Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4537 del 11/02/2022

Cassazione civile sez. lav., 11/02/2022, (ud. 20/10/2021, dep. 11/02/2022), n.4537

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. BUFFA Francesco – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4204-2016 proposto da:

RCB S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso lo

studio dell’avvocato FEDERICA PATERNO’, che la rappresenta e difende

unitamente agli avvocati MARIA TERESA SALIMBENI, RAFFAELE DE LUCA

TAMAJO, GIACOMO DE FAZIO;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S., – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e

quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. – Società di

Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati GIUSEPPE

MATANO, CARLA D’ALOISIO, ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, ESTER ADA

SCIPLINO, EMANUELE DE ROSE;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 479/2015 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 03/08/2015 R.G.N. 1101/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/10/2021 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che, con sentenza depositata il 3.8.2015, la Corte d’appello di Torino, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato l’opposizione proposta da R.C.B. s.p.a. avverso la cartella esattoriale con cui le era stato ingiunto di pagare all’INPS somme per contributi omessi in danno di tre lavoratrici associate in partecipazione e di una collaboratrice a progetto, ritenute tutte lavoratrici subordinate;

che avverso tale pronuncia R.C.B. s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo sei motivi di censura;

che l’INPS ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che, con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione degli artt. 2697,2699 e 2700 c.c., art. 116 c.p.c. e art. 111 Cost., per avere la Corte di merito ritenuto che alle dichiarazioni rese dalle lavoratrici in sede di accesso ispettivo potesse attribuirsi maggior valore probatorio rispetto alle contrastanti deposizioni testimoniali da loro stesse rese in giudizio, ancorché si tratti di prove atipiche semmai utilizzabili come argomento di prova;

che, con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2549,2552,2553 e 2554 c.c., nel testo vigente all’epoca della stipula dei contratti di associazione in partecipazione (giugno 2010), per avere la Corte territoriale ritenuto che, ai fini della configurabilità di un valido contratto di associazione in partecipazione, fossero necessarie sia la partecipazione dell’associato alle perdite d’impresa che la sua ingerenza nella gestione della medesima;

che, con il terzo motivo, la ricorrente si duole di violazione e falsa applicazione dell’art. 2550 c.c. per avere la Corte di merito ritenuto che il consenso di alcuna delle associate all’associazione di altre dovesse essere espresso in forma scritta;

che, con il quarto motivo, la ricorrente deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio per non avere la Corte territoriale considerato che l’associata, che in ipotesi avrebbe dovuto prestare il consenso per iscritto, si era dimessa prima ancora della stipulazione del contratto di associazione in partecipazione con le altre due associate;

che, con il quinto motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. per avere la Corte di merito ritenuto applicabile la disciplina del rapporto di lavoro subordinato ancorché non vi fosse prova dell’assoggettamento delle associate al potere gerarchico e disciplinare dell’impresa, avendo piuttosto i testi riferito di suggerimenti circa le modalità di esposizione della merce, della libertà di assentarsi dal lavoro, dell’assenza di orari e di ampi margini di auto-organizzazione tra le associate stesse in ordine alla presenza in servizio, alla concessione di sconti e alla gestione degli approvvigionamenti;

che, con il sesto motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, per avere la Corte territoriale ritenuto che la norma cit., anche nel testo vigente prima della modifica apportata dalla L. n. 92 del 2012, comportasse l’automatica conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato dei contratti a progetto mancanti di specifico progetto, senza possibilità di prova contraria;

che, con riguardo al primo motivo, va preliminarmente ricordato che la costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità, nel reputare ammissibili le prove atipiche, ne riconosce rilevanza esclusivamente in relazione alla maggiore o minore efficacia probatoria ad esse riconosciuta dal giudice di merito (così da ult. Cass. n. 8459 del 2020); che le dichiarazioni provenienti da terzi e raccolte nei verbali redatti dai funzionari degli enti previdenziali costituiscono materiale probatorio che è liberamente valutabile e apprezzabile dal giudice, unitamente alle altre risultanze istruttorie raccolte o richieste dalle parti (così, tra le innumerevoli, Cass. n. 9251 del 2010), esulando dal sindacato di legittimità la valutazione compiuta dal giudice di merito che abbia valorizzato le dichiarazioni rese dagli informatori agli ispettori nel confronto con le ulteriori emergenze processuali, tra cui le deposizioni testimoniali rese in giudizio, e salvo che si lamenti omesso esame circa un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., n. 5 (così da ult. Cass. n. 3634 del 2020, in motivazione);

