Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4545 del 11/02/2022

Cassazione civile sez. lav., 11/02/2022, (ud. 23/11/2021, dep. 11/02/2022), n.4545

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18963-2016 proposto da:

AVANTGARDE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso lo

studio dell’avvocato RAFFAELE DE LUCA TAMAJO, che la rappresenta e

difende unitamente agli avvocati FEDERICA PATERNO’, FRANCO

TOFFOLETTO;

– ricorrente –

contro

M.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI

SCIPIONI 268/A, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO ANTONINI, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIORGIO BORRI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 451/2016 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 12/05/2016 R.G.N. 706/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/11/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA.

 

Fatto

RILEVATO

che

1. il giudice di primo grado, in accoglimento della domanda di M.C., ha condannato Avantgarde s.p.a. al pagamento in favore della ricorrente, in ragione dell’intercorso rapporto di agenzia, della somma di Euro 46.690,27 a titolo di indennità suppletiva di clientela prevista dall’Accordo economico collettivo- settore industria del 20 marzo 2002, di Euro 570,69 per indennità di risoluzione (FIRR) e di Euro 4.200,00 a titolo di premio (OMISSIS);

2. la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della decisione di primo grado nel resto confermata, ha dichiarato cessata la materia del contendere in ordine al capo di condanna relativo al Premio (OMISSIS);

2.1. la Corte distrettuale, per quel che ancora rileva, ha escluso la nullità dell’Accordo Economico Collettivo 2002, pacificamente applicabile alla fattispecie, nullità prospettata dalla preponente con riferimento alle previsioni della Dir. n. 86/653/CEE, in tema di indennità spettante all’agente in ipotesi di cessazione del rapporto di agenzia; ha ritenuto infatti che se tale nullità era collegata al fatto che l’indennità prevista dalle pattuizioni collettive non garantiva quanto l’agente avrebbe potuto ottenere in applicazione dell’art. 1751 c.c., comma 3 (nel testo riformulato in attuazione della citata Direttiva) tale lacuna risultava superata dal fatto che le parti stipulanti l’Accordo citato avevano introdotto una componente meritocratica nel prevedere in favore dell’agente la indennità suppletiva di clientela; tale componente realizzava quella condizione di vantaggio per l’agente che a mente dell’art. 1751 c.c., comma 6, consentiva all’autonomia collettiva la deroga alla disposizioni codicistiche del citato art., comma 1, regolanti il diritto dell’agente che avesse procurato nuovi clienti alla preponente o sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti, nella ipotesi in cui in capo alla preponente permanessero sostanziali vantaggi dagli affari con detti clienti, ad un’indennità il cui pagamento risultasse equo, tenuto conto delle circostanze del caso concreto ed in particolare delle provvigioni che l’agente avrebbe perduto in relazione agli affari con detti clienti; la verifica, a mente dell’art. 1751 c.c., comma 6, della “vantaggiosità” per l’agente della disciplina pattizia, richiedeva, in coerenza con il canone dell’equità, “altro perno del sistema comunitario recepito nel detto art. 1751 c.c. “, una valutazione ex post e non ex ante, in base alle concrete circostanze; non era condivisibile la prospettata nullità per non essere la legge e la direttiva derogabili dalle parti sociali in quanto tali fonti non stabilivano un criterio di liquidazione, per cui non era dato comprendere perché la questione non potesse essere demandata alle parti collettive; nello specifico l’AEC 2002 conteneva una regolamentazione dell’indennità da ritenersi in ogni caso – già come astrattamente prevista – più vantaggiosa o comunque di pari vantaggio per l’agente rispetto a quella codicistica; l’opzione interpretativa accolta comportava l’assorbimento della ulteriore questione formulata dall’appellante con la critica alla sentenza di primo grado per avere ritenuto non contestati i requisiti previsti dall’art. 1751 c.c., comma 1; il relativo esame risultava infatti superfluo a fronte del fatto che l’agente non aveva fatto richiesta della quota meritocratica prevista dall’AEC;

3. per la cassazione della decisione ha proposto ricorso Avantgarde s.p.a. sulla base di un unico articolato motivo; la parte intimata ha resistito con controricorso da considerarsi tardivo in quanto avviato per la notifica il 19 settembre 2016 e quindi in violazione del termine di cui all’art. 370 c.p.c., comma 1, decorrente dalla notifica del ricorso per cassazione effettuata a mezzo p.e.c. in data 5 agosto 2016;

4. il PG ha depositato requisitoria scritta con la quale ha concluso per il rigetto del ricorso;

5. parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1. c.p.c., sia in relazione alla adunanza camerale originariamente fissata per la data del 21 gennaio 2021 sia in relazione all’adunanza camerale del 23 novembre 2021.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con l’unico motivo di ricorso la società Avantgarde s.p.a. deduce violazione o falsa applicazione della Dir. n. 86/653 CEE, artt. 17 e 19, così come interpretati dalle sentenze della Corte di giustizia del 9 novembre 2000, C- 381/1998, del 23 marzo 2006 C465/2004, del 26 marzo 2009 C-348/07, dell’art. 249 TUE, dell’art. 117 Cost., dell’art. 12 preleggi, degli artt. 1751 e 1419 c.p.c., dell’art. 1362 c.c. e ss.;

1.1. parte ricorrente, richiamati i principi in tema di primato del diritto comunitario e di obbligo del giudice nazionale di adottare un’interpretazione conforme ai principi e agli scopi della Direttiva, richiamata la giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di obbligo per il giudice nazionale di disapplicazione del diritto interno in ipotesi di contrasto con il diritto comunitario (ora Eurounitario) e della necessità per il giudice nazionale, in caso di attuazione non corretta o parziale di una Direttiva comunitaria, di dare prevalenza al significato ed all’applicazione della medesima o a quello della norma di attuazione, sempreché che questa fosse compatibile con il risultato perseguito dalla disciplina comunitaria, ha ritenuto che nel caso di specie la Corte di merito non si fosse attenuta a tali principi; ha in particolare censurato la sentenza impugnata per avere affermato: a) che né la direttiva né l’art. 1751 c.c., contenevano un criterio di determinazione della indennità di cessazione del rapporto; b) che pertanto il giudice poteva ricorrere alla determinazione della indennità facendo applicazione dell’AEC 2002; c) che le previsioni collettive erano valide ex art. 1751 c.c., in quanto la valutazione di maggiore favorevolezza andava effettuata ex post e non ex ante per cui il sistema introdotto dall’AEC si configurava quale minimo garantito;

1.2. in relazione al primo profilo parte appellante sostiene che la Dir. n. 86/653/CEE, art. 17, contiene i criteri di determinazione dell’indennità di fine rapporto e che essi sono inderogabili non solo dalle parti collettive ma anche dal legislatore nazionale; richiama in particolare la Relazione della Commissione Europea del 23 luglio 1996 sull’applicazione della citata Dir., art. 17, predisposta in attuazione del relativo comma 6, Relazione costituente fonte del diritto comunitario, recante specifiche indicazioni in ordine alle fasi e modalità di determinazione della indennità in questione e anche in ordine al fatto che l’importo della indennità non poteva comunque superare il limite massimo stabilito dall’art. 17 comma 2 (corrispondente sostanzialmente ad un anno di provvigioni); in questa prospettiva sostiene la non integrale attuazione della Direttiva da parte dello Stato Italiano in conseguenza degli interventi legislativi che avevano determinato la riformulazione dell’art. 1751 c.c., per non avere il legislatore nazionale esplicitato che la indennità di clientela spettava in presenza dei prescritti requisiti nella misura in cui erano conseguiti vantaggi al preponente; tanto imponeva una interpretazione conforme alla Dir. n. 86/653/CEE della norma codicistica;

1.3. in relazione al secondo profilo attinente alla verificabilità ex post o ex ante della favorevolezza, parte ricorrente richiama la sentenza della Corte di Giustizia 2004 – causa Honyvem De Zotti-resa in seguito a rinvio pregiudiziale formulato dalla Corte di cassazione, la quale aveva chiarito che la deroga in melius rispetto alla disciplina legale era consentita solo attraverso una verifica ex ante e non ex post della norma pattizia adottata in deroga alla Direttiva comunitaria; sostiene che l’art. 10 AEC, prevedeva un’indennità per lo scioglimento del contratto di agenzia completamente diversa per presupposti e modalità di calcolo a quella dettata dalla Dir. n. 86/653/CEE, in quanto sostanzialmente basata sulla durata del rapporto e sull’ammontare delle provvigioni secondo quanto stabilito dal successivo art. 11, in tema di individuazione del valore dell’incremento e del relativo tasso; in questa prospettiva assume la nullità della disciplina pattizia in quanto non allineata alla Direttiva comunitaria e sostiene che, stante la dichiarazione delle parti collettive in merito alla inscindibilità e correlatività delle clausole pattizie, il rilievo della nullità degli istituti ex art. 10, I, e II, lett. A) travolgeva anche la previsione dell’art. 10, II, lett. B;

