Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4519 del 11/02/2022

Cassazione civile sez. II, 11/02/2022, (ud. 30/11/2021, dep. 11/02/2022), n.4519

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. r.g. 30567/2018 proposto da:

B.M., rappresentato e difeso dagli avv. Gianluca

Romagnoli, Marco De Cristofaro, ed Ezio Spaziani, elettivamente

domiciliato in Roma, Viale G. Mazzini n. 146.

– ricorrente –

contro

CONSOB – COMMISSIONE NAZIONALE PER LA SOCIETA’ E LA BORSA, in persona

del Presidente p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti Salvatore

Providenti, Antonella Valente, e Paolo Palmisano, con domicilio

eletto in Roma, Viale G.B. Martini n. 3.

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 21/2018 della Corte d’appello di Venezia,

depositata in data 20.3.2018.

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30.11.2021 dal Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. B.M. ha proposto opposizione avverso la Delib. 30 marzo 2017, n. 19935, con cui la CONSOB, all’esito del procedimento disciplinato dal D.Lgs. n. 58 del 1988, art. 195, ha applicato al ricorrente, Vice Presidente del Consiglio di amministrazione di Banca Popolare di Vicenza dal 27.5.1986, componente e poi Presidente del comitato soci dal 27.4.2013 al marzo 2015 e, infine, componente del Comitato esecutivo a partire dal 2.5.2012, la sanzione di Euro 155.000, sulla base delle seguenti contestazioni:

1) violazione dell’art. 21, comma 1, lett. d), t.u.f. e dell’art. 15 Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob, nonché dell’art. 21, comma 1, lett. a), t.u.f. e degli artt. 39 e 40 Regolamento Intermediari n. 16190/2007, per carenze nelle procedure di valutazione di adeguatezza delle operazioni compiute nel periodo 1.4.2011-22.4.2015, con specifico riferimento alle modalità di profilatura della clientela e per la mancata adozione di misure volte a prevenire condotte elusive dei controlli. In particolare, la profilatura degli investitori era apparsa sbilanciata verso i profili di rischio più alti e, in occasione dell’AUC 2014, si era manifestata una diffusa riproposizione in regime di appropriatezza di ordini risultati inadeguati (cd. “strumentale imputazione degli ordini all’iniziativa cliente”). Tali condotte erano state realizzate in un contesto operativo caratterizzato da un’azione commerciale strutturata e pervasiva, i cui obiettivi rispondevano esclusivamente alle esigenze di patrimonializzazione della Banca.

Tali pratiche si erano sostanziate, fra l’altro, nella raccolta di manifestazioni di interesse prima della pubblicazione del prospetto informativo e nell’impiego dei finanziamenti quale leva per indurre alla sottoscrizione delle azioni proprie, soggetti che versavano in una situazione di dipendenza economica dalla Banca.

2) violazione dell’art. 21, comma 1, lett. a), t.u.f., con riferimento all’attività di finanziamento della clientela finalizzata all’acquisto di azioni della Banca (periodo 1.1.2012-22.4.2015). Erano emerse in sede ispettiva molteplici irregolarità nei finanziamenti concessi dalla Banca, esclusivamente finalizzati all’acquisto delle azioni di propria emissione. Le modalità operative adottate avevano condotto ad una grave alterazione del processo decisionale di investimento da parte della clientela, apparendo prioritariamente funzionali ad esigenze di capitalizzazione di BPVi”;

3) violazione dell’art. 21, comma 1, lett. d), t.u.f. e dell’art. 15 Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob, nonché dell’art. 21, comma 1, lett. a), t.u.f. e dell’art. 49, commi 1 e 3, Regolamento Intermediari, per carenze nelle procedure relative alla gestione degli ordini aventi ad oggetto le azioni della Banca che, consentendo alle strutture preposte ampi margini di discrezionalità nella trattazione delle disposizioni di vendita della clientela retail, non avevano assicurato una trattazione oggettiva e rispettosa del principio di priorità temporale (cd. “procedure per il rispetto della priorità degli ordini”)”;

4) violazione dell’art. 21, comma 1, lett. d), t.u.f. e dell’art. 15, comma 1, Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob, nonché degli artt. 19 e 21 del citato Regolamento congiunto, in relazione alle procedure di pricing delle azioni della Banca (periodo 1.4.2011-22.4.2015), per le quali si erano manifestate carenze nelle procedure per l’attività di governo e controllo sulla metodologia impiegata dall’esperto indipendente ai fini della valutazione del valore dell’azione BPVi per gli anni 2013 2014 e per la formulazione della proposta di prezzo delle azioni all’assemblea dei soci (c.d. “procedure per il pricing dell’azione”);

5) violazione dell’art. 8, comma 1 t.u.f. in materia di vigilanza informativa della Consob (periodo 23.5.2014-22.4.2015), in relazione all’operazione di aumento di capitale deliberato nel 2014: le informazioni fornite in proposito dalla Banca alla Consob, a seguito di una specifica richiesta di dati e notizie ex art. 8 del t.u.f., avevano riferito modalità di svolgimento dell’aumento di capitale smentite dai successivi accertamenti.

B.M. – sollevando plurime censure di carattere formale e sostanziale – ha chiesto di annullare la sanzione e di regolare le spese processuali.

Si è costituita in giudizio la Consob, resistendo all’opposizione e chiedendone il rigetto.

All’esito, la Corte territoriale di Venezia ha confermato il provvedimento sanzionatorio e ha condannato l’opponente al rimborso delle spese di lite.

Disattese le questioni preliminari relative alla pretesa decadenza dal potere sanzionatorio per il decorso del termine di cui all’art. 195, comma 1, t.u.f. (sull’assunto che la Consob aveva proceduto ad acquisizione documentali fino al 24.2.2016 mentre, anche per il numero di soggetti coinvolti, solo in data 25.2.2016 era stata depositata la relazione ispettiva necessaria per l’accertamento delle violazioni, risultando tempestiva la contestazione del 29.3.2016, attesa anche l’irrilevanza della precedente contestazione del 7.8.2014, scaturita dalle operazioni di collocamento del titolo obbligazionario Banca IMI (OMISSIS) 28.2.2019 EUR), il giudice territoriale ha ritenuto che il procedimento si fosse concluso inoltre concluso entro un termine ragionevole, osservando che era stato rispettato anche il termine – non perentorio – di gg. 200 previsto dall’art. 4 Regolamento Consob, non potendo applicarsi il termine semestrale di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 19, comma 3, o quello di trenta giorni imposto dalla L. n. 241 del 1990, art. 3,. La pronuncia ha posto in rilievo che l’ultima notificazione dell’atto di contestazione risaliva all’11.6.2016, data cui andavano sommati 30 e 200 giorni (scadendo quindi il 28.12.2016); che il 21.12.2016 la Commissione aveva richiesto all’USA una relazione integrativa, fatto – questo che, ai sensi dell’art. 8, comma 7, del regolamento 187501/2013 aveva determinato la sospensione del termine per la conclusione del procedimento; che l’ultima ricezione della relazione integrativa era avvenuta il 14.2.2017, tenuto conto del termine per le controdeduzioni scritte, e che l’autorità di vigilanza avrebbe dovuto deliberare entro il 12.5.2017, cosicché il provvedimento adottato il 30.3.2017 era tempestivo anche ai sensi del citato art. 4.

Dopo aver precisato che le sanzioni applicate non avevano natura penale e che non trovava applicazione la disciplina sanzionatoria sopravvenuta di cui al D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 5, la Corte di merito ha riconosciuto in capo alla Consob la competenza per l’irrogazione delle sanzioni, poiché non rientranti nella sfera riservata alla Banca d’Italia, osservando che il modello di vigilanza delineato dal D.Lgs. n. 58 del 1998, prevede una ripartizione delle competenze tra le due autorità secondo un criterio funzionale che affida alla Banca d’Italia i profili riconducibili alla c.d. vigilanza “prudenziale” (il contenimento del rischio, la stabilità patrimoniale e la sana e prudente gestione degli istituti bancari), e alla Consob il controllo sulla “trasparenza” e sulla “correttezza dei comportamenti” degli intermediari.

Secondo la pronuncia era incensurabile anche l’applicazione del cumulo giuridico delle sanzioni, non configurandosi – inoltre – alcuna violazione del contraddittorio e del diritto di difesa quanto all’accesso alla documentazione raccolta dalla Consob nella fase ispettiva, nonché in ordine alle modalità di formazione delle prove impiegate nel procedimento sanzionatorio, essendo garantito il principio di imparzialità e separazione della funzione istruttoria e decisoria.

Quindi, esaminate in maniera analitica le vicende del gruppo Banca Popolare di Vicenza, con il richiamo ai vari aumenti di capitale deliberati nel 2014, la Corte distrettuale ha ritenuto fondati tutti gli addebiti, ponendo in risalto che sino al 12/2/2015 non erano state conferite deleghe nell’ambito del CDA, sicché tutti i consiglieri erano onerati di verificare se la società fosse munita di un adeguato sistema di controllo dei rischi, esercitando una funzione dialettica e di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non potendo in alcun modo invocarsi la buona fede neppure a voler sottolineare la pretesa esistenza di un disegno doloso dei vertici societari volto ad occultare le numerose irregolarità riscontrate in sede ispettiva, avuto riguardo al livello di diligenza richiesto ai componenti del CDA, designati sulla base dei requisiti di professionalità previsti dall’art. 13 t.u.f..

La pronuncia ha quindi evidenziato come il ricorrente avesse violato il dovere di informarsi, atteso che le mere rassicurazioni offerte dalle strutture interne non esimevano dall’obbligo di procedere a tutti gli accertamenti e agli approfondimenti necessari ad evitare sia le violazioni procedurali, che quelle comportamentali, oggetto dell’atto di incolpazione (contestazioni nn. 1,3, e 4).

Quanto alla violazione di cui al n. 2, la pronuncia ha osservato che il CdA aveva approvato le richieste di acquisto/cessione di azioni della BPV ed era in grado di avvedersi delle analisi sottostanti a siffatte richieste e di rilevare il legame che era stato instaurato tra i finanziamenti e gli acquisti delle azioni.

Inoltre, già nel 2014 la Consob aveva sollecitato la banca a porre particolare attenzione al tema dei finanziamenti correlati all’acquisto di azioni proprie, il che avrebbe dovuto allarmare anche l’opponente, sollecitandolo ad attivare i poteri di controllo che gli competevano quale componente del CdA.

Quanto alla violazione n. 5, la circostanza che la risposta alla Consob fosse frutto dell’attività dolosa e mendace del Direttore Generale all’uopo delegato, non poteva – secondo la Corte di merito – esimere i consiglieri da responsabilità, essendo essi tenuti a vigilare sul contenuto dell’informativa, anche in ragione dell’importanza dell’aumento di capitale cui detta operazione appariva correlata. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso B.M. sulla base di venti motivi.

La Consob resiste con controricorso.

In prossimità dell’adunanza camerale le parti hanno depositato memorie ex art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Va dichiarata l’inammissibilità della produzione documentale allegata alle memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c..

Gli atti (in particolare, la richiesta di archiviazione del P.M. della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Vicenza per i reati di cui all’art. 81 c.p., comma 2 e art. 110 c.p., artt. 2637 e 2638 c.c., e del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 173 bis) non sono ricompresi tra quelli che – in quanto attinenti all’ammissibilità del ricorso o del controricorso – possono avere ingresso nel giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 372 c.p.c..

2. Il primo motivo denuncia il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, sollevando, in subordine, la questione di costituzionalità dell’art. 195, commi 4-8, t.u.f., nella parte in cui attribuisce al GO la giurisdizione sulle opposizioni alle sanzioni amministrative, in presunta violazione del principio del giusto processo di cui agli artt. 111 e 113 Cost., nonché dell’art. 47, par. 1, della Carta Europea dei diritti fondamentali (CDFUE) e dell’art. 6 CEDU.

Il procedimento di opposizione di cui all’art. 195, nel porre limiti all’introduzione di eventuali ulteriori domande, specie di carattere risarcitorio, non garantirebbe la piena tutela giudiziale assicurata dalle norme costituzionali e da quelle di carattere internazionale: la possibilità di scrutinare la sola legittimità del provvedimento sanzionatorio contemplerebbe un trattamento processuale irragionevole, oltre che deteriore rispetto a quello riservato alle fattispecie sanzionatorie affidate – per previsione normativa – alla giurisdizione amministrativa.

Si evidenzia che, sebbene la Corte costituzionale (sentenza n. 162/2012) abbia dichiarato l’illegittimità del D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 4, comma 1, n. 19, all. 4, ove disponeva l’abrogazione dell’art. 195, dei commi da 4 ad 8, in tema di giurisdizione della Corte d’appello quanto alle sanzioni irrogate dalla Consob, successivamente il D.Lgs. n. 160 del 2012, art. 3, ha soppresso il citato n. 19, ripristinando nei fatti la portata della disposizione generale in tema di giurisdizione esclusiva del GA ai sensi del citato art. 133, con la conseguente attrazione a tale giurisdizione anche delle sanzioni amministrative oggetto di causa.

