Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4527 del 11/02/2022
Cassazione civile sez. II, 11/02/2022, (ud. 20/01/2022, dep. 11/02/2022), n.4527
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIUSTI Alberto – Presidente –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. MASSAFRA Annachiara – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 9128/2017 R.G. proposto da:
EDIL C. S.N.C. DI A. E L.C., in persona del legale
rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Oreste
Morcavallo, con domicilio eletto in Roma, Via Arno n. 6.
– ricorrente –
contro
G.M., rappresentato e difeso dall’avv. Enedino Zicarelli,
con domicilio eletto in Roma, Via dei Liburni n. 2, presso l’avv.
Alessandro Briz.
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro n. 1622/2016,
depositata in data 14.10.2016.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del giorno
20.1.2022 dal Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato.
Fatto
FATTI DI CAUSA
La Edil C. s.n.c. ha adito il Tribunale di Castrovillari, esponendo di aver stipulato con G.M., nel febbraio 2004, un contratto di appalto per la realizzazione di una struttura portante in cemento armato di un fabbricato per civile abitazione ad un piano fuori terra, per un compenso di Euro 36.000,00 oltre IVA; di avere regolarmente ultimato i lavori e che, al netto degli acconti, residuava un importo di Euro 6840,00 che il committente si era ingiustificatamente rifiutato di pagare.
Ha chiesto di condannare G.M. al pagamento del saldo del prezzo dell’appalto, oltre accessori e spese di lite.
Il convenuto si è costituito, eccependo che la Edil C. aveva eseguito solo parte dei lavori (non avendo costruito una scala di collegamento tra il piano terra e il piano seminterrato e le due scale di collegamento tra il piano di campagna e il primo piano).
Ha inoltre dedotto di aver versato Euro 5640,00 con riserva e che, dalla verifica tecnica sulle opere, erano emersi plurimi difetti, dipendenti dalla scarsa qualità del cemento impiegato per le lavorazioni e dalla mancata esecuzione del drenaggio.
Ha chiesto il rigetto della domanda principale e, in via riconvenzionale, la condanna della Edil C. al risarcimento dei danni, con attribuzione delle spese processuali.
Esaurita l’istruttoria con l’escussione dei testi e l’espletamento della c.t.u., il tribunale – qualificato il contratto come appalto e ritenuto applicabile l’art. 1667 c.c. – ha respinto l’eccezione di decadenza dalla garanzia sollevata dall’appaltatrice, evidenziando che il termine per la proposizione dell’azione non era ancora scaduto al momento della riconvenzionale, dato che la scoperta dei vizi era intervenuta in corso di causa, al momento del deposito della relazione dell’ing. B.M. ((OMISSIS)). Ha ritenuto sussistenti i difetti delle opere, ha respinto la domanda di pagamento del saldo e quindi, in accoglimento della riconvenzionale, ha condannato la società appaltatrice al risarcimento del danno, liquidato in Euro 22.363,00, regolando le spese processuali.
La sentenza è stata confermata in appello.
La Corte di Catanzaro ha ritenuto infondata l’eccezione di nullità del contratto, rilevando che le parti avevano concordato la creazione della struttura portante del fabbricato, oggetto del permesso di costruire n. (OMISSIS), e di un vano seminterrato aggiuntivo, destinato a cantina che, sebbene non inizialmente contemplato nella concessione edilizia, aveva determinato una difformità solo parziale dell’opera rispetto al progetto originario ed era stato poi successivamente assentito con permesso a costruire n. (OMISSIS).
Quanto alla natura del contratto, la sentenza ha ritenuto che le parti avessero stipulato un appalto e non un contratto d’opera, reputando tale qualificazione coerente con l’entità della struttura realizzata e con il profilo dimensionale e organizzativo dell’impresa esecutrice.
Ribadita l’applicabilità degli artt. 1665-17667 c.c., la Corte di merito ha ritenuto che G.M. non fosse decaduto dall’azione di garanzia, sia perché non vi era stata una vera e propria consegna dell’opera, sia perché il committente aveva avuto contezza dei difetti al momento della relazione tecnica del (OMISSIS), ovvero solo nel corso del giudizio con l’espletamento della c.t.u., per quanto concerne l’omessa effettuazione del drenaggio.
La cassazione della sentenza è chiesta da Edil C. s.n.c. con ricorso in due motivi.
G.M. resiste con controricorso.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 1346 e 1418 c.c. e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, sostenendo che il contratto doveva dichiararsi nullo, avendo ad oggetto la realizzazione di manufatti abusivi regolarizzati solo dopo l’ultimazione dei lavori. In ogni caso, era stata realizzata una costruzione totalmente difforme da quella assentita, sia per numero di piani, come comprovato dalla relazione del consulente tecnico d’ufficio.
Il motivo è infondato.
