Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4518 del 24/02/2011

Cassazione civile sez. lav., 24/02/2011, (ud. 13/01/2011, dep. 24/02/2011), n.4518

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato TRIFIRO’ SALVATORE, giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

D.S.D., T.S.;

– intimati –

sul ricorso 8806-2007 proposto da:

D.S.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G.

GENTILE 8, presso lo studio dell’avvocato MARTORIELLO MASSIMO,

rappresentata e difesa dall’avvocato COGO GIOVANNA, giusta delega in

atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato PIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato TRIFIRO’ SALVATORE, giusta delega in atti;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 95/2006 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 27/01/2006 r.g.n. 1304/04 + 2;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/01/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato URSINO ANNA MARIA per delega FIORILLO LUIGI ;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

IANNELLI Domenico che ha concluso per cessazione materia del

contendere riguardo a T., rigetto ricorso principale e

incidentale riguardo a D.S..

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso notificato il 26 gennaio 2007, la s.p.a. Poste Italiane chiede con sei motivi, la cassazione della sentenza depositata il 27 gennaio 2006, con la quale la Corte d’appello di Milano aveva confermato la decisione di primo grado di condanna della società, a seguito dell’accertamento della nullità del termine apposto – ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 così come integrato dall’accordo 25 settembre 1997 “per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso e in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane ” – al contratto di lavoro intercorso con D.S. D., decorrente dal 4 dicembre 1998 e con T.S., decorrente dal 18 luglio 1998, a riammettere in servizio le lavoratrici e al pagamento delle retribuzioni dall’atto di messa in mora coincidente con la richiesta di esperimento del tentativo di conciliazione.

In particolare, la ricorrente deduce:

1) coi primi quattro motivi, la violazione ed erronea applicazione della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2 e della L. n. 56 del 1987 dell’art. 8 CCNL del 1994, e degli accordi sindacali 25.9.97, 18.1.98, 27.4.98, 2.7.98 e 18.1.2001 in connessione con l’art. 1362 e ss. c.c. nonchè il vizio di motivazione, per avere ritenuto che la possibile apposizione di un termine al contratto di lavoro ai sensi delle disposizioni citate fosse soggetta ad un limite temporale, viceversa non previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva indicata;

2) col quinto motivo, la violazione degli artt. 2094, 2099, 1206, 1207 e 1217 c.c. e il vizio di motivazione laddove la Corte territoriale aveva condannato la società a pagare le retribuzioni dalla data di richiesta del tentativo di conciliazione nonostante questo non contenesse alcuna offerta della prestazione, del resto assente anche nel ricorso ex art. 414 c.p.c.;

3) col sesto motivo, la violazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219, 1223, 1227 e 2697 c.c. nonchè artt. 2094 e 2099 c.c. e art. 112 c.p.c. e il vizio di motivazione per avere condannato la società al pagamento delle retribuzioni nonostante l’assenza di prestazione o della relativa offerta.

Alle domande della società ha resistito con controricorso D. S.D., proponendo altresì ricorso incidentale, per violazione del combinato disposto della L. n. 794 del 1942, D.M. 8 aprile 2004, n. 127, artt. 1, 4, 5 e 6 per pretesa violazione dei minimi nella liquidazione delle spese di lite.

La società resiste al ricorso incidentale con rituale controricorso.

L’intimata T.S. non sì è costituita in questa sede.

Con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., la società ricorrente, richiamando l’avvenuto deposito in cancelleria di copia del verbale di conciliazione stragiudiziale in data 26 luglio 2006 con la intimata T.S. ha chiesto la declaratoria di estinzione del relativo giudizio.

Quanto al ricorso nei confronti della D.S. ha ribadito la fondatezza della domanda e in via subordinata ha invocato l’applicazione dello ius superveniem rappresentato dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5 e 7.

Anche la difesa di D.S.D. ha depositato una memoria

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

I due ricorsi, principale e incidentale, vanno riuniti, avendo ad oggetto la medesima sentenza.

Il ricorso principale nei confronti di T.S. va dichiarato inammissibile, per il venire meno dell’interesse allo stesso a seguito della cessazione della materia del contendere conseguente alla conciliazione della lite; con compensazione delle spese di questo giudizio di cassazione nello spirito dell’avvenuta composizione consensuale della controversia.