2.1 Il motivo è manifestamente infondato.

Non può ritenersi sussistente alcun vulnus al diritto di azione e di difesa in dipendenza dell’impossibilità di proporre nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa domande diverse ed ulteriori rispetto a quella volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del provvedimento sanzionatorio.

L’opposizione all’ordinanza-ingiunzione proposta dinanzi alla Corte d’appello non configura un’impugnazione dell’atto ma introduce, piuttosto, un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, devolvendo al giudice la piena cognizione sulla legittimità e fondatezza della misura adottata (Cass. 13150/2020).

Poste le descritte connotazioni e l’ampiezza della cognizione del giudice, l’impossibilità di cumulare domande di contenuto diverso dalla richiesta di annullamento della sanzione (affermata costantemente dalla giurisprudenza di questa Corte: Cass. n. 16714/2003; Cass. 12190/1999) non comporta una compressione delle opportunità difensive dell’incolpato, essendo solo precluso il simultaneus processus secondo un’opzione normativa che, da un lato, non osta alla proposizione in un autonomo giudizio delle pretese che la parte ritenga di poter vantare verso l’amministrazione procedente e – per altro verso – appare il frutto in sé non irragionevole della discrezionalità legislativa nella conformazione delle regole processuali.

Si è da tempo evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale che l’impossibilità di celebrare un unico giudizio per più pretese scaturenti dalla medesima vicenda sostanziale è mera tecnica processuale che non limita – in realtà – il diritto di azione, né quello di difesa, una volta che la pretesa possa essere comunque fatta valere nella competente, pur se distinta, sede giudiziaria, con pienezza di contraddittorio e di difesa, non configurandosi neppure una lesione del principio di ragionevole durata del processo (Corte Cost. 251/2003; Cass. 124/2005).

Il divieto di cumulo appare poi – nello specifico – coerente con le caratteristiche di semplificazione del rito ex art. 195 t.u.f. – che si svolge, inoltre, in un unico grado, con successive ricorribilità in cassazione dalla pronuncia – avendo anche il vantaggio di impedire che, per eventuali domande cumulate, non sia assicurata la garanzia del doppio grado di giudizio.

2.2. Come di recente affermato dalle Sezioni unite di questa Corte, le controversie relative all’applicazione delle sanzioni amministrative irrogate dalla Consob, ai sensi del D.Lgs. n. 58 del 1998, per le violazioni commesse in materia finanziaria, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, la cui cognizione si estende agli atti amministrativi e ai regolamentari presupposti, incidendo su posizioni di diritto soggettivo (Cass. s.u. 25476/2021).

Analoga soluzione era stata già accolta con riferimento all’impugnazione dei provvedimenti sanzionatori emessi dalla Banca d’Italia (Cass. s.u. 24609/2019; Cass. s.u. 4362/2021).

Inizialmente le predette controversie erano devolute alla Corte d’appello, titolare di una competenza funzionale in materia di sanzioni inflitte dalla Consob, ai sensi del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 septies.

Con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo approvato con D.Lgs. n. 104 del 2010, l’art. 133, comma 1, lett. I), aveva introdotto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti ai rapporti di impiego privato, adottati dalla predetta Commissione, stabilendo, con il successivo art. 135, comma 1, lett. c), l’attribuzione alla competenza inderogabile del TAR del Lazio, sede di Roma, delle controversie per le quali il precedente art. 134, comma 1, lett. c), aveva affidato al giudice amministrativo la “cognizione estesa al merito” nelle controversie aventi ad oggetto le sanzioni pecuniarie. Infine, il D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 4, n. 19, all. n. 34, aveva abrogato l’art. 187 septies, comma 4, del t.u.f., ove attribuiva alla Corte d’appello la competenza funzionale in materia di sanzioni inflitte dalla Consob.

Con pronuncia n. 162/2012, la Corte costituzionale ha – com’e’ noto – dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art 133, comma 1, art. 1, lett. I), art. 135, comma 1, lett. c) e art. 134, comma 1, lett. c) del codice del processo amministrativo, nonché del D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 4, comma 1, n. 19, all. 4, per eccesso di delega.

L’effetto che è ne scaturito è esplicitamente enunciato nella sentenza, ove si legge che le norme abrogate – attributive della giurisdizione al g.o. – sono tornate ad avere applicazione (cfr. Corte Cost. 162/2012, par. 5 e dispositivo).

Non incide su tale assetto il disposto del D.Lgs. n. 162 del 2012, art. 3, che nel prevedere che l’art. 4, comma 1, delle norme di coordinamento e abrogazioni, di cui all’allegato 4 al D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, n. 19) è soppresso, lungi dall’aver ripristinato la giurisdizione esclusiva, ha operato un mero coordinamento testuale e di armonizzazione del testo normativo, destinato ad operare solo per il futuro.

Con pronuncia n. 94/2014, resa con riferimento al D.Lgs. n. 385 del 1992, art. 145, la Corte costituzionale è difatti nuovamente intervenuta sulla disposizione, disponendo l’illegittimità del citato art. 4, nella parte in cui aveva abrogato il D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 145, commi da 4 a 8, ritenendo che l’incostituzionalità della disposizione fosse direttamente conseguente a quelle delle norme dichiarate illegittime per eccesso di delega, che affidavano le stesse controversie al Tar Lazio, sede di (OMISSIS), in sede di giurisdizione esclusiva estesa al merito.

La pronuncia ha comportato – anche sotto tale profilo – l’integrale reintroduzione delle disposizioni illegittimamente abrogate.

Più in particolare, il giudice delle leggi, dato atto che l’art. 4 citato era stata dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla sentenza n. 162 del 2012, nella parte in cui si riferiva alle sanzioni CONSOB, ed era stata poi integralmente soppresso con il D.Lgs. “correttivo” n. 160 del 2012, con effetti però solo pro futuro, ha ritenuto necessario rimuovere il vizio di illegittimità costituzionale della disposizione per il suo restante periodo di vigenza.

Appaiono in altri termini confermate – anche sotto tale profilo l’ininfluenza della disposizione sulle regole di giurisdizione e la devoluzione delle opposizioni alle sanzioni Consob al giudice ordinario.

2.3. Le precedenti considerazioni, che hanno già trovato il conforto del giudice delle leggi, rendono altresì conto della manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in ricorso.

Come si è detto, la giurisdizione sul potere sanzionatorio della pubblica amministrazione appartiene di regola alla cognizione del giudice ordinario, dato che il giudizio incide su posizioni di diritto soggettivo perfetto (Cass. s.u. 2205/2005).

D’altra parte, è questa la ragione per la quale, da sempre, si è affermato che l’opposizione all’ordinanza-ingiunzione non configura un’impugnazione dell’atto ma introduce, piuttosto, un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, devolvendo al giudice adito la piena cognizione circa la legittimità e la fondatezza del provvedimento sanzionatorio (Cass. 13150/2020). Ne consegue che la materia sanzionatoria può essere sottoposta alla giurisdizione del Giudice amministrativo, come eccezione alla regola generale, solo in presenza di un’apposita disposizione di legge, costituendo i provvedimenti sanzionatori la reazione a comportamenti del privato assunti come illegittimi, in relazione ai quali non si pone la difficoltà – alla base della previsione della giurisdizione esclusiva – di distinguere gli aspetti concernenti diritti soggettivi da quelli riguardanti interessi legittimi, poiché, come si è detto, la situazione giuridica di chi deduce di essere stato sottoposto a sanzione in casi e modi non stabiliti dalla legge, ha consistenza di diritto soggettivo perfetto (Cass. s.u. 18040/2008).

Una questione di costituzionalità sotto questo profilo, pertanto, può porsi al più in senso inverso, sulla legittimità di un’eventuale attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle suddette controversie.

Ha chiarito la Corte costituzionale che l’art. 103 Cost., nel prevedere la giurisdizione esclusiva “in particolari materie indicate dalla legge”, legittima tale giurisdizione solo in riferimento esclusivo alle materie prescelte dal legislatore e all’esercizio, ancorché in via indiretta o mediata, di un potere pubblico (sentenze n. 191/2006 e n. 204/2004).

Da ciò discende la necessità, ai fini della compatibilità costituzionale delle norme di legge devolutive di controversie alla predetta detta giurisdizione, che vi siano coinvolte situazioni giuridiche di diritto soggettivo e di interesse legittimo strettamente connesse; che il legislatore assegni al giudice amministrativo la cognizione non di “blocchi di materie”, ma di materie determinate; che l’amministrazione agisca, in tali ambiti predefiniti, come autorità e cioè attraverso la spendita di poteri amministrativi, che possono essere esercitati sia mediante atti unilaterali e autoritativi, sia mediante moduli consensuali, sia mediante comportamenti, purché questi ultimi siano posti in essere nell’esercizio di un potere pubblico e non consistano, invece, in meri comportamenti materiali avulsi da tale esercizio (sentenza n. 35 del 2010).

La Corte costituzionale, in applicazione di tali principi, ha ritenuto inammissibile in più occasioni una pronuncia additiva, come quella invocata nel caso in esame.

Si è detto infatti, che l’introduzione di un nuovo caso di giurisdizione esclusiva può essere effettuata solo da una legge – come prescrive l’art. 103 Cost., comma 1 – e nel rispetto dei principi e dei limiti fissati dalla sentenza n. 204 del 2004.

Non è in alcun modo consentito sollevare un dubbio di costituzionalità che richieda, in caso di ritenuta fondatezza, una sentenza additiva e l’introduzione di un nuovo caso di giurisdizione esclusiva, la quale può derivare solo da una scelta legislativa, peraltro non costituzionalmente obbligata (sentenza n. 259 del 2009).

La censura formulata in ricorso non tiene conto della previsione di cui all’art. 103 Cost., laddove stabilisce che sia la legge ad indicare le “particolari materie” nelle quali è attribuita agli organi di giustizia amministrativa la giurisdizione per la tutela, nei confronti della pubblica amministrazione, degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi.

In altri termini, la riserva legislativa in ordine alla delimitazione della giurisdizione esclusiva determina l’inammissibilità di una sentenza di tipo additivo, essendo rimessa alla discrezionalità del legislatore l’estensione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nell’ambito di un ventaglio di possibili soluzioni, nessuna delle quali costituzionalmente imposta.

3. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione del contraddittorio e del diritto di difesa ai sensi dell’art. 24 Cost., comma 2 e art. 111 Cost., dell’art. 6CEDU e dell’art. 47, par. 1 (2) della CDFUE, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Il ricorrente sostiene di aver richiesto per iscritto un differimento della prima udienza per poter replicare alla comparsa di risposta depositata dalla Consob undici giorni prima dell’udienza stessa. La corposità delle argomentazioni difensive della controparte richiedeva un adeguato tempo per poter controdedurre, ma il giudice di merito avrebbe disatteso la richiesta in palese violazione dei diritti di difesa garantiti sia a livello nazionale che transnazionale, ritenendo che il contraddittorio fosse stato adeguatamente tutelato mediante lo scambio di note scritte.

Il motivo è infondato.

3.1. Già nel precedente assetto processuale, le regole di svolgimento del giudizio di opposizione sono state costantemente ritenute idonee a garantire un equo processo dinanzi ad un giudice terzo e indipendente, con piena garanzia delle facoltà difensive e con piena attuazione del contraddittorio (Cass. 770/2017; Cass. 20689/2018; Cass. 8237/2019; Cass. 9371/2020).

Tali opportunità difensive appaiono arricchite dall’adozione del D.Lgs. n. 72 del 2015: a seguito della proposizione del ricorso, il Presidente della corte d’appello designa il giudice relatore e fissa con decreto diversamente che in passato – l’udienza pubblica per la discussione dell’opposizione. Il decreto è notificato alle parti a cura della cancelleria almeno sessanta giorni prima dell’udienza. L’Autorità deposita memorie e documenti nel termine di dieci giorni prima dell’udienza.

Nel caso in esame, la Consob si è costituita in giudizio nel rispetto del termine di legge, provvedendo al deposito di tutta la documentazione di cui ha ritenuto di volersi avvalere.

Ha poi avuto corso un contraddittorio cartolare tra le parti mediante lo scambio di note difensive.

Va ricordato che non è configurabile – in generale – un obbligo del giudice di concedere incondizionatamente differimenti o termini a difesa su semplice richiesta della parte, neppure in base alla previsione generale dell’art. 127 c.p.c. – che disciplina i poteri discrezionali del giudice nella conduzione dell’udienza (Cass. 2008/2001; Cass. 285/1986).

Ove siano state osservante le scansioni procedimentali e le parti abbiano rispetto i termini di costituzione e di deposito degli atti, il rinvio può essere accordato solo discrezionalmente dal giudice, con valutazione che resta per sua natura insindacabile.

Peraltro, un contraddittorio anticipato tra le parti si era sviluppato anche in occasione della presentazione dell’istanza cautelare, che evidentemente anticipava molti dei temi poi riproposti per la decisione di merito, ponendo l’opponente in condizione di avere una preventiva conoscenza delle argomentazioni difensive della controparte, peraltro già esplicitate nella fase procedimentale amministrativa.