1.4. in relazione alle prospettate tesi difensive formula richiesta di rinvio alla Corte di Giustizia e di rimessione alla Corte costituzionale;

2. il motivo di ricorso è infondato;

2.1. occorre innanzitutto premettere che, secondo quanto emerge dallo storico di lite del ricorso per cassazione, con la originaria domanda la M., per quel che qui rileva, aveva chiesto in tesi la condanna della società preponente al pagamento della indennità suppletiva di clientela, nella misura di Euro 46.522,26 ex art. 10, Capo II, lett. A), AEC 2002 settore industria ed in ipotesi la condanna della residua indennità di cessazione del rapporto nella misura di Euro 43.292,34 ex art. 1751 c.c.;

2.2. il giudice di primo grado con statuizione confermata dal giudice di appello ha riconosciuto il diritto dell’agente alla indennità nella maggiore misura richiesta sulla base della norma collettiva;

2.3. secondo quanto evincibile dal riferimento al Capo II, lett. A) AEC quale titolo giustificativo del petitum, la domanda avanzata dall’agente concerneva la indennità suppletiva di clientela nella componente per così dire non meritocratica, come del resto rilevato dal giudice d’appello (v. sentenza, ultima pagina, primo capoverso);

2.4. con l’AEC 2000, art. 10, recante la disciplina delle indennità per lo scioglimento del contratto di agenzia, le parti collettive, in dichiarata applicazione dell’art. 1751 c.c. “anche in riferimento alle previsioni della Dir. CEE n. 86/653, art. 17”, stabilivano di individuare “con funzione suppletiva modalità e criteri applicativi, particolarmente per quanto attiene alla determinazione in concreto della misura dell’indennità in caso di cessazione del rapporto, e introducendo nel contempo condizioni di miglior favore per gli agenti e rappresentanti di commercio, sia per quanto riguarda i requisiti per il riconoscimento dell’indennità, sia per ciò che attiene al limite massimo dell’indennità, stabilito dal predetto art. 1751 c.c., comma 3”. A tal fine convenivano che l’indennità di scioglimento del rapporto fosse composta da due emolumenti: l’uno denominato indennità di risoluzione del rapporto, riconosciuto all’agente anche in assenza da parte sua di incremento della clientela e/o del fatturato, rispondente principalmente al criterio dell’equità; l’altro, denominato indennità suppletiva di clientela, collegato invece all’incremento della clientela e/o del fatturato e inteso a premiare essenzialmente la professionalità dell’agente;

stabilivano quindi che la complessiva indennità venisse computata “su tutte le somme, comunque denominate, percepite dall’agente nel corso del rapporto, nonché sulle somme per le quali, al momento della cessazione del rapporto, sia sorto il diritto al pagamento in favore dell’agente o rappresentante, anche se le stesse non siano state in tutto o in parte ancora corrisposte.”; l’indennità di risoluzione del rapporto – riconosceva il diritto dell’agente ad un’indennità calcolata in ragione delle provvigioni annualmente maturate, secondo percentuali analiticamente determinate sulla base di scaglioni riferiti alla quota di provvigioni tenendo conto della esistenza o meno di un obbligo di esclusiva per una sola ditta; l’indennità suppletiva di clientela, prevista in aggiunta all’indennità di risoluzione, era a sua volta costituita da due componenti: la “quota A)” calcolata sull’ammontare globale delle provvigioni e delle altre somme corrisposte o comunque dovute all’agente o rappresentante fino alla data di cessazione del rapporto, secondo determinate aliquote; “la quota B)” costituita da un ulteriore importo a titolo di indennità suppletiva di clientela, da aggiungersi al precedente e da riconoscersi all’agente “a condizione che, alla cessazione del contratto, egli abbia apportato nuovi clienti al preponente e/o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti, in modo da procurare al preponente anche dopo la cessazione del contratto sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti…”;

2.5. non appare revocabile in dubbio che le parti collettive con la introduzione della quota B) della indennità suppletiva, non prevista dagli Accordi collettivi precedenti, abbiano inteso superare i problemi di compatibilità comunitaria che si erano posti in relazione alla precedente disciplina pattizia la quale non riconosceva all’agente cessato il diritto ad una specifica indennità che tenesse conto dei sostanziali vantaggi arrecati alla preponente per effetto dell’incremento di fatturato o dell’apporto di nuovi clienti come previsto dalla normativa comunitaria che contemplava (art. 17) l’obbligo degli Stati membri di introdurre nei rispettivi ordinamenti giuridici un’indennità in favore di “alcuni” agenti all’atto dell’estinzione del contratto: i più “meritevoli”, ossia quelli che avessero procurato nuovi clienti al preponente o avessero sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente avesse ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti;