Il ricorso principale nei confronti di d.S.D. è infondato.

Quanto ai primi quattro motivi, che vanno esaminati congiuntamente, si rileva che i giudici di merito hanno individuato negli accordi attuativi del 1997 e 1998 citati in sentenza, l’imposizione di un termine finale di efficacia alla causale giustificativa dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro – di origine contrattuale collettiva (come consentito dalla L. n. 56 del 1987, art. 23) – relativa alle esigenze legate alla ristrutturazione aziendale, rilevando che tale termine era scaduto il 30 aprile 1998 e quindi in data antecedente a quella dei contratti di lavoro esaminati.

In proposito, va ricordato che, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U., n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, da ultimo, Cass. n. 6913/09), la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 ha operato una sorta di “delega in bianco” alla contrattazione collettiva ivi considerata, quanto alla individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla L. n. 230 del 1962 e soggette unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti.

Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive può essere operata anche direttamente, attraverso l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto 2008 n. 21063).

Quanto al tipo di contrattazione collettiva autorizzata a tale ampliamento, la L. n. 56, citato art. 23 si esprime in termini di “apposizione di un termine … consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale”.

Nel caso in esame, come ricordato anche dalla ricorrente, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, sottoscritto dai tre maggiori sindacati nazionali, era stata introdotta nel testo dell’art. 8, comma 2 del C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro (oltre quelle originariamente previste ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23) il caso di “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse, umane”.

Inoltre, in pari data, le medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo, col quale sì davano atto che fino al 31 gennaio 1998 l’impresa versava nelle condizioni legittimanti la stipula del contratto a termine per affrontare il processo di ristrutturazione e con successivi accordi attuativi avevano accertato che tali condizioni erano proseguite fino al 30 aprile 1998.

Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (cfr, per tutte, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866, 28 novembre 2008 n. 28450 e 20 marzo 2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente confermato, con orientamento ormai consolidato, le decisioni dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto dopo il 30 aprile 1998 a contratti di lavoro stipulati in base alla previsione di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997 e cassato le poche decisioni di segno opposto.

Pur negando, sulla base della considerazione dell’autonomia delle ipotesi aggiuntive la cui previsione è affidata ai contraenti collettivi indicati, la necessità che quella di cui all’accordo in questione debba essere istituzionalmente contenuta in limiti temporali predeterminati, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito secondo cui, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e ai successivi accordi attuativi sottoscritti in data 16 gennaio 1998 e in data 27 aprile 1998, le parti avevano convenuto di limitare il riconoscimento della sussistenza della situazione descritta nell’accordo integrativo unicamente fino al 31 gennaio e poi fino al 30 aprile 1998, per cui, per far fronte alle esigenze in tale sede indicate, l’impresa poteva procedere ad assunzioni di personale con contratto a tempo determinato unicamente fino al 30 aprile 1998, con la conseguente illegittimità dei contratti stipulati successivamente a tale data.

Tale uniforme giurisprudenza di questa Corte ha infatti rilevato che siffatta interpretazione:

– non viola il canone ermeneutico che rimanda al significato letterale degli accordi, laddove questo è stato valutato dai giudici di merito come evidente ed univoco e quindi non necessitante di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti;

– è comunque rispettosa del canone di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, in quanto ritenendo che gli accordi attuativi non avrebbero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, essi risulterebbero privi di un qualunque utile effetto;

– appare altresì corretta laddove ha ritenuto irrilevante, nella ricostruzione della volontà delle parti, l’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e quindi quando il diritto del lavoratore alla stabilità del rapporto si era già perfezionato.

Da tali conclusioni della giurisprudenza non vi è ora ragione di discostarsi, in quanto le opposte valutazioni sviluppate nelle difese della ricorrente sono sorrette da argomenti ripetutamente scrutinati nelle molteplici occasioni ricordate e non appaiono comunque talmente evidenti e gravi da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti (ancorchè non intesi nel caso di specie in senso tecnico, trattandosi della interpretazione di contratti collettivi di diritto comune, il cui controllo in sede di legittimità non è diretto, come poi stabilito per le sentenze depositate successivamente al 1 marzo 2006 dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, artt. 2 e 27, comma 2), sul quale si fonda per larga parte l’assolvimento della funzione ad essa affidata di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.