Il fatto che la Consob si fosse costituita tempestivamente, depositando la documentazione a sostegno del provvedimento, conduce a ritenere non pertinente neppure l’argomentazione, sollevata nella memoria difensiva mediante il richiamo all’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite sulla questione riguardante le conseguenze del deposito della sentenza di appello senza la concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. (questione decisa con la recente pronuncia n. 36596 del 25 novembre 2021) e l’asserita insussistenza di un onere della parte che invochi la nullità della decisione, di indicare quali argomentazioni avrebbe formulato ove non gli fossero stati negati i termini per il deposito delle comparse e delle memorie di replica, dovendo, secondo il ricorrente, essere comunque garantito incondizionatamente il diritto di difesa. Va difatti rilevato che nell’ipotesi oggetto dell’ordinanza di rimessione era data per presupposta una violazione dei termini processuali (riguardo al deposito della sentenza) fissati per legge, mentre nessuna violazione può dirsi sussistente nel (diverso) caso in esame (riguardo al rispetto dei termini di costituzione e di deposito degli atti posti a base della contestazione), in cui il contraddittorio si è svolto nel pieno rispetto delle scansioni processuali che presiedono alla regolarità della produzione documentale.

4. Il terzo motivo di ricorso, preceduto da una premessa volta ad illustrare il carattere sostanzialmente penale delle sanzioni applicate al ricorrente sulla base dei principi espressi dalla Corte EDU, denuncia la falsa applicazione dell’art. 195, comma 1 t.u.f., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la Corte di merito ritenuto tempestiva la contestazione sulla base di una valutazione della complessità dell’accertamento avulsa dal caso concreto, contrariamente alle indicazioni della giurisprudenza di legittimità.

Si lamenta poi l’omesso esame di fatto decisivo, per aver la pronuncia giustificato la protrazione dei tempo dell’accertamento in ragione di una pretesa connessione tra le diverse e molteplici violazioni, senza aver realmente esaminato i connotati oggettivi e la effettiva complessità delle diverse condotte.

Anche l’eccezione di nullità del provvedimento, poiché emesso dopo il termine di 180 giorni dall’accertamento delle singole violazioni contestate, sarebbe stata respinta senza alcuna verifica di coerenza temporale dell’iniziativa amministrativa e senza accertare se le acquisizioni documentali successive alla data del 17/9/2015 fossero effettivamente necessarie per la contestazione.

Illegittimamente la Corte d’appello avrebbe giustificato il protrarsi dell’istruttoria sulla base di documenti del tutto irrilevanti, come confermato dal fatto che già il giorno seguente alla loro ricezione (avvenuta il 24/2/2016), era stata depositata una corposa relazione ispettiva.

Secondo il ricorrente non era lecito valutare la connessione tra le diverse condotte a fronte di comportamenti naturalisticamente distinti e, comunque, il giudice dell’opposizione avrebbe dovuto individuare il termine iniziale per la contestazione non con il giorno in cui la valutazione è stata compiuta, ma in quello in cui avrebbe potuto – e quindi dovuto – esserlo”, tenendo conto della maggiore o minore difficoltà del caso concreto e della necessità che tali indagini, pur nell’assenza di limiti temporali predeterminati, si esaurissero entro un termine congruo.

Il motivo è infondato.

4.1. La pronuncia merita condivisione laddove – sia pure con motivazione sintetica – ha escluso che le sanzioni amministrative di cui agli artt. 190 e segg. Tuf – nella versione applicabile ratione temporis – abbiano natura penale.

Anche dopo l’intervento della CEDU, le misure adottate non sono equiparabili, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, alle sanzioni irrogate dalla CONSOB per manipolazione del mercato ai sensi dell’art. 187 ter t.u.f. (sulle quali si è pronunciata la richiamata sentenza Grande Stevens), dovendo escludersi che abbiano natura sostanzialmente penale, non configurandosi, quindi, un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU (Cass. 8855/2017; Cass. 1621/2018; Cass. 4/2019; Cass. 5/2019; Cass. 31632/2019; Cass. 13433/2016; Cass. 4114/2016; Cass. 3656/2016, tutte in rapporto a Corte Europea dei diritti dell’uomo, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia).

Secondo la giurisprudenza comunitaria – per stabilire la sussistenza di un’accusa di natura penale, occorre impiegare tre criteri: la qualificazione giuridica della misura secondo il diritto nazionale, la natura nonché il grado di severità della “sanzione”.

Sebbene i suddetti criteri (cd. Engel) siano alternativi e non cumulativi e per quanto debba aversi riguardo alla misura della sanzione edittale e non alla gravità della sanzione alla fine inflitta va tuttavia considerato che la valutazione sull’afflittività economica di una sanzione non può essere svolta in termini totalmente astratti, ma va necessariamente rapportata al contesto normativo nel quale la disposizione punitiva si inserisce.

Nel caso in esame, il diritto nazionale attribuisce chiaramente natura amministrativa alla misura adottata e la medesima qualificazione pare confermata dalle specifiche connotazioni della sanzione, apparendo indirizzata ad una platea ristretta di possibili destinatari (i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle banche), a conferma del fatto che la disposizione non contempla un divieto di generale applicabilità.

La natura penale va poi esclusa anche alla luce del grado di afflittività della misura.

Da tale prospettiva, specie sul terreno delle violazioni consumate nell’ambito del settore bancario e finanziario (che contempla sanzioni penali finanche detentive, nonché sanzioni amministrative pecuniarie che, come quelle per gli abusi di mercato, possono ascendere a molti milioni di Euro: cfr. 187 bis t.u.f. oggetto anche della sentenza della Corte costituzionale 63/2019, richiamata in memoria) una sanzione pecuniaria compresa tra il minimo edittale di Euro 2.500 ed il massimo edittale di Euro 250.000, non corredata da sanzioni accessorie né da confisca, non può ritenersi connotata da una grado di afflittività tale da trascendere dall’ambito amministrativo a quello penale.

Nella sentenza 14.3.2014 Grande Stevens c. Italia, la stessa Corte Edu ha ritenuto, in tema di market abuse, che la conformità con l’art. 6 CEDU non viene meno nel caso in cui una sanzione di natura penale sia inflitta da un’autorità amministrativa la cui decisione non soddisfi le condizioni di cui al paragrafo 1 della norma, laddove sul provvedimento adottato sia previsto un controllo a posteriori da parte di un organo indipendente e imparziale avente giurisdizione piena.

Sul punto questa Corte ha perciò ribadito che “in tema di sanzioni che, pur qualificate come amministrative, abbiano natura sostanzialmente penale, la garanzia del giusto processo, ex art. 6 Cedu, può essere realizzata, alternativamente, nella fase amministrativa – nel qual caso, una successiva fase giurisdizionale non sarebbe necessaria – ovvero mediante l’assoggettamento del provvedimento sanzionatorio – adottato in assenza di tali garanzie ad un sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva ed attuato attraverso un procedimento conforme alle richiamate prescrizioni della convenzione, il quale non ha l’effetto di sanare alcuna illegittimità originaria della fase amministrativa giacché la stessa, sebbene non connotata dalle garanzie di cui al citato art. 6, è comunque rispettosa delle relative prescrizioni, per essere destinata a concludersi con un provvedimento suscettibile di controllo giurisdizionale (fattispecie in tema di sanzioni applicate dalla Consob all’esito del procedimento amministrativo previsto dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 septies: Cass. 770/2017).

E’ escluso che i principi convenzionali possano indurre a ritenere che una sanzione qualificata come amministrativa dal diritto interno abbia – sempre e a tutti – gli effetti natura sostanzialmente penale

(Cass. 1621/2018; Cass. 8855/2017; Cass. 770/2017; Cass. 13433/2016).

4.2. La decisione impugnata ha rigettato la tesi del ricorrente, riguardo alla violazione del termine dell’art. 195, comma 1, T.U.F., evidenziando che alle acquisizioni documentali effettuate dagli ispettori nelle date del 30.4.2015, 8.5.2015, 30.6.2015, 24.7.2015 e 17.9.2015 (allegati B, C, D, E, F alla relazione ispettiva) avevano fatto seguito le ulteriori acquisizioni del 20.10.2015 (all. G, che attesta l’acquisizione dei documenti dal n. 1510 al n. 1886), del 20.1.2016 (all. H, che attesta l’acquisizione dei documenti dal n. 1887 al n. 2741) e del 24.2.2016 (all. I, che attesta l’acquisizione dei documenti dal n. 2742 al n. 2801).

La corte di merito ha ritenuto oggettivamente giustificate tali ultime attività, dando rilievo non solo alla connessione delle violazioni contestate, ma anche alla rilevanza del numero dei soggetti coinvolti, ritenendo irragionevole scindere la posizione del singolo da quella degli autori delle altre condotte che complessivamente avevano concorso a delineare il quadro fattuale nel quale si collocavano anche i fatti ascritti all’opponente (e di ciò si ha conferma poi nella complessiva disamina delle contestazioni relative alla sussistenza oggettiva delle condotte sanzionate, che evidenziano come il loro accertamento non potesse prescindere da una valutazione della condotta degli altri soggetti coinvolti, non potendosi atomisticamente valutare la sola posizione del ricorrente).

La relazione ispettiva era stata poi depositata il 25.2.2016, per cui la contestazione contenuta nell’atto notificato al ricorrente in data 29.3.2016 risultava tempestiva.

Trattasi di considerazioni del tutto logiche riguardo alla utilità delle ulteriori attività ispettive, il cui effetto è consistito nel differimento del dies a quo di decorrenza del termine ex art. 195 t.u.f..

La pronuncia è – in sostanza – conforme al costante insegnamento di legittimità secondo cui, in tema di sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme che disciplinano l’attività di intermediazione finanziaria, il momento dell’accertamento, dal quale decorre il termine di decadenza per la contestazione degli illeciti da parte della Consob, va individuato in quello in cui la constatazione si è tradotta, o si sarebbe potuta tradurre, in accertamento, dovendosi a tal fine tener conto, oltre che della complessità della materia, delle particolarità del caso concreto anche con riferimento al contenuto e alle date delle operazioni (Cass. n. 21171/2019), competendo al giudice di merito valutare la congruità del tempo utilizzato per tale attività, in rapporto alla maggiore o minore difficoltà del caso, con apprezzamento incensurabile in sede di legittimità, se correttamente motivato (Cass. n. 27405/2019).

A tal fine occorre stabilire in concreto se vi sia stata un’ingiustificata e protratta inerzia dell’amministrazione procedente durante o dopo la raccolta dei dati di indagine, tenendo altresì conto della sussistenza di esigenze di economia che inducano a raccogliere ulteriori elementi a dimostrazione di altre violazioni rispetto a quelle accertate, dovendo inoltre valutarsi l’utilità degli atti di indagine con giudizio “ex ante”.

La censura, pur a fronte della formale deduzione di una violazione di legge, attinge direttamente la valutazione riservata – in proposito alla Corte d’Appello e appare ancorata ad un giudizio di superfluità delle ulteriori acquisizioni documentali secondo una valutazione ex post, non legittimamente praticabile al fine di scrutinare la necessità o meno di ulteriori attività istruttorie nella fase procedimentale (Cass. 21171/2019; nello stesso senso, Cass. 4523/2021 in motivazione, nonché Cass. 9254/2018).

4.3. Inammissibilmente il ricorso invoca – infine – la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Nella specie, il ricorrente lamenta l’omessa considerazione dell’insussistenza di una connessione interna tra i vari illeciti contestati, individuando erroneamente come fatto decisivo, ai sensi della citata disposizione, non un dato accadimento o una specifica circostanza oggettiva, ma il risultato di un giudizio (quale, appunto, la suddetta connessione), che è però sottratto all’ambito applicativo dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

La norma, riformulata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. con L. n. 134 del 2012, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

L’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio denunciato qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. s.u. 8053/2014).

Costituisce, inoltre, un “fatto”, agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “accadimento”, in senso storico e normativo, una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. 7983/2014; Cass. 17761/2016; Cass. 29883/2017; Cass. 21152/2014; Cass. s.u. 5745/2015; Cass. 5133/2014, n. 5133).

Neppure costituiscono fatti, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass. 14802/2017; Cass. 21152/2014); gli elementi istruttori; una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (Cass. 21439/2015); le domande o le eccezioni formulate nella causa di merito, ovvero i motivi di appello, i quali rappresentano, piuttosto, i fatti costitutivi della “domanda” in sede di gravame, e la cui mancata considerazione, perciò, integra la violazione dell’art. 112 c.p.c. (Cass. 1539/2018; Cass. 21257/2014; Cass. 22799/2017; Cass. 6835/2017).

5. Il quarto motivo denuncia l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella parte in cui la Corte d’Appello ha ritenuto di non ricondurre la decorrenza del termine di decadenza dal potere punitivo al previo accertamento a base del procedimento Consob n. 19022/14, definito con Delib. 30 luglio 2015, n. 19295, omettendo di considerare l’identità delle disposizioni normative violate, l’idoneità delle carenze e delle lacune procedurali precedentemente già addebitate riguardo alla valutazione di adeguatezza e la profilatura dei clienti, l’identità spazio temporale delle violazioni organizzative, essendosi limitata a valorizzare la diversità dei titoli oggetto del collocamento nell’ambito del quale si sarebbero verificate le carenze e le lacune accertate.