2.6. la Corte di Giustizia CEE, investita dal giudice di legittimità italiano delle questioni interpretative della Dir. del Consiglio 18 dicembre 1986, n. 86/653, artt. 17 e 19, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti (Cass. n. 20410/2004) ha deciso la questione pregiudiziale con sentenza 23-3- 2006, in causa C-465/04. In questa ha affermato che la Dir., art. 19, deve essere interpretato nel senso che l’indennità di cessazione del rapporto che risulta dall’applicazione dell’art. 17, n. 2, non può essere sostituita, in applicazione di un accordo collettivo, da un’indennità determinata secondo “criteri diversi” da quelli fissati da quest’ultima disposizione a meno che non sia provato che l’applicazione di tale accordo garantisce, in ogni caso, all’agente commerciale un’indennità pari o superiore a quella che risulterebbe dall’applicazione della detta disposizione. Ed ha aggiunto che all’interno dell’ambito fissato dalla Dir. n. 86/653, art. 17, n. 2, gli Stati membri godono di un potere discrezionale che essi sono liberi di esercitare, in particolare, con riferimento al criterio dell’equità.

Pertanto, il criterio “meritocratico” trasposto nell’art. 1751 c.c., è indefettibile; altri criteri sono ammissibili solo se il calcolo risulti in concreto più favorevole per l’agente;

2.7. questa Corte, decidendo la controversia di cui era stata disposta la sospensione in attesa della risoluzione della questione pregiudiziale di interpretazione della Direttiva comunitaria (Cass. 24 luglio 2007, n. 16347), ha affermato il principio di diritto secondo cui “l’art. 1751 c.c., comma 6, nel testo sostituito dal D.Lgs. 10 settembre 1991, n. 303, n. 4 (attuativo della predetta direttiva comunitaria), va inteso nel senso che il giudice deve sempre applicare la normativa che assicuri all’agente, alla luce delle vicende del rapporto concluso, il risultato migliore, siccome la prevista inderogabilità a svantaggio dell’agente comporta che l’importo determinato dal giudice ai sensi della normativa legale deve prevalere su quello, inferiore, spettante in applicazione di regole pattizie, individuali o collettive. Ne consegue, pertanto, che l’indennità contemplata dall’Accordo economico collettivo del 27 novembre 1992 rappresenta per l’agente un trattamento minimo garantito, che può essere considerato di maggior favore soltanto nel caso che, in concreto, non spetti all’agente l’indennità di legge in misura inferiore”;

2.8. tanto premesso, deve rilevarsi che le censure incentrate sulla incompatibilità comunitaria dell’Accordo collettivo 2000 – settore industria- in relazione alla ” indennità meritocratica” prevista dalla Dir., art. 17, risulta priva di diretto rilievo in relazione alla res controversa nel presente giudizio, posto che con la originaria domanda la M. ha chiesto in via principale oltre che la quota cd. FIRR la sola quota A) dell’indennità suppletiva, con esclusione quindi di ogni pretesa connessa ad eventuali vantaggi sostanziali arrecati alla preponente per effetto di incremento di fatturato o del portafoglio clienti; tanto rende inconferenti le deduzioni della odierna ricorrente, sia in punto di “non allineamento” della clausola collettiva alla indicazione comunitaria riveniente dai criteri di determinazione della indennità Direttiva, ex art. 17, sia in ordine alla necessità che la verifica del maggior favore per l’agente art. 1751 c.c., ex comma 6, della disciplina pattizia rispetto a quella codicistica venga effettuata, in conformità delle indicazioni della Corte di Giustizia, ex ante e non ex post, come viceversa ritenuto dalla Corte di merito; ciò in quanto – si ribadisce – la M. si è limitata a chiedere la quota A) dell’indennità suppletiva di clientela, quota che per finalità e struttura della clausola collettiva non è destinata a sostituire, attraverso il meccanismo derogatorio prefigurato dall’art. 1751 c.c., comma 6, la indennità di risoluzione di cui al citato art. 1751, per essere tale funzione sostitutiva ascritta nelle intenzioni delle parti contraenti esclusivamente alla componente meritocratica – quota B), della indennità suppletiva di clientela;

