Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4560 del 19/02/2021

Cassazione civile sez. II, 19/02/2021, (ud. 17/11/2020, dep. 19/02/2021), n.4560

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio (da remoto) – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello (da remoto) – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26200/2019 proposto da:

S.J., rappresentato e difeso dall’Avvocato PAOLO QUADRUCCIO,

ed elettivamente domiciliato presso l’Avv. Francesco Verrastro, in

ROMA, VIA ERCOLE BOMBELLI 29/b;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro-tempore,

rappresentati e difesi ope legis dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12 sono

domiciliati;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 677/2019 della CORTE d’APPELLO di BOLOGNA

pubblicata in data 27/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/11/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

S.J. proponeva appello avverso l’ordinanza del 4.5.2017, con la quale il Tribunale di Bologna rigettava il ricorso avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale emesso dalla competente Commissione Territoriale, chiedendo il riconoscimento dello status di rifugiato o, in subordine, della protezione sussidiaria o, in ulteriore subordine, della protezione umanitaria.

Sentito dalla Commissione, il richiedente aveva riferito di essere cittadino del (OMISSIS); di aver frequentato la scuola primaria fino alla sesta classe; che la sua famiglia era composta da padre – deceduto nel (OMISSIS) -, dalla madre e da tre sorelle minori; che, dopo la morte del padre, vista la precaria situazione economica familiare, a soli nove anni aveva iniziato a lavorare saltuariamente; che, alla luce delle difficoltà, aggravate anche dalla situazione socio-politica del (OMISSIS), nell’ottobre 2013, con alcuni risparmi, aveva intrapreso un viaggio, privo di documenti, assieme a un amico, raggiungendo il Senegal (dove era rimasto un paio di mesi lavorando a giornata in un autolavaggio), il Mali, il Burkina Faso e la Libia (dove era arrestato e imprigionato per due mesi, subendo minacce e violenze; che in seguito aveva lavorato, ma non sempre era stato pagato) fino a raggiungere l’Italia (non potendo ritornare in (OMISSIS) a causa delle politiche persecutorie attuate dal dittatore nei confronti degli espatriati).

Con sentenza n. 677/2019, depositata in data 27.2.2019, la Corte d’Appello di Bologna rigettava l’appello. In particolare, si evidenziava che il regime dittatoriale di Y.J. era caduto nel 2016, quando il leader dell’opposizione, Ad.Ba., aveva vinto le elezioni presidenziali, così segnando una svolta democratica per il Paese. Ciò premesso, riteneva che non ricorressero i presupposti per il riconoscimento della qualità di rifugiato, avendo il ricorrente riferito – anche se solo nel primo grado di giudizio e senza descrizione del compimento di effettiva attività politica – di essere venuto in Italia per la morte del padre e perchè sostenitore di UDP, il partito di opposizione al momento della partenza dal (OMISSIS). Anche la protezione sussidiaria non poteva essere riconosciuta, in quanto le ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) non potevano considerarsi concrete in assenza della dimostrazione e allegazione di un procedimento penale a carico dell’appellante, nè attuali, tenuto conto dei notevoli cambiamenti socio politici del (OMISSIS); difettava altresì quella di cui alla lett. c), posto che non si riscontrava in (OMISSIS) una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato interno, tale da porre in pericolo la vita o l’incolumità fisica dell’appellante. Anche la domanda di protezione umanitaria non veniva accolta, essendo del tutto insufficiente il richiamo alle condizioni del Paese d’origine; ed anche avere intrapreso un fattivo percorso di integrazione sociale in Italia, non appariva rilevante ai fini del riconoscimento della suddetta forma di protezione, la quale postula un pericolo di lesione dei diritti fondamentali del richiedente in caso di rimpatrio, non sussistente nella fattispecie.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione S.J. sulla base di due motivi. Resiste il Ministero degli Interni con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione e falsa applicazione di norma di diritto – D.Lgs. n. n. 251 del 2007, art. 3; D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 27; ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, dovuta alla lesione del dovere di cooperazione istruttoria e del principio dell’attenuazione dell’onere della prova di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5. I parametri legali, previsti dalla suddetta disposizione, devono essere considerati di primo rilievo nel caso – come nella fattispecie – di richiedente minorenne. Invero, considerata l’età, la scarsa scolarizzazione, il tempo trascorso e quanto patito durante il viaggio e la permanenza in Libia, dovevano apparire sussistenti gli sforzi compiuti dal ricorrente per circostanziare al meglio la domanda.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – Giova ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte (Cass. n. 24414 del 2019), in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Cass. n. 3340 del 2019).