Erroneamente la pronuncia avrebbe respinto l’eccezione di nullità del provvedimento sanzionatorio, benché assunto dopo lo spirare del termine di 180 giorni decorrente dal 30/7/2015, data di adozione della Delib. Consob n. 19295 del 2015 (emessa a definizione di una precedente procedura concernente la verifica delle medesime modalità di erogazione dei servizi di investimento alla clientela), non potendo rilevare che detta Delib. avesse riguardato il collocamento del titolo obbligazionario “Banca IMI (OMISSIS) 28/03/2019 EUR e non azioni proprie di BPVi, oggetto della successiva contestazione.

Il motivo è inammissibile.

In disparte il difetto di specificità del motivo nella parte in cui omette di richiamare i passaggi della precedente Delib. che attesterebbero la sostanziale identità delle condotte contestate, la censura non evidenzia l’esistenza di un fatto decisivo di cui sarebbe stato omesso l’esame, ma solleva critiche al giudizio di rilevanza delle condotte oggetto dei due diversi procedimenti, dolendosi delle contrarie conclusioni cui è motivatamente giunto il giudice territoriale.

Dette doglianze esulano del perimetro applicativo dell’art. 360 c.p.c., n. 5: si sollecita – in sostanza – un diverso apprezzamento della decorrenza del termine di decadenza, tema che risulta specificamente esaminato, dando motivatamente rilievo a circostanze diverse da quelle che, secondo il ricorrente, dovevano indurre a privare di effetto la misura adottata, restando esclusa anche per tale aspetto la violazione denunciata.

La tesi secondo cui, avendo la Consob sottoposto a verifica il Banco nel periodo 2011-2014, fosse già in condizione di rilevare le anomalie riferibili alle carenze nell’organizzazione della banca, presuppone l’indimostrata identità delle modalità operative adottate e dei presidi che venivano in considerazione già con riferimento alle operazioni di collocamento delle azioni IMI, pur non trattandosi di operazioni su azioni proprie oggetto della successiva contestazione.

6. Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 19, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la pronuncia escluso che l’esercizio del potere sanzionatorio fosse sottoposto al termine di decadenza di sei mesi previsto in tema di sequestri – termine integralmente decorso al momento dell’adozione del provvedimento – essendo inoltre illegittima l’introduzione di un termine più lungo (gg. 200) ad opera dei regolamenti Consob.

Il motivo è infondato.

L’esame della pronuncia consente di rilevare che il ricorrente, eccependo la decadenza della Consob dall’esercizio del potere sanzionatorio, aveva sostenuto che: a) il procedimento si era concluso dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 4, comma 2, del regolamento 18750/2013, pari a gg. 200; b) il termine applicabile era quello semestrale previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 19, comma 3; c) che, in subordine, doveva applicarsi il termine massimo contemplato dalla L. n. 241 del 1990, art. 3, in tema di disciplina generale dei procedimenti amministrativi.

La Corte territoriale ha ritenuto infondate tutte le doglianze, con pronuncia esente da vizi giuridici.

Va invero disatteso l’assunto secondo cui i diversi regolamenti Consob risulterebbero in contrasto con la previsioni della L. n. 689 del 1981, nella parte in cui contemplano un termine di durata massima dei procedimenti sanzionatori maggiore di quello imposto con legge ordinaria.

Proprio con riferimento al procedimento regolato dall’art. 195 t.u.f. si è costantemente escluso che le norme interne adottate dalla Commissione contemplino termini dei decadenza, non avendo la loro decorrenza alcun effetto sulla validità o efficacia del provvedimento. Costante è sul punto l’insegnamento di questa Corte, secondo cui il termine per la formulazione da parte della Consob della proposta sanzionatoria, fissato dai regolamenti, non ha natura perentoria, né l’emissione della proposta sanzionatoria oltre il predetto termine presenta – per questo solo fatto – profili di illegittimità, dato che il regolamento interno non può modificare le disposizioni sul procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative dettate dalla L. n. 689 del 1981 (Cass. 4873/2007; Cass. 4329/2008; Cass. 22199/2010).

Il principio, elaborato con riferimento al previgente regolamento n. 12697/2000, vale anche il successivo regolamento 18750/2013, che qui viene in rilievo (Cass. 5/2019).

Non giova alla contraria tesi del ricorrente neppure il richiamo formulato nella memoria illustrativa – alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 151/2021, la quale, pur ritenendo necessario un intervento del legislatore quanto alla predeterminazione dei termini per la conclusione del procedimento sanzionatorio, ha confermato che, a legislazione immutata, non sia dato ravvisare una generalizzata decadenza dall’esercizio della potestà sanzionatoria esercitata nell’ambito di un procedimento sfornito ad oggi di un termine finale.

6.1. Infondata è pure la tesi secondo cui la Consob fosse tenuta ad emanare il provvedimento sanzionatorio nel termine di sei mesi previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 19.

La Corte distrettuale ha considerato decisivo che le sanzioni applicate non abbiano carattere penale.

Premesso tuttavia che lo specifico campo applicativo del citato art. 19 ricomprende anche l’ambito delle sanzioni non munite di carattere punitivo, il decisivo elemento ostativo per l’applicazione del termine semestrale anche al procedimento sanzionatorio Consob risiede – in realtà – nel fatto che l’art. 19 non contempla affatto un termine applicabile a misure diverse dal sequestro.

La previsione dispone che, avverso detta misura accessoria, gli interessati possono proporre, anche immediatamente, opposizione all’autorità indicata dell’art. 18, comma 1. Quando l’opposizione al sequestro è stata rigettata, la misura cessa di avere efficacia se non è emessa ordinanza-ingiunzione di pagamento o se non è disposta la confisca entro due mesi dal giorno in cui è pervenuto il rapporto e, comunque, entro sei mesi dal giorno in cui è avvenuto il sequestro.

Come già posto in rilievo da questa Corte, il potere di emanare l’ordinanza ingiunzione continua, in tal caso, a soggiacere al termine quinquennale di prescrizione, così che l’obbligo di emettere il predetto provvedimento nel termine di sei mesi dal sequestro, L. n. 689 del 1981, ex art. 19, incide esclusivamente sull’efficacia della misura cautelare (Cass. 8060/2007).

L’art. 19 citato viene quindi in considerazione nella sola evenienza che l’opposizione avverso il provvedimento di sequestro sia stata respinta e che l’amministrazione non abbia disposto la confisca o emesso ordinanza ingiunzione di pagamento della sanzione pecuniaria, senza contemplare un termine suscettibile di generalizzata applicazione, diverso da quello previsto dalla L. n. 689 del 1981, precedente art. 14 (Cass. 19512/2020; Cass. 8326/2018; Cass. 21706/2018; Cass. 6965/2018).

6.2. Quanto, infine, all’applicabilità della L. n. 241 del 1990, art. 3, questa Corte ha più volte stabilito che nei procedimenti per la irrogazione di sanzioni amministrative, disciplinati dalla L. n. 689 del 1981, non trovano applicazione le disposizioni della L. n. 241 del 1990, che contiene una normativa generale su cui prevale la legge speciale, idonea ad assicurare garanzie non inferiori a quelle previste dalle norme sul procedimento amministrativo (Cass. 4670/2003; Cass. 11115/2007; Cass. 14104/2010; Cass. 4363/2015; Cass. 17088/2019; Cass. 31239/2021).

Peraltro, proprio in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, questa Corte ha precisato che gli eventuali vizi del procedimento amministrativo previsto dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 195, che si svolge innanzi alla Commissione nazionale per la società e la borsa, non sono rilevanti, in ragione tanto della natura vincolata del provvedimento sanzionatorio, quanto della immodificabilità del suo contenuto (cfr. Cass. s.u. 20929/2009; Cass. 6965/2018).

7. Il sesto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, commi 2 e 3, art. 6, comma 2 ter, e art. 19, comma 4, t.u.f., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui la Corte d’Appello ha omesso di rilevare la nullità assoluta dell’esercizio del potere punitivo da parte di Consob, stante la riserva di tale potere alla Banca d’Italia per quanto concerne la prima, la terza e la quarta contestazione. Le relative sanzioni conseguono alla violazione di un limite inderogabile posto a garanzia del potere normativo della Banca d’Italia.

La sentenza avrebbe – inoltre – erroneamente affermato che, secondo il riparto di competenze posto dal modello di vigilanza di cui al t.u.f., alla Consob è affidato il controllo sulla trasparenza e la correttezza dei comportamenti, essendo invece riservata alla Banca d’Italia la verifica circa il contenimento del rischio, la stabilità patrimoniale e la sana e prudente gestione.

Anche tale conclusione sarebbe errata, poiché ogni ambito a connotazione prudenziale relativo all’organizzazione dell’intermediario, attenendo alla stabilità dell’organizzazione stessa e all’idoneità all’erogazione, sarebbe riservato alla Banca d’Italia.

La Consob sarebbe – infine – totalmente incompetente oltre che per le violazioni nn. 1-2,3 e 5, anche per la violazione n. 4, mancando una norma primaria che autorizzi la Commissione ad adottare – in materia – disposizioni di natura regolamentare.

Il motivo è infondato.

Il D.Lgs. n. 58 del 1998, artt. 5 e 6, prevedono un sistema di controllo duale, nell’ambito del quale alla Banca d’Italia è attribuita la competenza relativa al controllo del rischio ed alla stabilità patrimoniale, mentre alla Consob quella relativa alla trasparenza ed alla correttezza dei comportamenti (cfr. Cass. 6738/2016, con riferimento a comportamenti incidenti sulla trasparenza e correttezza dell’operato della banca per la verifica della corretta prestazione del servizio di investimento, l’adeguatezza delle operazioni disposte per conto della clientela e il rispetto delle regole in tema di conflitto di interessi).

Anche di recente si è precisato che il procedimento sanzionatorio della Banca d’Italia si riferisce alle carenze organizzative e del sistema dei controlli interni ed è evidentemente funzionale al rispetto di standard unitari di corretta gestione degli operatori finanziari attivi sul mercato, mentre quello affidato alla Consob riguarda i profili di inadempimento dell’obbligo di adottare procedure idonee a garantire l’efficiente, corretto e trasparente svolgimento dei servizi di intermediazione finanziaria e delle attività di investimento, in funzione di protezione tanto del cliente, soggetto debole nell’ambito del rapporto intercorrente con l’operatore finanziario, quanto della corretta gestione dei servizi sul mercato finanziario (cfr. Cass. 3845/20, pag. 8; si veda anche, nello stesso senso Cass. 21017/19; Cass. 2333/2021).

Secondo Cass. n. 19558/2020, in materia di sanzioni amministrative nei confronti degli intermediari mobiliari, ove la condotta sanzionata consista nella violazione, da parte di soggetti che svolgono funzioni di direzione, amministrazione o controllo di istituti bancari, dei doveri concernenti il momento organizzativo, preordinati alla tutela non solo del cliente, ma anche della trasparenza e correttezza dell’operato della banca e dell’integrità del mercato, l’autorità competente ad irrogare le sanzioni è la CONSOB, ai sensi degli artt. 5,21 e 190 del T.U.F., restando irrilevante che dalle violazioni siano poi derivate pratiche commerciali scorrette.

Non si profila – perciò – neppure un contrasto della disciplina del T.U.F. con il D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 27, comma 1-bis, introdotto dal D.Lgs. n. 21 del 2014, art. 1, comma 6, lett. a), che attribuisce in via esclusiva all’AGCM la tutela amministrativa del consumatore contro simili pratiche.

La lettura delle norme contenute nel t.u.f. ed in particolare degli artt. 5 e 6, conferma la correttezza di tale conclusione che va qui ribadita, essendo evidente, alla luce delle contestazioni mosse, come le violazioni riscontrate attengano alla vigilanza di cui alle attività dell’art. 5, comma 1, ma per gli aspetti che sono strettamente inerenti alla trasparenza ed alla correttezza dei comportamenti, essendo state prese in esame le singole condotte per la loro capacità di incidere sul collocamento e la contrattazione delle azioni emesse dalla stessa banca, in vista dell’offerta a potenziali investitori, e ciò anche per quanto attiene alla prodromica, ma pur sempre necessaria, attività di fissazione del fair value, trattandosi nella specie di prodotti finanziari illiquidi, la cui vigilanza, quanto alla circolazione, compete alla Consob.

8. Il settimo motivo di ricorso denuncia la violazione del principio di imparzialità del processo di revisione delle determinazioni afflittive, con la conseguente contrarietà della pronuncia all’art. 6 CEDU ed all’art. 47 CDFUE, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza avrebbe erroneamente disatteso le contestazioni relative alla violazione n. 4, negando l’incompetenza della Consob sul presupposto che la determinazione del pricing ponesse la necessità di rispettare i presidi di correttezza dettati dalla stessa autorità.

