Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 453 del 13/01/2021

Cassazione civile sez. III, 13/01/2021, (ud. 25/09/2020, dep. 13/01/2021), n.453

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12247-2018 proposto da:

V.B., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DI

PIETRA 26, presso lo studio dell’avvocato DANIELA JOUVENAL,

rappresentata e difeso dall’avvocato MICHELE SABATINO;

– ricorrente –

contro

A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLE MILIZIE

38, presso lo studio dell’avvocato ENRICO VITALI, rappresentato e

difeso dall’avvocato GIUSEPPE FAUSTO ELIA MILAZZO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1603/2017 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 23/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

25/09/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. V.B. ricorre, sulla base di quattro motivi, per la cassazione della sentenza n. 1603/17, del 23 ottobre 2017, della Corte di Appello di Palermo, che – dichiarato inammissibile il gravame dalla stessa esperito avverso la sentenza n. 3816/15, del 21 agosto 2015, del Tribunale di Palermo – ha confermato sia il rigetto della domanda di risoluzione per inadempimento, proposta dall’odierna ricorrente contro A.A. in relazione alla locazione, ad uso commerciale, di un immobile sito nel capoluogo (OMISSIS), sia l’accoglimento della domanda riconvenzionale dello stesso, così condannando la V. a restituire a costui la somma indebitamente percepita, pari a Euro 22.775,00, oltre interessi.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di aver adito il Tribunale palermitano, nell’anno 2014, chiedendo la convalida dello sfratto, per morosità dell’ A. nel pagamento dei canoni di locazione, erroneamente indicando quale titolo del rapporto corrente “inter partes” il solo contratto sottoscritto il 1 dicembre 2006 e registrato il successivo 12 dicembre, e non pure quello del 3 gennaio 2006, registrato in data 6 febbraio, relativo ad altra porzione dello stesso immobile. In particolare, tale ulteriore porzione immobiliare – della quale l’ A. si era reso locatario in forza di cessione del contratto, unitamente all’azienda gestita presso il suddetto immobile di (OMISSIS), operato dalla precedente conduttrice (tale U.M.), e ciò giusta cessione di azienda del 27 novembre 2006 – era divenuta di proprietà della V., in virtù di rogito notarile del 28 febbraio 2007.

Proposta dal conduttore opposizione alla domanda di sfratto, disposta dal giudice la conversione del rito, la V. allegava – nella memoria depositata ai sensi dell’art. 426 c.p.c. – l’esistenza di tale secondo contratto di locazione (chiarendo, così, che l’importo di Euro 2.150,00, indicato nel ricorso introduttivo quale canone locatizio mensile, altro non era se non la somma degli importi previsti da ciascuno dei due titoli negoziali). Il convenuto, per parte propria, oltre ad eccepire la tardività della produzione dell’ulteriore titolo contrattuale, ribadiva la riconvenzionale proposta, avente ad oggetto la restituzione delle somme percepite dalla locatrice, a dire dell’ A. indebitamente, giacchè versatele in misura eccedente rispetto a quanto risultante dal solo contratto di locazione allegato al ricorso per convalida di sfratto.

Orbene, il giudice di prime cure, mentre rigettava la domanda di risoluzione del contratto per morosità del conduttore, accoglieva la riconvenzionale, condannando la V. – come detto in premessa – a restituire all’ A. la somma pari a Euro 22.775,00, oltre interessi.

Esperito gravame dall’attrice soccombente avverso tale decisione (e ciò sul presupposto che la sentenza avrebbe ripercorso una vicenda diversa da quella per cui era stata causa, essendosi il primo giudice “dilungato unicamente a motivare una problematica relativa all’adeguamento ISTAT che era solo marginale nel giudizio”), il giudice di appello lo dichiarava inammissibile, ai sensi dell’art. 342 c.p.c.

3. Avverso la pronuncia della Corte panormita ricorre per cassazione la V., sulla base – come detto – di quattro motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – si denuncia “nullità della sentenza e del procedimento” per “violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c.”.