La decisione impugnata, relativa all’accertata illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro della parte resistente per la causale indicata, in quanto stipulato successivamente alla data del 30 aprile 1998, si sottrae pertanto alle censure svolte dalla ricorrente, sopra riassunte.

Quanto agli ultimi due motivi del ricorso principale, da esaminare congiuntamente, essi sono inammissibili.

Non appare infatti anzitutto pertinente la censura connessa alla natura sinallagmatica delle prestazioni nell’ambito del contratto di lavoro, per cui la retribuzione è dovuta al lavoratore solo a fronte della sua prestazione. In proposito, i giudici di merito non hanno inteso infatti attribuire alla ricorrente la retribuzione pur in assenza della sua prestazione lavorativa, ma hanno preso in considerazione la retribuzione unicamente come parametro di determinazione del danno da risarcire, per effetto della mancata riammissione in servizio della lavoratrice, come è fatto palese dal fatto che tale determinazione è stata fatta decorrere dalla data di offerta della propria prestazione da parte della D.S., ai sensi degli artt. 1206 e ss. cod. civ..

In proposito, i giudici di merito hanno inoltre accertato che una tale offerta di prestazione lavorativa era contenuta nel caso in esame nella richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione stragiudiziale.

Trattasi di accertamento di fatto che la ricorrente avrebbe potuto contrastare, in ossequio alla regola della autosufficienza del ricorso per cassazione, con la specificazione e riproduzione del contenuto di tale richiesta, mentre si è limitata, in maniera inammissibile, in quanto non pertinente, a contestare che la richiesta di tentativo di conciliazione, di per sè, possa essere valutata come atto di costituzione in mora del creditore ai sensi delle norme citate.

Con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società ricorrente invoca, in via subordinata, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, l’applicazione dello ius superve-niens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010, del seguente tenore:

“Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell ‘ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.

Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.”.

Con riguardo alla richiesta della società, e a prescindere dall’esame della problematica relativa alla possibilità di ricomprendere tra i giudizi pendenti cui il comma 7 ora riportato applica i precedenti commi 5 e 6 anche il giudizio di cassazione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr.

Cass. 8 maggio 2006 n. 10547).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria.

Poichè nel caso in esame i motivi che investono le conseguenze risarcitorie della ritenuta nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso sono inammissibili, la richiesta di applicazione dello ius superveniens formulata dalla difesa della ricorrente non può comunque essere presa in esame.

E’ viceversa fondato il ricorso incidentale di D.S. D., sia perchè la Corte territoriale ha operato in un’unica cifra complessiva quanto dovuto a titolo di spese vive, diritti e onorari, sia perchè comunque tale importo complessivo viola i minimi imposti dal combinato disposto della L. n. 794 del 1942, art. 24, del D.M. 8 aprile 2004, n. 127, artt. 1, 4, 5 e 6 correttamente indicati dalla ricorrente incidentale, che ne chiede in tale misura minima la liquidazione.

Il ricorso incidentale va pertanto accolto, con la conseguente cassazione sul punto della sentenza impugnata. Non essendo in proposito necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito con la determinazione di spese, diritti e onorari del grado di appello nella misura minima richiesta. Il regolamento delle spese anche del primo grado e di questo giudizio di cassazione si uniforma al criterio della soccombenza e gli importi relativi sono liquidati in dispositivo.

PQM

La Corte riunisce i ricorsi;

dichiara inammissibile il ricorso principale nei confronti di T.S., con compensazione delle spese;

rigetta il ricorso principale nei confronti di D.S.D. e accoglie il ricorso incidentale di quest’ultima;

cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e, decidendo nel merito, condanna la società a rimborsare alla D. S. le spese del giudizio di appello nella misura di Euro 80,00 per spese, Euro 505,00 per diritti ed Euro 935,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA;

conferma la liquidazione delle spese operata dal giudice di primo grado e condanna la società a rimborsare alla D.S. le spese di questo giudizio di cassazione, liquidate in Euro 41,00 per esborsi ed Euro 3.000,00, oltre 12,50%, IVA e CPA, per onorari.

Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2011

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