Sarebbe stata però assunta un decisione appiattita sulle tesi della Commissione, in violazione dei principi di terzietà ed imparzialità del giudice.

Il motivo è manifestamente infondato.

Rilevato che la questione circa la riconduzione della violazione n. 4 nel novero di quelle rientranti nel potere di vigilanza della Consob è oggetto di un successivo motivo di ricorso (alla cui trattazione si rinvia), la censura si sostanzia dell’affermazione secondo cui l’adesione alle tesi di una delle parti in causa comporterebbe necessariamente il venir meno della posizione di terzietà ed imparzialità del giudice: trattasi di affermazione che, ove condivisa, condurrebbe a ritenere invalida ogni decisione adottata dal giudice in adesione alle tesi di uno dei contendenti, essendo invece fisiologico che nelle controversie civili il giudice condivida le argomentazioni proposte dalla parte vittoriosa, senza che, ove tale esito sia effetto dell’autonoma ed imparziale valutazione delle risultanze processuali, la funzione giurisdizionale e la terzietà del giudice siano pregiudicate.

9. L’ottavo motivo di ricorso denuncia la violazione del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 5, come interpretato alla luce dell’art. 7 CEDU e dell’art. 49, par. 1, e 52, par. 5, della CDFUE, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto non fondata l’eccezione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, che esclude la retroattività della disciplina più favorevole agli illeciti compiuti anteriormente alla sua entrata in vigore.

Si evidenzia come, a seguito della novella del 2015, sia tendenzialmente esclusa la punibilità in via amministrativa delle persone fisiche, essendo la società il principale soggetto passivo della pretesa punitiva (fatte salve alcune specifiche ipotesi derogatore). La norma più favorevole avrebbe dovuto trovare immediata applicazione in virtù del principio del favor rei, dato il carattere afflittivo e quindi sostanzialmente penale delle sanzioni oggetto di causa.

Il motivo è infondato.

Il regime transitorio delle novità normative apportate alla disciplina del t.u.f. è previsto dal D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 2, per il quale le modifiche alla parte V, D.Lgs. n. 58 del 1998, si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia, secondo le rispettive competenze ai sensi del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 196-bis.

Analoga previsione è stata introdotta con riferimento alla disciplina contenuta nel capo VIII, D.Lgs. n. 385 del 1993, introdotte dal D.Lgs. n. 72 del 2015: il comma 3, dell’art. 2 ne esclude l’applicabilità alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Banca d’Italia ai sensi del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 145-quater (Cass. 23814/2019).

Alla luce del tenore testuale delle norme transitorie, non è consentito distinguere tra disposizioni sostanziali immediatamente applicabili e norme procedurali ad entrata in vigore differita, essendo chiaro l’intento del legislatore di far decorrere l’efficacia delle nuove disposizioni dal momento del completamento, in sede attuativa, del nuovo quadro normativo, fermo peraltro che l’art. 3 delle legge delega non imponeva affatto la generalizzata applicazione del principio del favor rei, rimettendo al legislatore delegato la facoltà di estenderne l’ambito applicativo anche per il periodo anteriore.

Si è già detto che le sanzioni irrogate non hanno carattere penale, essendo sottratte al principio del favor rei.

Deve perciò tenersi fermo il principio generale dell’irretroattività della legge più favorevole che vige in materia di sanzioni amministrative, non senza osservare che nessun argomento è esposto in ricorso riguardo alla concreta possibilità della ricorrente di beneficiare di circostanze idonee a contenere la sanzione al di sotto dell’importo irrogato (Cass. 4114/2016; Cass. 20689/2017; Cass. 13433/2016; Cass. 4114/2016).

Quanto affermato è coerente con le indicazioni della Corte costituzionale, secondo cui la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo in tema di retroattività della legge penale più favorevole ha riguardato non l’intero sistema sanzionatorio unitariamente considerato, ma le singole e specifiche discipline sanzionatorie (Corte Cost. 193/2016; Corte Cost. 43/2017).

I principi di legalità, irretroattività e di divieto dell’applicazione analogica di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 1, in tema di sanzioni amministrative, comportano infatti l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, sia che si tratti di illeciti amministrativi derivanti da depenalizzazione, sia che essi debbano considerarsi tali “ab origine”, senza che possano trovare applicazione analogica, attesa la differenza qualitativa delle situazioni considerate, gli opposti principi di cui all’art. 2 c.p., commi 2 e 3, i quali, recando deroga alla regola generale dell’irretroattività della legge, possono, al di fuori della materia penale, trovare applicazione solo nei limiti in cui siano espressamente richiamati dal legislatore (Cass. 29411/2011).

Tale interpretazione non viola i principi convenzionali enunciati dalla Corte EDU nella sentenza 4 marzo 2014 (Grande Stevens ed altri c/o Italia): tali principi non possono indurre a ritenere che una sanzione, qualificata come amministrativa dal diritto interno, abbia sempre ed a tutti gli effetti natura sostanzialmente penale, con conseguente irrilevanza di un’eventuale questione di costituzionalità, anche ai sensi dell’art. 117 Cost. (Cass. 13433/2016; Cass. 26131/2015).

Nel quadro delle garanzie apprestate dalla CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, non si rinviene – dunque – l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio di retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative.

Ne’ sussiste neppure un analogo vincolo interno di matrice costituzionale: rientra nella discrezionalità del legislatore, nel rispetto del limite della ragionevolezza, modulare le proprie determinazioni in materia secondo criteri di maggiore o minore rigore.

Il differente e più favorevole trattamento riservato ad alcune sanzioni trova – difatti – fondamento nelle peculiarità che le caratterizzano e non è automaticamente estensibile ad ipotesi diverse (cfr. Cass. 23814/2019, in tema di intermediazione finanziaria; Cass. 20689/2018).

Non è dato trarre indicazioni difformi neppure dall’intervento della Corte Costituzionale (sentenza n. 63/2019), che, pur ritenendo costituzionalmente illegittimo il D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 2, in relazione all’art. 3 Cost. e art. 117 Cost., comma 1 (quest’ultimo per rinvio all’art. 7 della CEDU), nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche favorevoli apportate dello stesso art. 6, dal comma 3, alle sanzioni amministrative previste per l’illecito disciplinato dall’art. 187-bis t.u.f., ha però precisato che la regola di derivazione penale deve ritenersi applicabile agli illeciti amministrativi aventi natura e funzione punitiva, salvo che vi sia la necessità di tutelare interessi di rango costituzionale prevalenti, tali da resistere al ” vaglio positivo di ragionevolezza”, al cui metro debbono essere valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius.

10. Il nono motivo denuncia la violazione dell’art. 6 CEDU, art. 47 CDFUE, L. n. 689 del 1981, art. 15 e art. 195, comma 7, t.u.f., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per avere la Corte d’appello negato la pur patente violazione del principio del contraddittorio, sia quanto alle limitazioni imposte all’accesso agli atti di parte del ricorrente, sia nell’acquisizione della prova già in fase amministrativa e poi anche giurisdizionale, non avendo il ricorrente avuto accesso alla documentazione raccolta dalla Consob in fase istruttoria endo-procedimentale, avendo potuto visionare soli 360 documenti, a fronte di ben 2800 atti, acquisiti dalla Consob senza la partecipazione dell’interessato.

La relativa richiesta sarebbe stata immotivatamente disattesa dalla Corte di merito, in violazione dei diritti di partecipazione e di difesa. Il motivo si palesa anzitutto inammissibile, denunciando in modo totalmente assertivo una lesione del principio del contraddittorio, senza specificarne le concrete ricadute pregiudizievoli nell’esercizio delle facoltà difensive nel successivo giudizio di opposizione (Cass. s.u. 20935/2009).

Per altro verso, le garanzie del contraddittorio previste per il procedimento sanzionatorio davanti alla CONSOB prima delle modifiche introdotte dalla Delib. 29 maggio 2015, n. 29158, sono da ricondurre al livello proprio del contraddittorio procedimentale, di solito di tipo verticale, svolgendosi tra l’amministrazione e l’interessato su un piano non di eguaglianza, ma in funzione collaborativa, partecipativa e non difensiva, non già di quello di matrice processuale, di tipo orizzontale, che riguarda due parti in posizione paritaria rispetto ad un organo decidente terzo e imparziale (Cass. 8046/2016 che, dissentendo dall’interpretazione offerta dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 1596 del 2015, ha ritenuto che le suddette garanzie fossero soddisfatte dalla previa contestazione dell’addebito e dalla valutazione, prima dell’adozione della sanzione, delle eventuali controdeduzioni dell’interessato, non essendo necessarie né la trasmissione a quest’ultimo delle conclusioni dell’Ufficio sanzioni amministrative della CONSOB, né la sua personale audizione; cfr. anche Cass. 20689/2018).

Si è già rilevato che il procedimento sanzionatorio delineato dalle norme interne non viola l’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, perché questo esige solo che, ove detto procedimento non offra garanzie equiparabili a quelle del processo giurisdizionale, l’incolpato possa sottoporre la questione della fondatezza dell'”accusa penale” a un organo indipendente e imparziale, dotato di piena giurisdizione, come la disciplina nazionale gli consente di fare tramite l’opposizione alla Corte d’appello (Cass. 25141/2015, che richiama anche Corte Europea dei diritti dell’uomo, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia; Cass. 9371/2020; Cass. 16517/2020, per la quale è esclusa la diretta applicabilità, in tale ambito, dei precetti costituzionali degli artt. 24 e 111 Cost., invocabili solo con riferimento al processo che si svolge davanti al giudice, innanzi al quale l’incolpato può impugnare il provvedimento sanzionatorio con piena garanzia del diritto di difesa e del contraddittorio).

Deve inoltre considerarsi come la Corte d’Appello – nel rigettare la richiesta di accesso – abbia in realtà evidenziato come fosse pacifico che i documenti di cui, in maniera generica e indistinta, il ricorrente aveva denunciato la mancata ostensione, non erano stati utilizzati a corredo delle prove costituite poste a fondamento degli addebiti e che – quindi – neppure astrattamente la loro messa a disposizione appariva funzionale a garantire all’opponente l’esercizio del diritto di difesa.

L’incolpazione si fondava – difatti – su profili giuridico fattuali portati a conoscenza dell’interessato, sicché la richiesta di esaminare l’ulteriore documentazione – oltre ad apparire puramente esplorativa- è stata giudicata irrilevante.

In modo pertinente la pronuncia ha richiamato i principi espressi dalla Corte costituzionale (sentenza 460/2000), evidenziando la necessaria sussistenza – a tal fine – di un criterio di “rilevanza” legalmente tipizzato, laddove, nell’escludere l’incondizionata valenza del segreto d’ufficio nei confronti dell’interessato destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il giudice delle leggi ha posto in rilievo che la sfera di applicazione dell’art. 4, comma 10, t.u.f., quale che ne sia l’effettiva estensione, certamente non comprende gli atti, le notizie e i dati in possesso della Consob “posti a fondamento di un procedimento disciplinare, sicché questi, nei confronti dell’interessato, non sono affatto segreti e sono invece pienamente accessibili: non soltanto nel giudizio di opposizione alla sanzione disciplinare, ma anche nello speciale procedimento di accesso regolato dalla L. n. 241 del 1990, art. 25 (nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), strumento esperibile anche dall’incolpato nei procedimenti disciplinari, per orientare preventivamente l’azione amministrativa onde impedirne eventuali deviazioni” (Corte Cost. n. 460/2000, in motivazione).

In via di fatto poi, i documenti di cui trattasi erano stati acquisiti in date diverse (come era emerso dai verbali allegati alla relazione ispettiva, nei quali è indicato l’oggetto specifico di ciascuno dei 2.801 documenti acquisiti dalla Consob) e riguardo ad essi non risultava introdotta alcuna domanda di accesso, limitata – invece – agli ulteriori atti utilizzati ai fini della contestazione.

Quanto poi alla richiesta di esibizione in giudizio di tutti gli atti del procedimento, va anzitutto posto in rilievo che, già per previsione generale della L. n. 689 del 1981, art. 23, ora trasfuso nel D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, l’amministrazione è tenuta a depositare esclusivamente copia del rapporto, con gli atti relativi all’accertamento e alla contestazione o notificazione della violazione.

L’ordine di esibizione delle ulteriori acquisizioni effettuate in sede ispettiva è condizionato ad un giudizio di rilevanza dei documenti che il giudice di merito, con apprezzamento insindacabile, ha ritenuto insussistente.

