il Regolamento di attuazione non aveva superato il controllo della Corte dei Conti e non era mai stato reiterato. Evidenziava che l’incentivo trovava applicazione esclusivamente ai contratti pubblici relativi a lavori o servizi e forniture nei settori c.d. ordinari, e non anche a quelli nei settori c.d. speciali tra i quali rientrava, ai sensi del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, art. 210, il trasporto ferroviario. Sottolineava inoltre che, in virtù di quanto disposto dal citato D.Lgs., art. 32, alla società, da ricomprendere nel novero delle c.d. imprese pubbliche alle quali con riguardo a lavori, servizi, forniture affidati da società con capitale pubblico anche non maggioritario e che non sono organismi di diritto pubblico, non si applicava l’art. 92 dello stesso decreto. Da ultimo poi evidenziava che era irrilevante la circostanza che la F.A.S. s.p.a. non era una impresa pubblica ma piuttosto una stazione appaltante (così era denominata nella convenzione tra Regione Abruzzo e F.A.S. s.p.a. del 11.7.2006) osservando che ai sensi dell’art. 3 Codice degli Appalti, comma 33, le stazioni appaltanti comprendono sia le amministrazioni aggiudicatrici che le imprese private da queste controllate (come la F.A.S. s.p.a.) alla quale trova applicazione, conseguentemente, il D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 32, comma 2.

3. Per la cassazione della sentenza ha proposto tempestivo ricorso I.T. affidato a tre motivi ai quali resiste con controricorso la Società Unica Abruzzese di Trasporto T.U.A. s.p.a..

Sia l’ingegner I. che la T.U.A. s.p.a. hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 1.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., in relazione all’art. 2094 c.c., ed all’art. 96 disp. att. c.c.; la violazione dell’art. 41 Cost., in relazione agli artt. 2,3 e 4 Cost.; in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., stante la mera apparenza della motivazione e l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

4.1. Sostiene il ricorrente che erroneamente la Corte di merito avrebbe ritenuto che il solo limite all’esercizio del potere organizzativo del datore di lavoro, quando incide sulla posizione del personale in azienda, è quello del rispetto degli inquadramenti professionali, atteso che nell’esercizio delle nuove mansioni il dipendente deve poter pienamente esplicare ed ulteriormente sviluppare la propria professionalità. La libertà di iniziativa economica dell’impresa non può infatti svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo tale da recare danno alla sicurezza, libertà e dignità umana e nel rispetto delle norme di protezione, qual è appunto l’art. 2103 c.c., che regolamenta l’esercizio dello ius variandi.

4.2. Osserva allora il ricorrente che la Corte avrebbe apoditticamente affermato che l’ingegner I. avrebbe continuato a svolgere, seppur in ambito ridotto, le medesime mansioni trascurando di considerare la circostanza di fatto, decisiva e documentalmente provata, che se le mansioni mantenute dal ricorrente in esito alla riorganizzazione facevano parte di quelle svolte in precedenza, tuttavia era venuta meno la funzione dirigenziale apicale nel settore tecnico dell’Azienda rivestita prima della riorganizzazione. La Corte, e prima ancora il Tribunale, nell’accertare l’equivalenza avrebbero trascurato di tenere conto delle caratteristiche dell’attività svolta negli anni come documentalmente provata in giudizio giungendo così ad un’errata applicazione delle disposizioni invocate.

5. La censura non può trovare accoglimento.

5.1. Proposta in maniera promiscua essa presenta profili di inammissibilità per quanto concerne la contestuale ed indistinta proposizione di censure che attingono a profili processuali, motivazionali e di violazione di legge (cfr. Cass.)

5.2. Nell’investire la motivazione della sentenza, che è tutt’altro che carente e dunque non incorre nella denunciata violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, il ricorrente trascura di considerare che ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5, – che si applica ratione temporis alla controversia, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, essendo stato il giudizio d’appello introdotto con ricorso depositato dal giorno 11 settembre 2012 – per poter ammissibilmente formulare una censura di vizio di motivazione è necessario che il ricorrente indichi, e non lo ha fatto, le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, e dimostri così che esse sono tra loro diverse (cfr. Cass. 22/12/2016 n. 26774 e 06/08/2019n. 20994).

5.3. Peraltro estrapolata dal motivo la denunciata violazione di legge essa si rivela tuttavia infondata atteso che la Corte territoriale nell’escludere il demansionamento denunciato, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, si è attenuta ai principi dettati da questa Corte che ha in più occasioni affermato che non ogni modificazione quantitativa delle mansioni affidate al lavoratore è sufficiente ad integrarlo, dovendo invece farsi riferimento all’incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale, e, con riguardo al dirigente, altresì alla rilevanza del ruolo (cfr. Cass. 04/04/2017 n. 8717, 09/01/2017n. 217). Grava sulla parte che assume di essere stata demansionata allegare e provare le circostanze di fatto dalle quali evincere un sostanziale svuotamento del ruolo in precedenza affidatogli.

6. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 2103,1226,2727 e 2729 c.c.. La nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la sentenza, in violazione dell’art. 112 c.p.c., omesso di pronunciare sulle specifiche domande di danno alla professionalità espressamente svolte. La violazione o falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c. per avere erroneamente ritenuto, nell’interpretare la domanda di demansionamento che non sarebbe stato allegato un danno alla professionalità.

6.1. Nel riportare le allegazioni contenute nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado in punto di danno alla professionalità, riproposte nel giudizio di appello, insiste nel ritenere che entrambi i giudici avrebbero trascurato di procedere all’accertamento in via presuntiva del danno allegato e desumibile dalla protratta sottrazione di mansioni di rilievo in esito alla nuova organizzazione.