2.9. ciò posto in relazione all’ulteriore tema di censura sviluppato dalla odierna ricorrente (v. in particolare ricorso pag. 40 e ss.), con il quale si adombra, in sintesi, il contrasto delle clausole 10 e 11 dell’Accordo collettivo con la norma comunitaria sul rilievo che in base alla Direttiva l’unica indennità riconoscibile all’agente in caso di cessazione del rapporto di agenzia è quella giustificata dal permanere di sostanziali vantaggi in capo alla preponente, laddove sia l’indennità di risoluzione che la indennità suppletiva di clientela nella componente A), contemplate dall’Accordo collettivo, prescindono da tale condizione, se ne rileva la infondatezza alla luce di quanto chiarito dalla giurisprudenza comunitaria in tema di limiti ed obiettivi della Dir. n. 86/653 /CEE;

2.10. come già chiarito dal giudice di legittimità (Cass. n. 31394 del 2019) la Direttiva in oggetto non ha posto un limite inderogabile quanto ai presupposti dell’istituto dell’indennità di fine rapporto, come sostenuto dalla difesa della società: la normativa Europea ha posto, infatti, unicamente un limite di inderogabilità

esclusivamente in senso peggiorativo per l’agente, lasciando liberi invece gli Stati membri (e l’autonomia collettiva, in base a quanto stabilito dai principi generali) di introdurre normative di favore (art. 19: “Le parti non possono derogare… agli artt. 17 e 18, a detrimento dell’agente commerciale”);

2.11. questa interpretazione trova conforto nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea la quale ha costantemente affermato che la Direttiva in questione mira a tutelare gli agenti commerciali nelle loro relazioni con i preponenti, oltre che a promuovere la sicurezza delle operazioni commerciali e a facilitare gli scambi di merci tra Stati membri ravvicinando i sistemi giuridici di questi ultimi in materia di rappresentanza commerciale, (v. in particolare, C. Giustizia C-465/2004, punto 19 e C. Giustizia C-315/2016, punto 33 e giurisprudenza comunitaria ivi richiamata,); ciò posto, la (implicita) considerazione della posizione di maggiore debolezza dell’agente nei confronti del preponente e la correlata esigenza di tutela avvertita dal legislatore comunitario non consentono di ritenere, in difetto di una chiara indicazione di segno diverso nel testo comunitario, che il citato art. 17, operi anche nel senso di precludere il riconoscimento, peraltro realizzato in via contrattuale, in favore dell’agente di emolumenti aggiuntivi, collegati alla cessazione del rapporto di agenzia, non condizionati dai requisiti “meritocratici” previsti in relazione alla specifica indennità regolata dal legislatore comunitario (v. C. Giustizia C-465/2004, punto 31, in tema di possibilità di riconoscimento all’agente di emolumenti ulteriori rispetto alla indennità ex art. 17);

2.12. in questa sede, in cui non si controverte della indennità cd meritocratica di cui alla Dir., art. 17, non può venire in rilievo la questione del complessivo carattere di maggior favore o meno della disciplina della indennità di risoluzione complessivamente prefigurata dall’Accordo collettivo, questione che è strettamene connessa alla verifica della idoneità della quota B), nel meccanismo di determinazione stabilito dalla norma collettiva, ad assicurare all’agente un risultato comunque conforme all’obiettivo ed ai criteri indicati dalla direttiva;

2.13. in base a tutte le considerazioni che precedono deve escludersi che ricorrano le condizioni per farsi luogo al rinvio interpretativo alla Corte di Giustizia, come richiesto dalla società, al fine di stabilire se la formulazione dell’art. 1751 c.c., nella parte in cui non prevede che l’indennità sia dovuta anche nella misura in cui siano stati arrecati sostanziali vantaggi alla preponente, sia effettivamente attuativa della Direttiva (v. ricorso, pag. 47); per identica motivazione deve escludersi la necessità di rinvio pregiudiziale del Trattato dell’Unione Europea, ex art. 267, per l’interpretazione della Dir. n. 86/653/CEE, art. 17, per accertare la conformità alla Dir., art. 19, della giurisprudenza di legittimità laddove ritiene che la verifica della disciplina di maggior favore per l’agente debba essere effettuata sulla base di un giudizio ex post e non ex ante (ricorso, pag. 48); infine, priva di rilevanza in relazione all’oggetto di causa è la questione di costituzionalità che prospetta il contrasto con gli artt. 76 e 117 Cost., della L. delega n. 428 del 1990, artt. 1,2 e 15, con la quale si era inteso dare attuazione (anche) alla Dir. n. 86/653/CEE;

3. non si fa luogo al regolamento delle spese di lite stante la tardività del controricorso;

4. sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-bis (Cass. Sez. Un. n. 23535 del 2019).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 23 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2022

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