In effetti, in tema di garanzia del giusto processo, non può predicarsi, tanto alla stregua delle norme di rango costituzionale, quanto ai sensi dell’art. 6 CEDU, un obbligo incondizionato del giudice di dar corso all’assunzione di qualsivoglia mezzo istruttorio articolato dalla parte, a prescindere da una valutazione di rilevanza dei fatti da provare, atteso che, da un lato, l’art. 6 cit., pur garantendo il diritto ad un processo equo, non contiene alcuna disposizione riguardante il regime di ammissibilità delle prove o sul modo in cui esse dovrebbero essere valutate, trattandosi di questioni rimesse alla regolamentazione della legislazione nazionale, dall’altro, la necessità, da parte del giudice, di scrutinare la rilevanza ed ammissibilità dei singoli mezzi proposti dalla parte si coniuga ed è coerente con i principi della ragionevole durata del processo, con cui collide l’espletamento di attività processuali non necessarie o superflue ai fini della pronuncia (Cass. n. 16517/2020, dettata proprio in tema di procedimento per l’applicazione di sanzioni amministrative; cfr. Corte Edu, sentenza del 30/6/2011 Euro 25041/07, richiamata dalla difesa del ricorrente, che ha escluso la violazione delle norme della Convenzione, ove il richiedente non aveva indicato quali elementi non fossero stati versati nel fascicolo e che avrebbero potuto contribuire alla sua difesa, il che escludeva che fosse stata validamente allegata l’offesa al contraddittorio ed alla giustizia della procedura).

Risulta poi del tutto inconferente il richiamo alla L. n. 689 del 1981, art. 15, discutendosi, nello specifico, di mancata esibizione di prove documentali, per le quali non è dato invocare la diversa previsione dettata in materia di accertamenti su campioni.

11. Il decimo motivo denuncia la violazione dell’art. 244 c.p.c. e dell’art. 195, comma 7, t.u.f., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nella parte in cui la Corte d’Appello ha omesso l’audizione del ricorrente che ne aveva fatto espressa richiesta.

Si evidenzia che l’art. 195, comma 7, a seguito dell’intervento della sentenza della Corte Edu Grande Stevens del 14 marzo 2014, sarebbe stato riformulato, nel senso di attribuire un vero e proprio diritto incondizionato dell’opponente – che ne faccia richiesta – ad esser sentito.

Tale diritto sarebbe stato indebitamente conculcato nella parte in cui si è preteso che la richiesta dovesse essere corredata da una specifica indicazione delle circostanze sulle quali la parte voleva essere sentita.

Il motivo è manifestamente infondato.

La censura si basa sull’infondato presupposto che le sanzioni irrogate abbiano natura penale.

In mancanza di tale essenziale presupposto – per le ragioni che si sono già evidenziate – ritiene il Collegio di dover dare continuità al principio secondo cui nel procedimento sanzionatorio di cui all’art. 195 citato, il diritto di difesa dell’incolpato è garantito dalla previsione di un congruo termine per il deposito di difese scritte, mentre la sua audizione personale non è un incombente imprescindibile, come risulta dal confronto con l’art. 196 dello stesso T.U.F., riguardante i promotori finanziari (Cass. 1065/2014).

L’art. 195, comma 7, prevede che all’udienza la corte d’appello dispone, anche d’ufficio, i mezzi di prova che ritiene necessari, nonché l’audizione personale delle parti che ne abbiano fatto richiesta, senza che però la formulazione lasci intendere l’esistenza di un diritto soggettivo all’audizione, trattandosi anche in tal caso, purché vi sia la richiesta dell’interessato, di attività rimessa ad una valutazione di effettiva utilità ad opera del Giudice di merito (Cass. 16517/2020 cit.).

12. L’undicesimo motivo di ricorso denuncia la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 3, come interpretato alla luce della CEDU, nonché del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7, comma 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza gravata avrebbe disatteso le censure dell’opponente volte a contestare la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa e ad invocare la non punibilità della condotta, violando la presunzione di innocenza.

Erroneamente la Corte d’Appello avrebbe escluso, anche per le sanzioni sostanzialmente penali, l’applicazione dei presidi che la Costituzione appronta per le misure anche formalmente penali, ivi inclusa la presunzione di innocenza di cui all’art. 27 Cost., violando inoltre il D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7, comma 10, che esclude ogni agevolazione probatoria per la PA nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, infine desumendo illegittimamente l’elemento soggettivo dell’illecito dalla semplice difformità della condotta, in assenza di prescrizioni di carattere specifico.

La verifica di adeguatezza dei sistemi di controllo imponeva, per contro, l’individuazione del patrimonio informativo disponibile, in base al quale contestare la colpa omissiva.

Il dodicesimo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la Corte d’appello deciso sulla base della cd. presunzione di colpevolezza L. n. 689 del 1981, ex art. 3, omettendo di valorizzare l’occultamento della condotta illecita da parte di taluni componenti Direzione Generale e ciò pur in presenza di fatti accertati ed incontroversi risultanti dallo stesso atto di accertamento.

L’anomalia delle condotte tenute dall’alta dirigenza della società e l’occultamento delle violazioni, emerse solo dall’attività ispettiva che aveva avuto acceso a dati non conoscibili dal ricorrente, escludevano la sussistenza dell’elemento soggettivo della violazione.

Il tredicesimo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la Corte d’appello ritenuto comunque irrilevante l’attività dolosa dell’alta dirigenza della banca al fine del giudizio di colpevolezza con riguardo alla violazione n. 1.

Si lamenta che, in realtà, la stessa relazione ispettiva aveva evidenziato come il sistema dei controlli fosse adeguato e avesse consentito di rilevare le condotte scorrette da parte dei componenti della rete, ma che tali informazioni non erano state comunicate al CdA, poiché il dirigente della struttura ispettiva interna aveva preferito metterne al corrente il solo Direttore Generale. Occorreva poi considerare che la Banca aveva comunque adottato un sistema organizzativo conforme alle prescrizioni dell’art. 15 del Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob.

Il quattordicesimo motivo denuncia la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la sentenza contravvenuto al divieto del praesumptum de praesumpto laddove – con riferimento alle violazioni comportamentali n. 1 e 2 – ha ritenuto di presumere la colpa del ricorrente (già in sé presunta) dall’ulteriore presunzione (“e’ verosimile”) che la condotta dolosa dell’alta dirigenza della Banca fosse stata agevolata dalle violazioni procedurali e che ciò rientrasse nella sfera di conoscenza dei Consiglieri di amministrazione.

Infondatamente il giudice territoriale avrebbe sostenuto che, pur essendo il ricorrente ignaro della condotta dolosa del Gruppo dirigenziale, l’avrebbe però agevolata, omettendo di fare il possibile per evitare le violazioni, senza tener conto della ineluttabilità degli accadimenti verificatisi, alla luce del complessivo quadro fattuale posto a sua disposizione. Il materiale probatorio evidenziava, difatti, come le modalità operative con le quali era avvenuto il finanziamento alla clientela fossero state oggetto di istruzioni impartite dal direttore generale e che tale circostanze era emersa solo dall’esame delle caselle di posta elettronica dei soggetti coinvolti, in seguito all’attività ispettiva della Consob.

Il quindicesimo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella parte in cui la sentenza, con riferimento alle violazioni comportamentali n. 2 e 5, ha ritenuto che fosse facilmente rilevabile la prassi degli illeciti finanziamenti correlati alle operazioni di acquisto delle azioni della banca, trascurando che ciò presupponeva il possesso delle liste delle cessioni o degli acquisiti e di quelle dei soggetti che richiedevano affidamenti alla banca, liste mai poste a disposizione del ricorrente. L’operazione di incrocio delle informazioni non sarebbe stata in ogni caso agevole, perché molte operazioni avvenivano in liste che non venivano trasmesse al CdA e inoltre dall’incrocio era emerso un solo nominativo che avrebbe potuto dar luogo a segnali di allarme.

La stessa nozione di acquisto correlato a finanziamenti sarebbe stato il frutto di una personale interpretazione della funzione Audit della banca, effettuata anche con riferimento ad operazioni non correlate neppure sotto il profilo temporale.

La pronuncia avrebbe poi omesso di considerare che l’elevato numero di vendite di titoli presenti nel fondo azioni proprie appariva coerente con l’eccesso di richiesta con cui si era chiuso l’aumento di capitale del 2014, e non avrebbe considerato la mancata sottoscrizione, da parte del ricorrente, dell’informativa inviata alla Consob, oggetto della violazione n. 5.

Il sedicesimo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2392 c.c., comma 1, nonché dell’art. 53, comma 1, TUB e delle disposizioni regolamentari di attuazione adottate dalla Banca d’Italia con le circolari nn. 285 del 17.12.2013 e 263 del 27.12.2006, nel testo applicabile all’epoca dei fatti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere il giudice di merito ritenuto di poter formulare un giudizio di imputazione di responsabilità al ricorrente, pretermettendo la considerazione di quali fossero – a norma di legge e di regolamento – le effettive facoltà di controllo del CdA e dei suoi componenti sulla struttura aziendale di una Banca.

La responsabilità del ricorrente nella sua veste di componente del CdA sarebbe stata ricondotta alla violazione del dovere di agire informato, trascurando la rigida suddivisione per compartimenti delle attribuzioni all’interno delle aziende bancarie.

La decisione avrebbe erroneamente individuato le conseguenze derivanti dalla mancata nomina di un amministratore delegato, situazione nella quale solo il Presidente aveva facoltà di accedere alla documentazione aziendale. Non era esigibile alcun obbligo di attivarsi in assenza di informazioni complete, coerenti e ritenute affidabili, provenienti dagli organi di controllo interno.

Erroneamente la Corte d’appello avrebbe infine tratto dalla qualità di componente del CDA una presunzione di competenza “enciclopedica” che avrebbe investito il ricorrente di una acutissima capacità di avvedersi delle anomalie riscontrate.

Stando invece alle prescrizioni regolamentari adottate dalla Banca d’Italia, gli amministratori privi di delega non potevano essere onerati del controllo sull’attività delle strutture, essendo la trasmissione delle informazioni sempre veicolata dal Presidente del CdA.

Il diciassettesimo motivo denuncia la violazione dell’art. 15 del Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob, nonché dell’art. 21, comma 1, lett. a) del t.u.f., degli artt. 39 e 40 del Regolamento Intermediari e dell’art. 2381 c.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la Corte d’appello confermato la sanzione irrogata per la violazione di obblighi facenti capo ad altri soggetti della struttura aziendale e per essere stato così disatteso il principio di presunzione di innocenza per quanto riguarda la valutazione di adeguatezza delle operazioni, oggetto della prima contestazione.

Sostiene il ricorrente di aver contestato l’applicabilità della prima sanzione sul presupposto che essa fosse conseguenza di condotte tenute da appartenenti alla rete commerciale, in nessun modo ostacolate dal sistema organizzativo della banca.

Non poteva quindi attribuirsi ad un amministratore privo di delega la responsabilità per il fatto che la rete commerciale avesse disatteso le prescrizioni circa il dovere di astenersi dalla sollecitazione all’acquisto o alla sottoscrizione di azioni di BPVi.

Le violazioni sarebbero da addebitare ai soli autori materiali delle condotte illecite, non potendo imputarsi al ricorrente una responsabilità per fatti che non poteva ragionevolmente conoscere, data la segretezza delle operazioni poste in essere dalla rete commerciale su impulso dell’alta dirigenza.

I 7 motivi, che vanno trattati congiuntamente per la loro stretta connessione, sono infondati.

12.1. Il giudice territoriale ha chiaramente affermato il carattere procedurale delle violazioni oggetto degli addebiti nn. 1, 3 e 4, ritenendo che nessuna rilevanza potesse avere la condotta dolosa della alta dirigenza della banca, in quanto neppure l’esistenza di un disegno doloso, volto ad occultare le numerose irregolarità operative dell’istituto di credito poteva giustificare la colpevole inerzia mostrata dai componenti nel CdA per far fronte alle pur rilevabili lacune ed irregolarità di natura organizzativa.

Lo stesso era a dirsi quanto alle ulteriori violazioni, apparse strettamente connesse con quelle di carattere procedurale, sussistendo la colpa del ricorrente pur in presenza del soggettivo convincimento della liceità della campagna di finanziamento finalizzata all’acquisto delle azioni e nonostante l’opportunistica gestione della profilatura della clientela e l’irregolare gestione degli ordini di rivendita delle azioni impartiti dai clienti.

Difatti, riguardo alla violazione n. 2, la connessione tra le richieste di finanziamento e gli acquisti delle azioni è apparsa perfettamente percepibile dal CdA che, oltre ad approvare le richieste di acquisto e cessione delle azioni, poteva deliberare direttamente le pratiche di fido, avendo cognizione della stretta correlazione tra le due operazioni.

E’ rimasto poi accertato che la Consob già nel 2014 aveva sollecitato un adeguato controllo sui legami intercorrenti tra i componenti del CdA (e i sindaci) con i soggetti beneficiari di finanziamenti, richiesta che non poteva che costituire un segnale di allarme di possibili anomalie, tale da rendere esigibile un adeguato sforzo di approfondimento e di verifica, in osservanza dei doveri di diligenza professionale richiesta ai componenti degli organi di amministrazione. Analoga attenzione aveva richiesto la Commissione – con nota del 16.5.2014 – sui finanziamenti correlati all’acquisto di azioni derivanti dagli aumenti di capitale del 2014.