E’ emerso in fatto che l’appalto prevedeva la realizzazione della struttura portante di un fabbricato rurale ad un unico piano, di uno scavo di fondazione e di un vano interrato destinato a cantina, solo
quest’ultimo non previsto nel progetto assentito dall’amministrazione, pur se ma già oggetto del contratto originario. Successivamente anche il vano cantina è stato regolarizzato con il rilascio del permesso a costruire n. (OMISSIS).
Ai fini della validità del contratto di appalto era irrilevante che il rilascio della concessione (in sanatoria o in variante) fosse intervenuto prima o dopo l’ultimazione delle opere, come infondatamente si sostiene in ricorso.
Secondo l’insegnamento di questa Corte, l’appalto per la costruzione di un immobile totalmente privo di concessione edilizia è nullo, ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c., per violazione di norme imperative in materia urbanistica, con la conseguenza che tale nullità, una volta verificatasi, impedisce sin dall’origine al contratto di produrre gli effetti suoi propri e ne impedisce anche la convalida ai sensi dell’art. 1423 c.c. (Cass. 4015/2007; Cass. 20301/2012; Cass. 2013/21475; Cass. 21398/2013).
La medesima nullità colpisce anche il contratto che abbia ad oggetto immobili da costruire o costruiti in modo difforme dalla concessione edilizia.
Occorre, in particolare, distinguere a seconda che tale difformità sia totale o parziale: nel primo caso (L. n. 47 del 1985, art. 7) l’opera è da equiparare a quella costruita in assenza di concessione, con la conseguenza che il relativo contratto di appalto è nullo per illiceità dell’oggetto e per violazione delle norme imperative in materia urbanistica.
Nessuna nullità sussiste – invece – nel secondo caso (L. n. 47 del 1985, art. 12) ove si configuri una difformità solo parziale (Cass. 20258/2008; Cass. 2187/2011; Cass. 30703/2018; Cass. 11469/2019).
Solo se la difformità è totale (cioè ove si intenda realizzare un edificio radicalmente diverso per caratteristiche tipologiche e volumetriche rispetto a quello assentito), l’opera è equiparata a quella del tutto priva di concessione.
Il criterio distintivo tra le due ipotesi riceve avallo nel D.P.R. n. 380 del 2011, art. 31, che, riproducendo l’analoga formulazione della L. n. 47 del 1985, art. 7, dispone che sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, plano-volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso o l’esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso, con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile, intendendosi per specifica rilevanza un aumento consistente di volumi in relazione alla struttura realizzata ad una valutazione assoluta ed oggettiva, e per autonoma utilizzabilità una struttura precisamente individuabile e suscettibile di un uso indipendente anche se l’accesso allo stesso avvenga attraverso lo stabile principale (in tal senso anche Cass. pen. 7559/1994; Cass. pen. 6875/1997). Nello specifico, il contratto prevedeva la realizzazione di un cantina nel sottosuolo della costruzione non prevista nella concessione edilizia, con conseguente incremento di volumetria, ma senza la realizzazione di un organismo edilizio totalmente diverso.
Detta volumetria aggiuntiva non presentava – inoltre – una sua autonoma utilizzabilità, trattandosi di vano destinato a cantina e quindi funzionale all’utilizzo della restante costruzione.
Correttamente – quindi – la Corte di merito ha ravvisato una difformità solo parziale dell’opera, respingendo l’eccezione di nullità del contratto.
2. Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1655,1665,1667,2083 e 2226 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, contestando alla Corte distrettuale di aver qualificato il contratto come appalto, valorizzando elementi irrilevanti (la consistenza dell’opera), o che, al contrario, deponevano per la sussistenza di un contratto d’opera. In particolare le opere erano state eseguite dai soci con lavoro prevalentemente proprio o degli appartenenti al loro nucleo familiare, con l’apporto di un numero ridotto di dipendenti e quindi secondo il modulo operativo tipico della piccola impresa edile.
Di conseguenza, per i vizi facilmente riconoscibili, quali la mancata realizzazione delle scale, il termine di decadenza previsto dall’art. 2226 c.c., era integralmente spirato al momento della domanda, avendo il committente ricevuto la consegna dei lavori nel settembre 2004 ed avendo proposto la riconvenzionale solo nel 2007. Anche per i vizi occulti il committente era decaduto dall’azione di garanzia, avendo accettato tacitamente l’opera nel 2004. Difatti, anche a voler ritenere applicabile la disciplina dell’appalto, al momento della domanda riconvenzionale era comunque decorso un biennio dalla consegna.
Il motivo è infondato.
Già il tribunale aveva posto in rilievo che la natura delle opere commissionate (esecuzione della struttura in cemento armato di un fabbricato ad un piano fuori terra), implicava l’impiego di mezzi e professionalità non riconducibili ad una dimensione prettamente personale e familiare dell’impresa.