che, proponendosi il motivo in esame di censurare precisamente la “prevalente efficacia probatoria” attribuita dai giudici territoriali alle dichiarazioni rese dalle lavoratrici nel corso dell’audizione resa agli ispettori del lavoro, ne va senz’altro rilevata l’inammissibilità;

che, con riguardo al secondo motivo, va ricordato che la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro effettuata dal giudice di merito è censurabile in sede di legittimità soltanto limitatamente alla scelta dei parametri normativi di sussunzione, mentre l’accertamento degli elementi che rivelano l’effettiva presenza del parametro stesso nel caso concreto attraverso la valutazione delle risultanze processuali e che sono idonei a ricondurre le prestazioni ad uno dei modelli legali costituisce apprezzamento di fatto, che resta insindacabile in cassazione se non nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5;

che, al riguardo, la Corte territoriale ha per un verso accertato che le lavoratrici associate in partecipazione avevano percepito “una somma fissa mensile” senza alcun conguaglio rispetto agli utili (la partecipazione al 10% dei quali, giusta la lettera del contratto, avrebbe dovuto invece costituire la base di riferimento per il loro compenso), e per un altro verso che gli unici due rendiconti depositati in atti, che “non risultano né sottoscritti né tantomeno approvati dalle lavoratrici”, appaiono “elaborati unicamente al fine di accreditare la genuinità dell’associazione in partecipazione” (così la sentenza impugnata, pagg. 19 e 21);

che affatto correttamente i giudici territoriali hanno ritenuto che tale accertamento di fatto implicasse l’assenza di un’effettiva partecipazione al rischio di impresa, da cui l’assenza di uno dei requisiti che indefettibilmente devono ricorrere per la configurabilità della fattispecie negoziale di cui al contratto formalmente stipulato tra le parti (cfr. in tal senso da ult. Cass. n. 26273 del 2020);

che, con riguardo al terzo motivo, va rilevato che la sentenza impugnata, lungi dall’affermare che il consenso necessario ex art. 2550 c.c. dovesse constare per iscritto, ha piuttosto accertato come nessun consenso all’associazione delle altre colleghe risultasse prestato dalla lavoratrice D.L.;

che, non risultando quando e come la possibilità di un consenso tacito e/o di un’acquiescenza alla determinazione datoriale sia stata veicolata in giudizio, la censura di cui al motivo in esame risulta inammissibile;

che del pari inammissibile risulta la censura di cui al quarto motivo, non potendo certo attribuirsi al fatto ivi denunciato alcun carattere decisivo, ossia idoneo a sovvertire il complesso accertamento di fatto condotto dai giudici di merito alle pagg. 17-22 della sentenza impugnata al fine di escludere la ricorrenza in specie di un valido contratto di associazione in partecipazione con la lavoratrice in questione;

che, con riguardo al quinto motivo, va ricordato che, per costante orientamento di questa Corte di legittimità, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità se non nei ristretti limiti dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. tra le più recenti Cass. nn. 24155 del 2017, 3340 del 2019);

che, nella specie, il motivo di censura incorre precisamente nella confusione dianzi chiarita, dal momento che, pur essendo formulato con riguardo ad una presunta violazione dell’art. 2094 c.c., pretende di criticare l’accertamento di fatto che la Corte territoriale ha compiuto al fine di qualificare i rapporti oggetto del giudizio entro il paradigma della prestazione di lavoro subordinato (cfr. particolarmente pag. 25 del ricorso per cassazione in relazione alle pagg. 2332 della sentenza impugnata);

che affatto infondato, infine, è il sesto motivo, essendosi chiarito che il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1, anche nella versione antecedente le modifiche di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 23, lett. f), si interpreta nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione, ma ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso (così, fra le più recenti, Cass. nn. 17707 del 2020 e 8142 del 2017, sulla scorta di Cass. nn. 9471 e 12820 del 2016);

che il ricorso, pertanto, va rigettato, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza;

che, in considerazione del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 2.200,00, di cui Euro 2.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 20 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2022

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