Quanto infine alla quinta violazione, la pronuncia ha correttamente evidenziato che la delega conferita al direttore generale per fornire risposta alla richiesta di informazioni sollecitate dalla Consob, non esimeva gli altri componenti del CdA dal dover vigilare sul contenuto dell’informativa, anche in ragione dell’importanza dell’operazione cui la stessa si correlava.

12.2. Poste tali premesse, appare evidente come le censure nell’assegnare valenza esimente alla condotta dolosa della dirigenza nelle operazioni di collocamento della azioni proprie BPVI o all’occultamento delle modalità con cui erano stati erogati i finanziamenti o effettuata la profilatura dei clienti, alle carenze informative nei rapporti con il CDA e alle irregolarità nella fissazione del pricing delle azioni proprie – trascurano il decisivo rilievo che correttamente la Corte distrettuale ha assegnato al carattere procedurale delle violazioni e alla mancata predisposizione di presidi idonei a prevenire la consumazione di condotte illecite, circostanza quest’ultima che impone di ricondurre l’elemento soggettivo della violazione non tanto e non solo a valle delle singole condotte illecite imputabili agli organi di gestione o all’alta dirigenza, ma soprattutto alla sfera organizzativa dell’attività bancaria che si colloca a monte della commissione delle singole infrazioni, una volta postulata la piena conoscenza da parte del CdA delle operazioni poi rivelatesi irregolari, in relazione alle quali occorreva attivare i poteri di controllo sulla regolarità della gestione.

Da tale prospettiva, l’ipotizzata impossibilità di avvedersi delle irregolarità gestionali non poteva avere l’effetto di esonerare da responsabilità il ricorrente, né escludere la negligenza imputabile ai componenti del CDA riguardo alle carenze organizzative comunque sussistenti da tempo, le quali avevano poi reso possibile o agevolato le pratiche illecite deliberate e attuate successivamente dalla Banca. L’insufficienza dei sistemi dei controlli e di adeguate regole di carattere procedurale era di per sé condotta sanzionabile e l’affermazione della Corte di merito secondo cui tali carenze rendevano verosimile l’agevolazione delle successive condotte dolose non consente di configurare l’utilizzo di una doppia presunzione per sostenere l’imputazione delle violazioni, le quali, come detto, non concernono le condotte dolose dei dirigenti, né direttamente le violazioni consumate mediante il collocamento delle azioni proprie, ma le originarie carenze strutturali nel sistema dei controlli interni.

12.3. La precondizione per il corretto svolgimento dei servizi di investimento è difatti l’adozione di idonee procedure e di una altrettanto idonea organizzazione, cautele che, sebbene rimesse alla scelta discrezionale dell’intermediario, devono in ogni caso assicurare la tutela del risparmio, nel rispetto degli obblighi di correttezza e trasparenza.

Avuto riguardo ai doveri imposti dalla regolamentazione della Consob e della Banca d’Italia, tutto il CdA era chiamato a dare attuazione alle norme volte al corretto espletamento dei servizi di investimento.

Nello specifico l’illecito era – difatti – riconducibile alle modalità con cui il Consiglio nel suo insieme aveva esercitato le funzioni di controllo e di organizzazione, essendo l’attività dell’organo collegiale imputabile in capo a ciascun componente in mancanza di prova che i singoli si fossero diligentemente attivati nell’assolvimento del dovere di agire informati con riferimento a ciascun settore dell’attività bancaria in cui si erano manifestate criticità, in modo da prevenire la commissione delle gravi violazioni emerse in sede ispettiva.

La responsabilità individuale dei singoli componenti degli organi collegiali degli istituti di credito, lungi dal porsi in contrasto con la “ratio”, i principi regolatori (tra cui il carattere personale della responsabilità) e le norme vigenti in materia di sanzioni amministrative, discende dall’applicazione della disciplina del concorso di persone nell’illecito amministrativo ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 5, secondo cui quando più persone concorrono in una violazione amministrativa, ciascuna di esse soggiace alla sanzione di legge, salvo che sia diversamente stabilito (cfr. L. n. 689 del 1981, art. 5). La pena pecuniaria è applicabile a tutti coloro che abbiano offerto un contributo alla realizzazione dell’illecito, concepito come una struttura unitaria, nella quale confluiscono tutti gli atti dei quali l’evento punito costituisce il risultato (Cass. 21797/2006; Cass. s.u. 20934/2009; Cass. 2406/2016 in tema di responsabilità dei componenti degli organi di amministrazione).

12.4. Sotto il profilo soggettivo, la fattispecie dell’illecito amministrativo è ricalcata su quella dei reati penali di natura contravvenzionale.

La L. n. 689 del 1981, art. 3, prescrive che, ai fini della sussistenza della colpa del trasgressore, è sufficiente la prova della condotta (anche omissiva) in violazione di norme specifiche di legge o di precetti generali di comune prudenza, gravando sull’incolpato la prova dell’inesigibilità del comportamento volto ad impedire la violazione (Cass. s.u. 20930/2009).

Anche le ipotesi di cui si discute contemplano illeciti cd. “di mera trasgressione”, nel senso che l’azione, esaurendosi nella oggettiva difformità rispetto alla fattispecie astratta, si identifica con la condotta inosservante (cd. suitas), che è neutra sotto l’ulteriore profilo del dolo o della colpa del responsabile (Cass. 9546/2018).

Sia pure con riferimento a sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia, si è precisato che il legislatore ha individuato una serie di fattispecie destinate a salvaguardare procedure e funzioni ed incentrate sulla mera condotta, secondo un criterio di agire o di omettere doveroso, ricollegando il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico e limitando l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito. Una volta provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore l’onere di dimostrare di aver agito in assenza di colpevolezza (Cass. n. 24081/2019; (Cass. 11777/2020; Cass. 1921/2019).

In definitiva, la Consob, anche in base ai principi ricavabili dalla L. n. 689 del 1981, art. 3, era tenuta unicamente a dimostrare l’esistenza delle carenza organizzative e procedurali e quindi di segnali di allarme che avrebbero dovuto indurre i consiglieri di amministrazione, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo per ovviare alle criticità esistenti, mentre spettava agli incolpati provare di avere tenuto la condotta attiva idonea a scongiurare la commissioni di irregolarità (Cass. 22848/2015).

Sulla scorta di tali argomentazioni – già sostenute da questa Corte anche con riferimento a sanzioni amministrative ritenute di natura penale – non è legittimo ravvisare un contrasto della disciplina interna con la presunzione di non colpevolezza sancita dall’art. 6, comma 2, CEDU (Cass. 1529/2018).

12.5. La sentenza impugnata è – in definitiva – conforme ai principi espressi da questa Corte in tema di interpretazione dell’art. 3 citato, palesandosi infondate le critiche che investono la asserita genericità dell’affermazione di responsabilità quanto alla verifica dell’adeguatezza della struttura organizzativa dell’impresa.

Le norme in tema di intermediazione finanziaria, nel prevedere, nei confronti di coloro che svolgono funzioni di amministrazione o di direzione presso imprese d’investimento, banche o altri soggetti abilitati nonché dei relativi dipendenti, la comminatoria di una sanzione amministrativa pecuniaria per l’inosservanza, tra l’altro, delle “disposizioni generali o particolari impartite dalla CONSOB o dalla Banca d’Italia”, non costituiscono norme punitive “in bianco”, né comportano alcuna indeterminatezza del precetto, poiché, atteso il particolare tecnicismo dell’ambito di operatività di tali disposizioni, realizzano solo una etero integrazione del precetto, consentita dalla riserva di legge sancita dalla L. n. 689 del 1981, art. 1 (Cass. 18683/2014).

Nella specie, tenuto conto delle indicazioni fornite in sede regolamentare dall’autorità di vigilanza, il giudice distrettuale ha riscontrato le evidenti violazioni procedurali e comportamentali poste in essere dall’intermediario, non senza sottolineare che, per la loro gravità, la sussistenza delle violazioni non poteva sfuggire ad un operatore che avesse improntato la propria condotta ai principi di diligenza e correttezza, secondo le possibilità correlate alla qualifica professionale richiesta dalla legge per ricoprire le cariche societarie, non avendo rilievo, per quanto detto, l’eventuale disegno fraudolento dell’alta dirigenza.

Giova a tal fine ricordare che la complessa articolazione della struttura organizzativa di una società di investimenti non può comportare l’esclusione od anche il semplice affievolimento del potere-dovere di controllo che compete a ciascun componente, che, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali per la corretta gestione societaria, è sanzionabile a titolo di omissione “quoad functione”, stante l’obbligo di vigilanza in vista non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche della verifica dell’adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno della società di investimenti, secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare Consob (Cass. 1602/2021; Cass. 6037/2016).

L’obbligo imposto dall’art. 2381 c.c., u.c., agli amministratori delle società per azioni di “agire in modo informato”, pur quando non siano titolari di deleghe, si declina, da un lato, nel dovere di attivarsi, esercitando tutti i poteri connessi alla carica, per prevenire o eliminare ovvero attenuare le situazioni di criticità aziendale di cui siano, o debbano essere, a conoscenza, dall’altro, in quello di informarsi, affinché tanto la scelta di agire quanto quella di non agire risultino fondate sulla conoscenza della situazione aziendale che gli stessi possano procurarsi esercitando tutti i poteri di iniziativa connessi alla carica, con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Tali obblighi si connotano in termini particolarmente incisivi per gli amministratori di società che esercitano l’attività bancaria, prospettandosi, in tali ipotesi, non solo una responsabilità di natura contrattuale nei confronti dei soci della società, ma anche quella, di natura pubblicistica, nei confronti dell’Autorità di vigilanza (Cass. 19556/2020).

Il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere una costante e adeguata conoscenza del “business” bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega.

Ne consegue che il consigliere di amministrazione (anche se non esecutivo) di società per azioni, in conformità al disposto dell’art. 2392 c.c., comma 2, che concorre a connotare le funzioni gestorie tanto dei consiglieri non esecutivi, quanto di quelli esecutivi, è solidalmente responsabile della violazione commessa quando non intervenga per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose (Cass. 24851/2019; Cass. 5606/2019; Cass. 2620/2021).

Consegue, per tali ragioni, l’infondatezza di tutte le suesposte doglianze, dovendo peraltro precisarsi, riguardo all’omesso esame di fatti decisivi, censurato – sotto più profili – nei motivi di ricorso, che anche in tal caso si lamenta non già la mancata considerazione di singoli accadimenti oggettivi capaci di determinare un diverso esito del processo, ma la mancata condivisione delle tesi difensive formulate in ricorso riguardo all’incidenza causale della condotta dei vertici aziendali e riguardo all’esigibilità del dovere di agire informato da parte del ricorrente, sollecitando un controllo che esula da quello consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, trascurando inoltre che la Corte di merito ha puntualmente valutato le obiezioni sollevate dall’interessato su tali aspetti, reputandole infondate.

12.6. Di nessuna utilità per il ricorrente risultano le disposizioni regolamentari invocate con il sedicesimo motivo, la cui corretta interpretazione conferma – anziché escluderla – la sussistenza degli addebiti.

In disparte la riferibilità delle violazioni oggetto di causa all’attività di prestazioni di servizi di investimento, per i quali si rivela maggiormente appropriato il richiamo alle previsioni di cui al Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob del 29/10/2007, non può ritenersi che le previsioni di cui alla circolare n. 285/2013 della Banca d’Italia abbiano innovato l’assetto dei compiti e dei profili di responsabilità delineati dall’art. 2381 c.c..

Le norme regolamentari appaiono volte a rafforzare proprio l’assetto delineato dal codice civile, con la individuazione di regole più specifiche per il settore bancario e nel rispetto delle fonti di derivazione comunitaria (in particolare la direttiva 2013/36/UE CDR IV), ma sempre in vista di un armonico coordinamento tra la disciplina societaria di carattere generale e quella settoriale bancaria, il tutto in correlazione con il Regolamento UE n. 575/2013, componendo un quadro complessivo che include la disciplina delle attività bancarie, il quadro di vigilanza e le norme prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento.

Le previsioni della circolare, sebbene richiamino l’esigenza di una chiara distinzione dei ruoli e delle responsabilità degli organi, aggiungendo che l’articolazione della struttura interna deve comunque assicurare l’efficacia dei controlli e l’adeguatezza dei flussi informativi, non vanno intese come disposizioni che esonerino i componenti del CdA dall’osservanza dei doveri comportamentali che competono a ciascuno di essi.

Pur ad ammettere che la circolare della Banca d’Italia abbia, in vista del buon funzionamento delle imprese bancarie, operato una più rigorosa distinzione organizzativa della strutture ed un più rigoroso riparto di competenze, un tale assetto non vale a privare gli amministratori non esecutivi dei poteri (e dei doveri) di controllo generale sull’attività, non potendosi dovendosi, quanto agli indici di allarme, confidare sulle rassicurazioni offerte dagli uffici interni deputati al controllo sulla correttezza dell’agire delle singole articolazioni societarie.

