Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4546 del 22/02/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 4546 Anno 2013
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: BALESTRIERI FEDERICO

SENTENZA
sul ricorso 17126-2008 proposto da:
POSTE

ITALIANE

S.P.A.

in

persona

del

legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA PC 25-B, presso lo studio dell’avvocato
SIGILLO’ MASSARA GIUSEPPE, che la rappresenta e
difende giusta delega ‘n atti;
– ricorrente –

2012

contro

4273

DE PASQUALE SALVATORE;
– intimato –

avverso la sentenza n. 91/2007 della CORTE D’APPELLO

Data pubblicazione: 22/02/2013

SEZ.DIST.

DI di TARANTO, depositata il 20/06/2007

r.g.n. 350/06;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 12/12/2012 dal Consigliere Dott. FEDERICO
BALESTRIERI;

SIGILLO’ MASSARA GIUSEPPE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARIO FRESA, che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso.

udito l’Avvocato GENTILE GIOVANNI GIUSEPPE per delega

Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Taranto, Salvatore De Pasquale esponeva
di essere stato dipendente della società Poste Italiane; che in data 9
gennaio 2000 aveva ricevuto contestazione disciplinare con cui gli
veniva comunicato che in seguito alla constatazione che erano stati
avviati a suo carico diversi procedimenti penali per gravi imputazioni,

prosecuzione del rapporto di lavoro.
Esponeva il ricorrente che si trattava di circostanze inerenti la sua
sfera personale e non quella lavorativa; che non vi era nessuna
sentenza di condanna passata in giudicato, sicché chiedeva la
declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli il 16 marzo
2000 e la reintegra nel suo posto di lavoro, oltre al risarcimento dei
danni ex art. 18 L. n. 300\70.
Si costituiva la società Poste deducendo che il ricorrente era stato
condannato in primo grado alla pena detentiva di mesi nove di
reclusione per il reato di usura, derivandone un grave

vulnus

all’elemento fiduciario, anche considerate le mansioni svolte presso la
società ed al pregiudizio che aveva pure subito l’affidamento da parte
del pubblico nel loro corretto svolgimento.
Il Tribunale accoglieva la domanda, considerando che l’art. 34 del
c.c.n.l. di categoria prevedeva in tali casi la sanzione espulsiva solo in
presenza di una sentenza penale di condanna passata in giudicato e
di una effettiva lesione del rapporto fiduciario.
Proponeva appello la società Poste; resisteva il De Pasquale.
Con sentenza del 20 giugno 2007, la Corte d’appello di Lecce
rigettava il gravame, condannando la società al pagamento delle
spese.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso quest’ultima,
affidato a due motivi, poi illustrati con memoria.
Il De Pasquale è rimasto intimato.
Motivi della decisione
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si era incrinato il rapporto di fiducia indispensabile per la

1.-Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 34 e 79 del c.c.n.l. di categoria del 1994,
nonché degli artt. 1362 e 2119 c.c., oltre ad omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il
giudizio.
Lamenta che i giudici di appello, ritennero erroneamente che,

licenziamento, oltre che nei casi disciplinati da altre specifiche
disposizioni contrattuali collettive,

anche nei casi in cui ricossero gli

estremi di cui all’art. 2119 c.c., la norma di cui all’art. 34 dovesse
comunque prevalere, dovendo la prima disposizione trovare
applicazione solo in mancanza di altre specifiche norme contrattuali
collettive in materia di licenziamento.
2. Il motivo è infondato.
L’art. 34 del c.c.n.l. prevede la sanzione del licenziamento per
comportamenti del lavoratore costituenti reato, accertati con
sentenza passata in giudicato, e laddove i fatti siano così gravi, avuto
riguardo alla natura del rapporto, alle mansioni ed al grado di
affidamento richiesto, da ledere la fiducia che il datore di lavoro deve
riporre nel suo dipendente.
L’art. 74 del c.c.n.l. stabilisce, per quanto qui interessa, che “la
risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, oltre che
nei casi già disciplinati da altre norme del presente contratto, può