Si censura la decisione della Corte territoriale per essere pervenuta alla conclusione dell’inammissibilità dell’appello ex art. 342 c.p.c. sul rilievo che l’allora appellante non avesse indicato “espressamente quali le parti della sentenza intende(sse) impugnare”, essendosi, piuttosto, limitato “a lamentare che il primo giudice avrebbe esaminato “una vicenda che non appare quella per cui è stata causa””.

Ciò premesso, la ricorrente, richiamandosi a quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (è citata Cass. Sez. Un., sent. 16 novembre 2017, n. 27199), evidenzia come l’osservanza dell’art. 342 c.p.c. non implichi alcun “vacuo formalismo”, nè, tantomeno, “una trascrizione integrale o parziale della sentenza impugnata”, richiedendo solo la “chiara ed inequivoca indicazione delle censure”, la cui “maggiore o minore ampiezza” si pone come “diretta conseguenza della motivazione assunta dalla decisione di primo grado”, sicchè, quando “le argomentazioni della sentenza impugnata dimostrino che le tesi della parte non sono state in effetti vagliate, l’atto di appello potrà anche consistere, con i dovuti adattamenti, in una ripresa delle linee difensive del primo grado”.

Orbene, nella specie – assume la V. – “la questione da risolvere in primo grado era tutta incentrata sulla sussistenza di un secondo contratto di locazione”, sicchè era sufficiente dolersi, con l’atto di appello, che il Tribunale, del tutto “inspiegabilmente”, aveva “omesso ogni vaglio di quella questione nel decidere sulla domanda di risoluzione e su quella riconvenzionale di restituzione di indebito”.

Il gravame esperito, dunque, nel lamentare che il primo giudice aveva esaminato “una vicenda che non appare quella per cui è stata causa”, risultava rispettoso dell’art. 342 c.p.c., essendo stato evidenziato “che gli argomenti e le valutazioni del primo giudice erano avulse dalle questioni dibattute”, e ciò anche in considerazione del fatto che alla Corte territoriale non era inibito, come lo è invece alla Corte di Cassazione, leggere gli atti processuali del precedente grado.

D’altra parte, poi, la statuizione di violazione dell’art. 342 c.p.c. non poteva essere neppure basata sul rilievo della mancata indicazione delle parti della sentenza di primo grado gravate con l’appello, essendo, nella specie, “ben comprensibile” che quello dell’appellante fosse “l’intendimento di censurare la sentenza nel suo complesso”.

3.2. Il secondo motivo denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – “nullità della sentenza e del procedimento” per “violazione e falsa applicazione dell’art. 111 c.p.c., comma 6, e dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4).

Nell’ipotesi in cui si ritenesse di ravvisare – nella sentenza impugnata – una (seconda) “ratio decidendi” di rigetto del gravame, costituita dall’affermazione secondo cui l’appellante ebbe a fondare le proprie pretese sulla “indimostrata circostanza” dell’esistenza di un ulteriore contratto di locazione, la motivazione sul punto dovrebbe ritenersi meramente apparente. E ciò in quanto l’affermazione suddetta sarebbe del tutto assertiva, in assenza di “alcuna indicazione in fatto e in diritto giustificativa dell’assunto”.

3.3. Con il terzo motivo – formulato a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – è denunciato “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che ha formato oggetto di discussione tra le parti”.

Il motivo – che il ricorrente afferma testualmente ricollegarsi al precedente – lamenta che l’affermazione relativa alla “indimostrata circostanza” dell’esistenza del secondo contratto di locazione si è tradotta, per l’appunto, nell’omesso esame di un fatto che presentava carattere di decisività per la definizione della presente controversia, ovvero l’esistenza di tale, ulteriore, titolo negoziale.

3.4. Infine, il quarto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – denuncia “nullità della sentenza e del procedimento” per “violazione e falsa applicazione dell’art. 111 c.p.c., comma 6, e dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), oltre che dell’art. 342 c.p.c.

Si torna a censurare la declaratoria di inammissibilità del motivo di appello, per difetto di specificità, questa volta denunciando un vizio motivazionale, assumendo che quella della Corte territoriale non sarebbe “una motivazione comprensibile, ma solo apparente e circolare, oltre che contraddittoria”, e ciò “mancando sia di una esaustiva ricostruzione dei fatti processuali che delle ragioni di diritto”.