Va invece ribadito, come già fatto in occasione della disamina dei precedenti motivi che le previsioni codicistiche, ed in particolare l’art. 2381 c.c., comma 3, suggeriscono che, proprio sulla base delle previsioni della circolare della Banca d’Italia, sia il CdA a dover esaminare i piani strategici, le norme regolamentari di settore sull’organo con funzione di supervisione strategica, debba deliberare sugli indirizzi di carattere strategico e verificarne nel continuo l’attuazione, e ciò alla luce del fatto che in base alla circolare esso ” definisce l’assetto complessivo di governo e approva l’assetto organizzativo della banca, e verifica la corretta attuazione e promuove tempestivamente le misure correttive a fronte di eventuali lacune o inadeguatezze”.

Ed è sempre la Circolare (part. I, titolo IV, capitolo I, sezione III, p.2, lett. b) ad imporre all’organo con funzione di supervisione strategica di dover approvare “l’assetto organizzativo e di governo societario della banca”, nonché i sistemi contabili e di rendicontazione e di assicurare un efficace confronto dialettico con la funzione di gestione e con i responsabili delle principali funzioni aziendali e verificare nel tempo le scelte e le decisioni da questi assunte.

Risulta confermata la centralità nella governance delle imprese bancarie del ruolo degli amministratori non esecutivi, essendo “compartecipi delle decisioni assunte dall’intero consiglio e chiamati a svolgere un’importante funzione dialettica e di monitoraggio sulle scelte compiute dagli esponenti esecutivi.

L’autorevolezza e la professionalità dei consiglieri non esecutivi devono essere adeguate all’efficace esercizio di queste funzioni, determinanti per la sana e prudente gestione della banca” (circolare n. 285, parte I, titolo IV, cap. I, sez. IV, p..1).

Anche a voler considerare che il ricorrente era privo di deleghe, ciò non lo esimeva dall’adempiere all’obbligo di tenersi adeguatamente informato, non potendo a tal fine invocare la settorialità delle proprie competenze, dato che l’accettazione dell’incarico di amministratore non esecutivo imponeva il rispetto di tutti gli oneri ed obblighi connessi alla carica, in linea con quanto a livello di normativa primaria detta l’art. 2381 c.c., comma 6.

D’altronde è la stessa Circolare della Banca d’Italia che, a prescindere dall’insorgenza di segnali di allarme, impone agli amministratori non esecutivi di dover acquisire informazioni sulla gestione e sull’organizzazione aziendale, avvalendosi sia degli eventuali comitati interni sia in via diretta del management, delle revisione interna e delle altre funzioni di controllo (Circ. 285/13, parte I, titolo IV, cap. 1, sez. IV, p..2.2).

Ne deriva che, anche alla luce del quadro normativo invocato da parte ricorrente, deve darsi continuità al principio secondo cui, in tema di responsabilità dei consiglieri non esecutivi di società autorizzate alla prestazione di servizi di investimento, è richiesto a tutti gli amministratori, che vengono nominati in ragione della loro specifica competenza anche nell’interesse dei risparmiatori, di svolgere i compiti loro affidati dalla legge con particolare diligenza e, quindi, anche in presenza di eventuali organi delegati, sussiste il dovere dei singoli consiglieri di valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo e contabile, nonché il generale andamento della gestione della società, e l’obbligo, in ipotesi di conoscenza o conoscibilità di irregolarità commesse nella prestazione dei servizi di investimento, di assumere ogni opportuna iniziativa per assicurare che la società si uniformi ad un comportamento diligente, corretto e trasparente. (Cass. 2620/2021; Cass. 24851/2019), non potendo a tal fine assumersi come causa esimente l’assenza di segnalazioni da parte degli amministratori delegati o delle altre strutture di controllo interno (Cass. 5606/2019, relativa a sanzioni irrogate al presidente del consiglio di amministrazione di una società finanziaria, privo di deleghe e membro, altresì, del comitato investimenti che si occupava della gestione strategica, per l’inadeguatezza dello scambio di informazioni tra i due organi, per l’assenza di un effettivo monitoraggio dell’esito delle operazioni approvate e di un controllo sulla liquidità dei fondi di investimento).

13. Il diciottesimo motivo denuncia la violazione dell’art. 21, comma 1, lett. d) del t.u.f. e dell’art. 15 del Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob del 29/10/2007, nonché dell’art. 21, comma 1, lett. a) del t.u.f., dell’art. 49, commi 1-3, del Regolamento Consob n. 16190 del 29/10/2007 e della L. n. 689 del 1981, art. 1, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver ritenuto violati gli obblighi di correttezza e trasparenza o di procedure adeguate con riferimento al riacquisto di azioni proprie, erroneamente inquadrando queste operazioni tra i “servizi d’investimento” con riferimento alla sanzione n. 3. L’attività di riacquisto delle azioni non costituirebbe oggetto di un servizio di investimento ai sensi dell’art. 1, comma 5 del t.u.f., essendo estraneo alla funzione di facilitare la circolazione di prodotti finanziari.

Secondo il ricorrente, non poteva esigersi che fosse rispettato l’ordine di presentazione per il riacquisto delle proprie azioni, potendo la banca anche esimersi dal procedere al riacquisto stesso.

Il motivo è infondato.

La sentenza ha ritenuto che la prassi seguita dalla banca nella gestione degli ordini fosse stata introdotta in violazione delle prescrizioni normative e regolamentari, mancando l’annotazione dell’orario di ricezione in modo da accertarne la priorità cronologica. Gli ordini non erano poi sottoposti al comitato soci secondo una lista contenuta in un database suscettibile di modifica da parte di ogni soggetto impiegato nell’apposita unità operativa.

La deroga al criterio cronologico era stata frequente, senza che però tali deroghe trovassero rispondenza e giustificazione in una specifica disciplina formale che ne definisse i limiti di ammissibilità, lasciando in tal modo un’eccessiva ed ingiustificata discrezionalità all’emittente.

E’ stata evidenziata anche la carenza delle scelte in merito al periodo di sospensione degli acquisti (cd. blocking period), non accompagnate da precisi criteri oggettivi e predefiniti, tali da consentire un’ordinata trattazione delle richieste e di individuare le effettive ipotesi di deroga al criterio dell’ordine di presentazione.

La riconducibilità delle azioni alla nozione di valori mobiliari quale evincibile dal disposto dell’art. 1, comma 1 bis, lett. a) t.u.f. (in tal senso, in motivazione, Cass. 8590/2018), e ciò anche per le azioni delle banche popolari, consente di ricondurre la vendita delle azioni in contropartita diretta con la clientela nella nozione di negoziazione in conto proprio, che l’art. 1, comma 5 bis, lett. a) del t.u.f. fa rientrare tra i servizi ed attività di investimento (in tal senso Cass. 11876/2016, secondo cui la negoziazione in contropartita diretta costituisce uno dei servizi di investimento al cui esercizio l’intermediario è autorizzato, al pari della negoziazione per conto terzi, come si evince dalle definizioni contenute nel D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, essendo essa una delle modalità con le quali l’intermediario può dare corso ad un ordine di acquisto o di vendita di strumenti finanziari impartito dal cliente; conf. Cass. 28432/2011).

Anche per tali operazioni valevano le regole di trasparenza ed imparzialità che gravano – in genere – sull’intermediario.

La sentenza impugnata ha poi accertato in fatto che la banca aveva considerato l’attività di compravendita di azioni proprie (mercato secondario) in contropartita diretta con la clientela, costituisse attività di negoziazione in conto proprio, rientrante quindi nella previsione di cui all’art. 1, comma 5, lett. a) t.u.f..

Le conseguenze che discendevano dal descritto inquadramento non erano attinte dal margine di discrezionalità che la banca si era riservata per dare esecuzione agli ordini (atteso l’obbligo di munirsi di procedure di recepimento degli ordini improntate a criteri di trasparenza, proprio in ragione dell’esigenza di giustificare nei conforti della clientela le modalità con le quali si era data esecuzione agli ordini, nell’ipotesi in cui la banca si fosse determinata alla richiesta di riacquisto). Anche tale attività soggiaceva dunque all’applicazione delle norme primarie e regolamentari, la cui violazione ha giustificato l’adozione della Delib. sanzionatoria.

14. Il diciannovesimo motivo denuncia la violazione dell’art. 21, comma 1, lett. D) t.u.f. e dell’art. 15 del Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob del 29/10/2007, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui la Corte d’Appello, con riferimento alla quarta contestazione, ha dato per presupposta la necessaria esistenza di una procedura strutturata per il pricing dell’azione della BPV, desumendo tale necessità da una indicazione Consob riferita a prodotti di investimento (OTC, obbligazioni strutturate, etc.) del tutto diversi.

Si lamenta che il ricorrente aveva contestato la necessità di una preventiva regolamentazione del processo di selezione e definizione del sovrapprezzo delle azioni di nuova emissione e che la censura sia stata disattesa per il fatto che, pur in assenza di una norma positiva che prevedesse la procedimentalizzazione del meccanismo di selezione degli esperti chiamati alla stima dello strumento finanziario, erano l’art. 21, comma, lett. d) t.u.f. e l’art. 15 del regolamento congiunto ad imporre una procedura di pricing massimamente oggettiva ed esaustiva.

Tale conclusione sarebbe errata, poiché la determinazione del sovrapprezzo è un’operazione interna che esula dalla prestazione di servizi di investimento.

La sentenza avrebbe poi desunto l’esistenza di un obbligo di comportamento della banca da una mera comunicazione della Consob che, in sé, non può dar luogo ad una fattispecie sanzionatoria in assenza di una prescrizione normativa.

Anche tale motivo va disatteso.

La qualificazione delle azioni come prodotti finanziari illiquidi e l’avvenuta loro collocazione presso la clientela della banca esclude che la determinazione del prezzo fosse un’operazione avente mera valenza interna, ma induce ad affermare la sua chiara correlazione alla prestazione di servizi di investimento, con la necessità di determinare il fair value del titolo con una procedura il più possibile oggettiva, precisa ed esaustiva.

L’adempimento degli obblighi di correttezza e trasparenza nella prestazione dei servizi di investimento impone anche l’adozione di idonee ed oggettive procedure di fissazione del prezzo dello strumento finanziario e ciò discende dalla normazione primaria, essendo incensurabile l’assunto della Corte d’Appello che ha attribuito alla Comunicazione della Consob DIN/9019104 del 2.3.2009, nella parte in cui ribadisce che la determinazione del fair value sulla base di strumenti basati su metodologie riconosciute e diffuse sul mercato proporzionate alla complessità del prodotto, valga anche per i prodotti di propria emissione ovvero per gli intermediari che operano in contropartita diretta con la clientela, valenza meramente interpretativa e non anche innovativa o creativa di una regola non esistente, come invece assume parte ricorrente. L’adozione della procedura di pricing, con le caratteristiche richieste in sentenza, deriva dallo stesso t.u.f. e dal ricordato regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob.

15. Il ventesimo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 91 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nella parte in cui la Corte d’Appello ha disposto la condanna dell’opponente al pagamento delle spese di lite a favore della Consob, nonostante quest’ultima si fosse difesa con funzionari interni e non con avvocati del libero foro, senza peraltro incorrere in alcuna spesa (al di là dello stipendio già garantito ai medesimi funzionari) per la difesa in giudizio.

Secondo il ricorrente la giurisprudenza di questa Corte ha reiteratamente affermato che, ove la PA si sia difesa a mezzo di un proprio funzionario appositamente delegato e risulti vittoriosa, le vanno riconosciute le sole spese vive debitamente documentate, non anche i diritti e gli onorari di avvocato.

Il motivo è evidentemente destituito di fondamento.

Il principio richiamato in motivo si attaglia alla ipotesi in cui il funzionario intervenuto in giudizio non rivesta la qualità di avvocato, in quanto non iscritto, come invece i difensori di parte controricorrente, all’elenco speciale in passato disciplinato dal R.D. n. 1578 del 1933, art. 3, comma 4, lett. B, ed oggi dall’art. 15 lett. C) della L. n. 247/2012.

Pur dovendosi ribadire le peculiarità della disciplina approntata per tale categoria di professionisti (Cass. S.U. 19547/2010, secondo cui l’iscrizione nell’albo speciale degli avvocati e procuratori legali dipendenti da enti pubblici richiede, quale presupposto imprescindibile, la “esclusività” dell’espletamento, da parte degli stessi, dell’attività di assistenza, rappresentanza e difesa dell’ente pubblico, presso il quale prestano la propria opera, nelle cause e negli affari dell’ente stesso, essendo l’esclusività negata qualora accanto a compiti riconducibili alla attività di assistenza e rappresentanza e difesa dell’ente svolgano mansioni amministrative o, comunque di natura diversa; Cass. s.u. 3733/2002), risulta tuttavia evidente, in ragione dell’iscrizione all’albo circondariale, sebbene in un elenco speciale, che si tratta di soggetti legittimamente esercenti la professione forense. La liquidazione delle spese processuali in favore dell’amministrazione patrocinata deve quindi avvenire in applicazione delle tabelle vigenti (Cass. 19274/2006; Cass. 4970/1990).

16. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con conseguente aggravio delle spese processuali liquidate in dispositivo.

Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in complessivi Euro 7500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 30 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2022

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