avvenire: …d) per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. e per
giustificato motivo”.
L’inciso, ad avviso della Corte, non può avere altro significato, pena
l’inammissibile inutilità della clausola di cui all’art. 34, di quello che
per le ipotesi non previste specificamente dal c.c.n.l. quali causa di
licenziamento, l’azienda può sempre licenziare il dipendente ove
ricorrano i presupposti di cui all’art. 2119 c.c.
Le parti sociali hanno dunque inteso chiarire che le previsioni
contrattuali collettive in tema di licenziamento non hanno carattere
esaustivo. Laddove tuttavia un determinato comportamento sia
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nonostante l’art. 79 del c.c.n.l. prevedesse la possibilità di

specificamente previsto e sanzionato, in modo meno grave, da
apposita norma contrattuale collettiva, non può il giudice,
sostituendosi ad essa, ritenere legittima una sanzione più grave.
Di tal guisa i richiami della ricorrrente alla giurisprudenza di questa
Corte in materia di legittimità del licenziamento nei casi di
commissione di reato da parte del dipendente, non tengono conto

licenziamenti disciplinari, deve escludersi che, ove un determinato
comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come
giusta causa di licenziamento, sia specificamente contemplato dal
contratto collettivo come integrante una sanzione meno grave, essa
possa formare oggetto di una autonoma e più grave valutazione da
parte del giudice (ex plurimis, Cass. 17 giugno 2011 n. 13353).
L’art. 74, in combinato disposto con l’art. 34, consente invece alla
società di irrogare il licenziamento per giusta causa laddove oggetto
della contestazione non sia la sentenza penale non definitiva di
condanna in sé, ma i fatti, e la loro gravità, tali da incidere
irrimediabilmente sul rapporto fiduciario; elementi che vanno
evidentemente provati dal datare di lavoro.
Ne consegue che laddove sussista una sentenza penale irrevocabile,
la datrice di lavoro è liberata dall’onere di provare la sussistenza dei
fatti, dovendone comunque provare la gravità ai sensi dell’art. 2119
c.c., mentre laddove non sussista una sentenza di condanna
definitiva, la sola contestazione della condanna (non definitiva), non
può ritenersi legittimare di per sé la masssima sanzione.
Come corretttamente evidenziato dalla Corte territoriale, l’art. 34 del
c.c.n.l. prevede che i comportamenti del lavoratore costituenti reato
possono determinare l’adozione della sanzione espulsiva
subordinatamente alla ricorrenza di due concorrenti presupposti: da
un canto che i fatti ascritti al lavoratore siano previamente accertati
dal giudice penale con sentenza definitiva di condanna, e, dall’altro,
che essi siano così gravi, avuto riguardo alla natura del rapporto, alle
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del principio, parimenti pacifico, secondo cui in materia di

mansioni ed al grado di affidamento richiesto, da ledere la fiducia
che il datore di lavoro deve riporre nel suo dipendente.
Tale secondo presupposto, peraltro, già evoca il concetto di giusta
causa di cui all’art. 2119 c.c., sicché deve escludersi che le parti
sociali abbiano poi inteso stabilire comunque, il licenziamento per
giusta causa per fatti costituenti reato ma non accertati in via

della sua efficacia precettiva, in contrasto con il canone di cui all’art.
1367 c.c.
Nella specie al De Pasquale venne solo contestata l’esistenza di una
condanna penale non definitiva, nonché la pendenza di “ulteriori
procedimenti penali” ( “Il Tribunale penale di Taranto ha partecipato
a questa socità che la S.V., con sentenza del depositata il 25.10.99, è
stata dichiarata colpevole del reato di cui all’art. 644 c.p. con
condanna alla pena di nove mesi di reclusione ed a L. 4,500.000 di
multa. Inoltre a Suo carico pendono ulteriori procedimenti penali per
reati previsti dagli artt. 368 e 595 c.p….”).
La mera aggiunta che “la gravità dei reati di cui sopra è tale da
incrinare irrimediabilmente il rapporto di fiducia”, oltre a non
assolvere alla prova dei fatti contestati, non è idonea a dimostrare la
lesione del vincolo fiduciario.
Il ricorso deve in definitiva rigettarsi.
Le spese di lite, come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente ai pagamentro delle spese
del presente giudizio di legittimità, pari ad E.50,00 per esborsi ed
E,3.500,00 per compensi, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 12 dicembre 2012
L’estensore

Il Presidente

definitiva dal giudice penale, privando l’art. 34, sotto questo profilo,

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