Va dunque ribadito che costituisce principio pacifico quello secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prcspettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 6259 del 2020; cfr., ex multis, Cass. n. 22717 del 2019 e Cass. n. 393 del 2020, rese in controversie analoghe a quella odierna).

Va inoltre rievato che la valutazione, in ordine alla sussistenza dei presupposti richiesti per la attribuibilità delle singole protezioni costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr. sempre Cass. n. 3340 del 2019, cit.).

1.3. – Nel caso concreto, peraltro, i fatti allegati nel giudizio di merito non attengono a situazioni di violenza indiscriminata, derivante da un conflitto armato interno o internazionale, trattandosi di circostanze relative ad una vicenda meramente personale e familiare del richiedente, risolvibile mediante il ricorso alla giustizia ordinaria e non attraverso forme di violenza coercizione (neppure ipotizzata in capo al ricorrente). Tali circostanze inducono a ritenere il richiedente quale “emigrante economico”, non riconducibile nell’ambito della previsione di cui all’art. 1 della Convenzione di Ginevra e al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 e 8; laddove, sotto tale profilo, il giudice di merito ha, peraltro, comunque accertato (mediante il ricorso a fonti internazionali aggiornate e specificamente citate nel provvedimento impugnato, D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 8: pag. 4) la insussisteza del timore del ricorrente di essere sottoposto a vessazioni, senza possibilità di ottenere tutela.

1.4. – Ciò posto, questa Corte osserva come, viceversa, la parte ricorrente, sotto l’egida formale del vizio di violazione di legge, pretenda, ora, una nuova valutazione del giudizio di credibilità del richiedente, proponendo censure che sconfinano con tutta evidenza sul terreno delle mere valutazioni di merito, come tali rimesse alla cognizione dei giudici della precedente fase di giudizio e che possono essere censurate innanzi al giudice di legittimità solo attraverso le ristrette maglie previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l'”Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5″, là dove nella sentenza impugnata appare omessa ogni valutazione sull’età del ricorrente. Nella fattispecie, non solo non era stato adempiuto l’onere ci cooperare nella ricerca della fondatezza della domanda, ma non veniva operata neanche la valutazione comparativa di cui alla nota sentenza n. 4455/2018.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – Questa Corte ha di recente riaffermato che la ratio della prestazione umanitaria rimane quella di non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo di diritti della persona che ne integrano la dignità, con la conseguenza che la mera allegazione di una esistenza migliore nel paese di accoglienza non è sufficiente, dovendo comunque verificare che ci si è allontanati da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili (Cass. n. 4455 del 2018). La protezione umanitaria costituisce una forma di tutela a carattere residuale posta a chiusura del sistema complessivo che disciplina la protezione internazionale degli stranieri in Italia (come rende evidente l’interpretazione letterale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3). Nel caso di specie, appunto, varrebbe il fatto che il ricorrente (il quale assumeva di avere lasciato il proprio Paese nel 2013, appena quindicenne, e di essere giunto in Italia nel 2015, ancora diciassettenne, per essere ascoltato dalla Commissione Territoriale quando era ormai maggiorenne); sicchè è espresso il riferimento alla circostanza che il ricorrente avesse ormai 20 anni e fosse un uomo adulto.

2.3. – Questa Corte ha, altresì, adeguatamente chiarito che il parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia può essere apprezzato come presupposto della protezione umanitaria, non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale, che merita di essere tutelata attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno, che protegga il soggetto dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale quale quello eventualmente presente nel Paese d’origine. Ne consegue che il raggiungimento di un livello d’integrazione sociale, personale od anche lavorativa nel paese di accoglienza può costituire un elemento di valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza di una delle variabili rilevanti della “vulnerabiltà” ma non può esaurirne il contenuto.

3. – Il ricorso è dunque inammissibile. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00, a titolo di compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 17 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2021

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