4. L’ A. ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità, ovvero, in subordine, il rigetto.

In particolare, il controricorrente assume che del tutto corretta risulta la decisione della Corte territoriale nel ravvisare il difetto di specificità del motivo di appello, stante la natura generica delle contestazioni con esso effettuate, oltre che in ragione della mancata individuazione dei punti della pronuncia del primo giudice investiti dall’atto di appello.

5. Ha presentato memoria la ricorrente, insistendo nelle proprie argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va accolto.

6.1. Il primo motivo è, infatti, fondato.

6.1.1. In via preliminare va osservato come l’atto di impugnazione abbia soddisfatto il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), riproducendo i motivi di gravame ritenuti privi di specificità, rispettando, così, il principio secondo cui, ove il ricorrente in cassazione “censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità” (da ultimo Cass. Sez. 5, ord. 29 settembre 2017, n. 22880, Rv. 645637-01).

Ciò detto, oltre che ammissibile, il motivo che contesta l’errata applicazione dell’art. 342 c.p.c. risulta anche fondato, e ciò alla stregua di un raffronto tra il contenuto della decisione di primo grado e l’atto di gravame diretto a contestarla.

Si legge, da un lato, nella sentenza del Tribunale di Palermo che “la locatrice, tramite il proprio avvocato, ha costituito in mora il conduttore per la differenza dei canoni non versati rispetto al complessivamente dovuto in Euro 10.750,00, avendo il conduttore pagato solo la somma di Euro 6.100,00”, soggiungendo che la “chiesta differenza” non era “pretesa in forza di un titolo differente da quello di canone locatizio”, nulla, inoltre, lasciando “intendere che venga invece attribuita per un aggiornamento ISTAT”; nondimeno, osservava sempre il primo giudice, tale differenza “viene assegnata nel contesto dell’atto di citazione/intimazione di sfratto a titolo di incremento degli indici ISTAT e ciò per la prima volta, peraltro senza specificazione alcuna degli indici, nè delle relative annualità di maturazione, ove esse fossero state dovute”.

Orbene, avendo la V. documentato, nel ricorso, di aver posto alla base della sua pretesa – in occasione del deposito della memoria ex art. 426 c.p.c. – l’esistenza di un secondo titolo contrattuale (sicchè la somma di Euro 2.150,00, indicata “ab origine” quale canone locatizio mensile, altro non era se non il totale derivante dell’adizione degli importi previsti da ciascuno dei due titoli), la sentenza del Tribunale, nell’insistere sul dato dell’aggiornamento dell’indice ISTAT, recava una motivazione, per così dire, “eccentrica” rispetto alla domanda avanzata.

Stando così le cose, dunque, l’appellante ben poteva dolersi – perchè il suo atto di gravame potesse essere ritenuto rispettoso del disposto dell’art. 342 c.p.c. (o meglio, dell’art. 434 medesimo codice, applicandosi alle controversie locatizie il rito lavoristico) – semplicemente del fatto che le “motivazioni contenute nella sentenza e poste a fondamento della decisione” risultassero attinenti “ad una parte del giudizio non oggetto di domanda”. E ciò specialmente se si considera che la V., comunque, aveva chiarito, nell’atto di appello, le ragioni per cui “la decisione del primo giudice” non affrontava “mai e in alcun modo la vicenda processuale per come ricostruita”, non solo perchè “l’unica argomentazione sviluppata” era “quella relativa alla richiesta di adeguamento ISTAT mai affrontata dalle parti in lite”, ma soprattutto perchè il Tribunale aveva “ripercorso una vicenda che non appare quella per cui è stata causa”, senza che lo “sfratto per morosità e la problematica analiticamente ricostruita nei successivi atti in ordine ai contratti di locazione, ai locali locati, alle imputazioni di pagamento” (elementi tutti poi analiticamente illustrati nel prosieguo dell’atto di gravame) trovassero “alcuno spazio nella motivazione della sentenza”.

Il requisito della specificità del motivo era stato, dunque, soddisfatto, e ciò alla stregua dei principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte in ordine alla corretta interpretazione del novellato testo degli artt. 342 e 434 codice di rito civile.