La Corte di merito ha inoltre precisato che il lavoro personale dei fratelli C., soci della Edil C. s.n.c., non era prevalente o equivalente agli altri fattori della produzione utilizzati nell’esecuzione dei lavori, evidenziando come le deposizioni testimoniali dimostrassero che l’appaltatrice aveva fatto ricorso all’impiego di lavoratori, mezzi e professionalità non tipiche della piccola impresa: il profilo dimensionale e organizzativo dell’impresa appariva – difatti – compatibile con l’esecuzione di un appalto.
La distinzione tra contratto d’opera e contratto d’appalto si basa invero – sul criterio della struttura e dimensione dell’impresa a cui sono commissionate le opere, nel senso che il contratto d’opera è quello che coinvolge la piccola impresa, che svolge la propria attività con la prevalenza del lavoro personale dell’imprenditore (e dei propri familiari) e in cui l’organizzazione non è tale da consentire il perseguimento delle iniziative di impresa, facendo a meno dell’attività esecutiva dell’imprenditore artigiano (Cass. 9237/1997; Cass. 5451/1999; Cass. 12519/2010).
Depone – in genere – per la configurazione di un rapporto di appalto anche la qualità imprenditoriale dell’affidatario dei lavori, che nella specie era una società di persone (ad eccezione delle ipotesi in cui il committente si riservi l’organizzazione e la divisione del lavoro e degli strumenti tecnici, assumendo il rischio del conseguimento del risultato ripromessosi: Cass. 12727/1995; Cass. 27258/2017).
Il criterio utilizzato dalla Corte di merito quale discrimine delle due fattispecie – costituito dalla dimensione e dalla natura della forza lavoro, dall’importanza dell’opera e dalla qualità dell’impresa appaltatrice – appare dunque conforme ai principi affermati da questa Corte ed è esente da vizi giuridici.
2.1. Ribadito che la parti avevano certamente stipulato un contratto d’appalto, ritiene questa Corte che le conclusioni cui è giunta la sentenza riguardo all’ammissibilità della riconvenzionale di risarcimento del danno proposta dal committente e all’insussistenza di cause ostative per il suo esercizio (dipendenti dall’avvenuto decorso di termini di decadenza), siano incensurabili, dovendosi tuttavia correggere la motivazione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, essendo il dispositivo conforme a diritto.
Occorre invero procedere dalla indiscussa premessa che l’impresa esecutrice aveva unilateralmente sospeso i lavori e che il manufatto fuori terra – oggetto di appalto – non era stato mai completato: non erano state realizzate le scale e le altre opere presentavano vizi di costruzione dipendenti dalla scarsa qualità del cemento e dalla mancata effettuazione del drenaggio.
Proprio perciò la riconvenzionale di risarcimento del danno era volta ad ottenere, in aggiunta ai costi di riparazione, anche il pagamento di una somma corrispondente al valore delle opere non eseguite e alla differenza di valore tra l’immobile eseguito e quella appaltato (cfr. ricorso, pag. 4).
In tale situazione, non era comunque predicabile alcuna decadenza dall’esercizio dell’azione di risarcimento del danno proposta dal committente.
Questa Corte ha precisato che, in caso di omesso completamento dell’opera, e qualora questa, per la parte eseguita, risulti difettosa o difforme, non può farsi applicazione delle norme in tema di garanzia per vizi e difformità delle opere di cui agli artt. 1667 e 1668 c.c., che richiedono necessariamente il totale compimento dell’opera (Cass. 11950/1990), ma, in applicazione della disciplina generale (Cass. 6931/2007), il committente può esperire le azioni contrattuali, potendo chiedere in via giudiziale che il prezzo sia proporzionalmente diminuito e, in caso di colpa dell’appaltatore, anche il risarcimento del danno (Cass. 3786/2010; Cass. 2573/1983).
Le disposizioni previste dagli artt. 1667 e 1668 c.c., applicabili nel caso di opera completa ma affetta da vizi o difformità, integrano e non escludono i principi generali in tema di inadempimento contrattuale, applicabili, questi ultimi, quando non ricorrono i presupposti delle norme speciali.
Operano i principi che disciplinano la responsabilità dell’appaltatore secondo gli artt. 1453 e 1455 c.c., nel caso in cui l’opera non sia stata eseguita o non sia stata completata o l’appaltatore abbia realizzato l’opera con ritardo o, pur avendo eseguito l’opera, si rifiuti di consegnarla, con esclusione dei termini prescrizionali e di decadenza previsti dalla disciplina della garanzia nell’appalto (Cass. 8103/2006; Cass. 1186/2015; Cass. 9198/2018).
Era quindi irrilevante che l’opera fosse stata accettata tacitamente, che taluni vizi fossero palesi o che fosse decorso il biennio dalla consegna ai sensi dell’art. 1667 c.c., comma 3, ultimo periodo, poiché l’esercizio dell’azione di risarcimento non era sottoposto a termini di decadenza.
Il ricorso è quindi respinto, con aggravio delle spese processuali liquidate in dispositivo.
Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
PQM
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, pari ad Euro 200,00 per esborsi, ed Euro 3500,00 per compensi, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali, in misura del 15%.
Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 20 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2022