7. Le censure sono destituite di fondamento.

7.1. In disparte i profili di inammissibilità connessi alla genericità delle doglianze, va rilevato che il giudice di secondo grado ha in primo luogo escluso che fosse ravvisabile un demansionamento. Quindi ha ritenuto che le allegazioni sul danno alla professionalità denunciato erano generiche e comunque ancorate ad un demansionamento che era stato motivatamente escluso.

7.2. Va rilevato allora che non è ravvisabile la denunciata violazione delle norme invocate (gli artt. 2697,2103,1226,2727 e 2729 c.c.) in primo luogo perchè nella censura non è precisato esattamente in cosa sarebbe consistita la violazione dell’onere della prova lamentata. Quanto alla nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., va evidenziato che la Corte di merito ha chiarito perchè la domanda di danno alla professionalità non era idonea ad essere ulteriormente vagliata e dunque non è ravvisabile l’omessa pronuncia denunciata. Per quanto concerne poi l’interpretazione della domanda giudiziale e la denunciata violazione delle disposizioni del codice civile dettate per l’interpretazione dei contratti va qui ribadito che e degli atti in tema di interpretazione della domanda giudiziale va qui ribadito che gli artt. 1362 e ss. c.c., non sono applicabili all’interpretazione della domanda giudiziale, rispetto alla quale non si pone il problema dell’individuazione di una comune intenzione delle parti, e la stessa soggettiva intenzione dell’appellante rileva solo nei limiti in cui sia stata esplicitata in modo tale da consentire all’appellato di cogliere l’effettivo contenuto dell’impugnazione e di poter svolgere un’adeguata difesa (cfr. Cass. 24/11/2011 n. 24847 e 09/12/2014n. 25853). L’interpretazione della domanda è diretta a cogliere, al di là delle espressioni letterali utilizzate, il contenuto sostanziale della stessa, desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dallo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’autorità giudiziaria (cfr. Cass. Sez. Un. 13/02/2007 n. 3041). Peraltro il ricorrente trascura di chiarire sotto quale profilo la Corte avrebbe errato nell’interpretare la domanda con la conseguenza che per tutte queste ragioni la censura comunque non può essere accolta.

8. Anche l’ultimo motivo di ricorso è infondato. Pur denunciandosi la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 3, commi 4, 5, 6, 7, 25, 28, 29 e 33, art. 32, comma 1, lett. c), comma 2, art. 92, comma 5 e artt. 206 e 210, e la violazione e falsa applicazione degli artt. 1353,1359 e 1360 c.c. e del principio di conservazione dei negozi giuridici in relazione agli artt. 1367 e 1424 c.c. e la violazione e falsa applicazione degli artt. 1374,2099 e 2233 c.c., in realtà si sollecita dalla Corte di cassazione, inammissibilmente, una ricostruzione dei fatti differente da quella operata dalla Corte di appello sulla base della prospettazione di fatti che non risultano essere stati tempestivamente sottoposti al giudice nelle fasi di merito.

8.1. Si sostiene infatti che in relazione ad una serie di incarichi specificatamente elencati dal ricorrente, il cui svolgimento non era stato oggetto di contestazione da parte della convenuta, questi aveva maturato il diritto a percepire l’incentivo di cui all’art. 92, comma 5 citato che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte spettava in primo luogo perchè il Regolamento attuativo non era soggetto ad approvazione da parte della Corte dei Conti. Osserva il ricorrente che l’atto regolamentare aveva solo la funzione di determinare modalità e criteri di erogazione degli incentivi e non poteva certo incidere sul suo diritto, già sorto, all’erogazione del compenso. L’attività in relazione alla quale il compenso era dovuto, ad avviso del ricorrente, non rientrava tra quelle speciali – che costituivano effettivamente l’oggetto principale della attività della società – ma faceva parte di quelle diverse che attenevano all’ampliamento della rete ferroviaria o comunque ad attività infrastrutturali diverse da quelle istituzionali che rientravano invece nella categoria generale dei contratti pubblici relativi a settori ordinari. L’equivoco in cui era incorsa la sentenza di appello sarebbe stato ingenerato da una non corretta lettura della documentazione depositata in atti ed in particolare della Convenzione stipulata in data 11 luglio 2006 tra la Regione Abruzzo e la Ferrovia Adriatico Sangritana F.A.S. s.p.a., oggi T.U.A. s.p.a., che però non era il soggetto che affidava in appalto il servizio ma piuttosto quello a cui erano affidate le opere. Conseguentemente non ricorrerebbe nella specie nessuna delle deroghe previste dal D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 92, nè tantomeno la fattispecie prevista dall’art. 32 comma 1 lett. c) del medesimo decreto.

8.2. Tanto premesso rileva il Collegio, in via del tutto assorbente, che nè dalla lettura della sentenza nè dall’esame del ricorso è possibile comprendere se la distinzione tra attività istituzionali speciali ed attività collaterali ordinarie, attorno alla quale è costruito il diritto del ricorrente a percepire l’incentivo, sia stata tempestivamente sollevata davanti ai giudici di merito. Per tale aspetto il ricorso, che non ricostruisce quali siano state le difese articolate sin dal primo grado oltre che davanti al giudice di appello, è generico e la deduzione che l’attività dello I. si sarebbe svolta nel contesto di appalti di opere infrastrutturali rispetto alle quali non opererebbe la preclusione del compenso, risulta nuova e perciò inammissibile.

9. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, poi, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma del citato D.P.R., art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 7.500,00 per compensi professionali, 15% per spese generali oltre accessori dovuti per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma del citato D.P.R., art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2021

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