6.1.2. Tale arresto, in particolare, evidenzia che gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, vanno, si, “interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice”, precisando, però, come a tal fine non “occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata” (Cass. Sez. Un., sent. 16 novembre 2017, n. 27199, Rv. 645991-01).

Nel caso di specie, l’esame dei motivi di appello – che questa Corte è abilitata a compiere, data la natura di “error in procedendo” del vizio denunciato, rispetto al quale essa è anche giudice del “fatto processuale”, con possibilità di accesso diretto agli atti del giudizio (cfr., tra le altre, Cass. Sez. 6-5, ord. 12 marzo 2018, n. 5971, Rv. 647366-01; ma nello stesso senso già Cass. Sez. Un., sent. 22 maggio 2012, n. 8077, Rv. 622361-01) – rivela, appunto, che gli stessi contenevano una critica adeguata della decisione del primo giudice, visto che essa non poteva che sostanziarsi nella riproposizione di quella “lettura” delle risultanze documentali idonee, a dire della parte già attrice e poi appellante, a deporre per l’esistenza di un secondo titolo negoziale idoneo a comprovare l’esistenza della morosità ed il suo ammontare.

Tanto basta, dunque, per ritenere che l’allora appellante avesse soddisfatto il requisito di cui alle norme suddette.

Invero, come è stato ancora di recente ribadito da questa Corte, la “specificità dei motivi di appello presuppone la specificità della motivazione della sentenza impugnata” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 24 aprile 2019, n. 11197, Rv. 653588-01), nel senso che la prima va sempre “commisurata all’ampiezza e alla portata delle argomentazioni spese dal primo giudice” (Cass. Sez. 3, sent. 29 luglio 2016, n. 15790, Rv. 641584-01). Difatti, l’appellante “che intenda dolersi di una erronea ricostruzione dei fatti da parte del giudice di primo grado può limitarsi a chiedere al giudice di appello di valutare “ex novo” le prove già raccolte e sottoporgli le argomentazioni difensive già svolte in primo grado, senza che ciò comporti di per sè l’inammissibilità dell’appello”, e ciò in quanto, sostenere il contrario, “significherebbe pretendere dall’appellante di introdurre sempre e comunque in appello un “quid novi” rispetto agli argomenti spesi in primo grado, il che – a tacer d’altro – non sarebbe coerente col divieto di “nova” prescritto dall’art. 345 c.p.c.” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 8 febbraio 2018, n. 3115, Rv. 648034-01).

6.1.3. L’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta l’assorbimento di tutti gli altri.

Non è, infatti, ipotizzabile l’esistenza, nella sentenza, impugnata, di una (seconda) “ratio decidendi” sul merito della controversia. Difatti, come affermato da questa Corte nella sua più autorevole composizione, qualora il giudice, “dopo una statuizione di inammissibilità” – tale essendo anche quella che dichiari il difetto di specificità dei motivi di appello – “con la quale si è spogliato della “potestas iudicandi” in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere nè l’interesse ad impugnare” le stesse, giacchè si determina una situazione nella quale “è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta “ad abundantiam” nella sentenza gravata” (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2007, n. 3840, Rv. 595555-01).

Si tratta di principio, questo, ribadito più volte (cfr., da ultimo, Cass. Sez. 2, sent. 2 maggio 2011, n. 9647, Rv. 616900; Cass. Sez. Un., sent. 17 giugno 2013, n. 15122, Rv. 626812-01; Cass. Sez. 3, sent. 20 agosto 2015, n. 17004, Rv. 636624-01; Cass. Sez. 6-5, ord. 9 dicembre 2017, n. 30393, Rv. 64698801), al quale anche questo collegio ritiene di dover dare continuità, non sussistendo valide ragioni per discostarsene.

6.1.3. In conclusione, il ricorso va accolto in relazione al suo primo motivo e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte di Appello di Palermo, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

PQM

La Corte accoglie il primo motivo ricorso, dichiarando assorbiti i restanti, e cassa per l’effetto la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Palermo, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 25 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021

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