Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4552 del 21/02/2020

Cassazione civile sez. VI, 21/02/2020, (ud. 27/11/2019, dep. 21/02/2020), n.4552

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – rel. Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28738-2018 proposto da:

DSV SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 91, presso lo

studio dell’avvocato CLAUDIO LUCISANO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GIOVANNI SCARPA;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, (OMISSIS), in persona del

Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la

rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7912/13/2017 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE della CAMPANIA, depositata il 27/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 27/11/2019 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO

FRANCESCO ESPOSITO.

Fatto

RILEVATO

che:

La Saima Avandero s.p.a. (ora DSV s.p.a.), gestore di depositi fiscali IVA, ha impugnato l’atto di contestazione ed irrogazione sanzioni IVA per l’importo di Euro 17.234,48, notificatole dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, nella qualità di responsabile in solido con la CAS.DIT. s.r.l. destinataria della merce, e scaturente, nella prospettazione dell’Ufficio, dall’omessa introduzione fisica, nei depositi gestiti dalla stessa società nell’interesse di propri clienti, di merce di provenienza extracomunitaria, circostanza che, per l’Ufficio, aveva reso illegittimo l’assolvimento dell’IVA mediante autofatturazione ai sensi del D.L. n. 331 del 1993, art. 50 bis, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 427 del 1993.

La pronuncia di primo grado, sfavorevole alla contribuente, è stata confermata in appello. La CTR, avendo accertato che l’utilizzo del deposito IVA era stato solo virtuale in quanto la merce era stata consegnata direttamente ai destinatari, riteneva sussistenti le violazioni e legittima e correttamente applicata l’irrogazione della sanzione a carico del depositante.

La Corte di cassazione, con ordinanza n. 16986/2016, ha accolto il terzo motivo del ricorso proposto dalla contribuente.

Il giudice del rinvio, con la sentenza indicata in epigrafe, ha rigettato l’appello della contribuente.

Avverso tale decisione, la contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli.

Sulla proposta del relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., risulta regolarmente costituito il contraddittorio camerale.

La contribuente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, e la nullità della sentenza impugnata che si era discostata dai principi fissati dall’ordinanza n. 16987/2016 di questa Corte, che non aveva demandato alla CTR di valutare l’astratta idoneità dell’inversione contabile quale strumento di assolvimento dell’imposta, ma esclusivamente di accertarne in concreto l’espletamento e verificare la proporzionalità della sanzione.

Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione del art. 2697 c.c. e ss., nonchè del D.L. n. 331 del 1993, art. 50 bis, comma 4, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 17, commi 2 e 3, del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 13. Sostiene la ricorrente che la CTR, nel negare l’effetto solutorio dell’inversione contabile, avrebbe omesso l’accertamento di fatto demandatole, ignorando la circostanza che le prove portate alla sua attenzione erano esaustive.

I due motivi, esaminabili congiuntamente in relazione alla loro stretta connessione, sono infondati.

Questa Corte, con ordinanza n. 16986/2016, ha accolto il motivo di ricorso con il quale la contribuente sosteneva che la CTR avesse erroneamente escluso la rilevanza dell’assolvimento dell’IVA interna, poichè il mancato pagamento dell’IVA all’importazione era stato compensato proprio dall’assolvimento mediante autofatturazione dell’IVA interna, dovendosi altrimenti ipotizzare una doppia imposizione.

Sulla base dei principi formulati dalla Corte di Giustizia, la Corte rilevava che, ferma la legittimità dell’obbligo previsto dalla legislazione nazionale di procedere alla effettiva introduzione delle merce nel deposito fiscale IVA per potersi avvalere del differimento della corresponsione dell’IVA dovuta al momento dell’importazione della merce, tuttavia l’Amministrazione finanziaria non poteva pretendere il pagamento dell’IVA all’importazione dal soggetto passivo che, non avendo materialmente immesso i beni nel deposito fiscale, si era illegittimamente avvalso del regime di sospensione di cui al D.L. n. 331 del 1993, art. 50 bis, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 427 del 1993, qualora costui avesse già provveduto all’adempimento, sia pur tardivo, dell’obbligazione tributaria nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile mediante un’autofatturazione ed una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite, atteso che la violazione del sistema del versamento dell’IVA, realizzata dall’importatore per effetto dell’immissione solo virtuale della merce nel deposito, ha natura formale e non può mettere, pertanto, in discussione il suo diritto alla detrazione (Cass. nn. 19749/2014, 16109/2015, 15988/2015, 17815/2015). La natura formale della violazione, qualora l’assolvimento dell’IVA sia avvenuto con le modalità individuate dalla Corte di giustizia, tuttavia non esclude la irrogazione di sanzioni.

Osservava che la CTR aveva erroneamente escluso la rilevanza dell’assolvimento dell’IVA interna all’atto dell’estrazione della merce dal deposito ove era stata inserita virtualmente, e ciò in contrasto con i principi espressi dalla Corte di giustizia nella sentenza Equoland, integralmente recepiti dalla Corte, e ciò si era ripercosso sulla valutazione delle sanzioni irrogate.

Cassava, quindi, la sentenza impugnata, affermando, testualmente, che “la CTR, in particolare, avendo già accertato che non vi fu la fisica introduzione della merce nel deposito, dovrà valutare in sede di rinvio la rilevanza e la regolarità dell’assolvimento dell’imposta nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile, mediante l’auto fatturazione, disciplinata dal D.L. n. 331 del 1993, art. 50 bis, comma 6, e la registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite del soggetto passivo, in ragione di quanto indicato ai par. 39 e 42 della sentenza Equoland. Quindi, in ragione della natura formale della violazione, qualora l’assolvimento dell’IVA sia effettivamente avvenuto con le modalità individuate dalla Corte di giustizia, dovrà valutare la proporzionalità delle sanzioni irrogate, alla luce dei criteri dettati dalla CGUE e dalla Corte di cassazione”.

Orbene, la CTR, in sede di rinvio, ha operato l’accertamento demandatole con l’ordinanza n. 16986/2016 di questa Corte, concernente la verifica della rilevanza e regolarità dell’assolvimento dell’imposta nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile, mediante l’autofatturazione, giungendo ad escludere che l’assolvimento dell’IVA fosse avvenuto secondo i criteri individuati dalla Corte di giustizia, con conseguente legittimità dell’irrogazione delle sanzioni.

In particolare, il giudice del rinvio, con apprezzamento in fatto insindacabile in sede di legittimità, ha rilevato che la documentazione prodotta dalla contribuente non forniva alcuna prova della corretta liquidazione dell’imposta, in quanto le autofatture recavano date di emissione di fantasia e comprendevano dazi ed IVA che non dovevano essere calcolati, risultando così irregolare sin dalla prima operazione l’applicazione del meccanismo dell’inversione contabile dell’IVA come inteso dalla Corte di giustizia e dalla Corte di cassazione.

Invero la ricorrente, pur evocando vizio di violazione di legge, prospetta – con il secondo motivo – una diversa valutazione delle risultanze fattuali, il cui apprezzamento è tuttavia riservato al giudice di merito. Con la proposizione del ricorso per cassazione, difatti, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (tra le tante, Cass. n. 9097 del 2017).

In conclusione, diversamente dalla proposta del relatore, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della Agenzia delle entrate, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.300,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 27 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2020

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