Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 451 del 11/01/2017

Cassazione civile, sez. II, 11/01/2017, (ud. 29/09/2016, dep.11/01/2017),  n. 451

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15338-2014 proposto da:

C.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTON GIULIO

BARRILLI 49, presso lo studio dell’avvocato DANIEL DE VITO,

rappresentato e difeso dall’avvocato VALERIO FREDA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO ECONOMIA FINANZE, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO,

che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4040/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 19/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/09/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA;

uditi gli Avvocati Freda e Tortora;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, il quale ha concluso per il

rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 11 febbraio 2010, C.L. proponeva opposizione davanti al Tribunale di Ariano Irpino avverso l’ordinanza ingiunzione n. 74588, notificata il 14 gennaio 2010, con la quale il Ministero dell’Economia e delle Finanze gli aveva ingiunto il pagamento della somma di Euro 8.202,00 per avere effettuato transazioni finanziarie in contanti, senza il tramite di intermediari abilitati, in violazione del D.L. n. 143 del 1991, art. 1 conv. in L. n. 197 del 1991.

All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Ariano Irpino con la sentenza n. 401 del 28 settembre 2010, disattese le questioni pregiudiziali e la preliminare eccezione di prescrizione, accoglieva l’opposizione nel merito, ritenendo che la Cassa Arianese di Mutualità soc. coop. (d’ora in avanti CAM) fosse un intermediario abilitato al trasferimento di denaro contante oltre la soglia di cui alla detta legge.

Avverso tale sentenza proponeva appello il Ministero dell’Economia e delle Finanze, chiedendone l’integrale riforma.

Si costituiva il C. che insisteva per la conferma della sentenza appellata, proponendo, a sua volta, appello incidentale, in ordine all’omessa pronuncia sulla insussistenza delle violazioni ed alla rideterminazione della misura delle sanzioni.

La Corte d’Appello di Napoli con la sentenza n. 4040 del 19 novembre 2013 accoglieva l’appello principale, rigettando l’opposizione proposta dal C.. I giudici del gravame ribadivano l’infondatezza dell’eccezione di prescrizione, atteso che l’ordinanza risultava notificata nei cinque anni dalla contestazione; escludevano la violazione della disposizione di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 14 e negavano che vi fosse nullità per mancata audizione dell’opponente. Nel merito, la Corte di Napoli riteneva, poi, che vi fosse la prova delle violazioni contestate. Infatti, le operazioni in contanti eseguite presso CAM, della quale il C. era socio, erano state accertate dalla Guardia di Finanza in base alla documentazione rinvenuta presso la sede sociale, e d’altronde l’opponente ed altri soggetti coinvolti si erano limitati solo a contestare l’applicabilità alla fattispecie della normativa antiriciclaggio, senza però confutare l’effettivo compimento delle operazioni. La contestazione, sollevata solo con la comparsa di risposta in appello, quanto alla inidoneità delle risultanze della “prima nota cassa” appariva, poi, inammissibile, in quanto proposta solo in appello, oltre che infondata, atteso che le violazioni erano state confortate anche dalle registrazioni presenti in altri libri contabili della società. Quanto alla violazione del D.L. n. 143 del 1991, art. 1 e riformando sul punto la decisione del Tribunale, la sentenza impugnata ha osservato che la CAM non rientrasse tra i soggetti abilitati ex lege ad esercitare attività di trasferimento di contante sopra la soglia legale, e che, in ogni caso, essa non avesse richiesto la specifica abilitazione concessa dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Osserva la Corte di merito come, dalla lettura congiunta delle norme, si ricavi che, sebbene si consenta agli intermediari di poter continuare, alla data di entrata in vigore della disciplina normativa in esame, l’attività di erogazione di credito al consumo nei confronti dei propri soci ovvero di locazione finanziaria, purchè ne diano comunicazione all’Ufficio Italiano dei Cambi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, gli stessi, in ogni caso, non rientrando tra i soggetti abilitati ex lege al trasferimento di contanti ex art. 1, avrebbero dovuto richiedere l’abilitazione al compimento di tali attività al Ministero. Nel caso in esame la CAM aveva comunicato all’UIC il proprio intento di esercitare l’attività di raccolta del risparmio e di concessione prestiti esclusivamente tra i soci, precisando che si trattava di una richiesta avanzata con riserva, in quanto non reputava di poter essere ricompresa tra gli intermediari di cui all’art. 6 CIT. D.L. Ancorchè la CAM sia stata poi iscritta nell’elenco di cui all’art. 6, ciò non determina automaticamente l’abilitazione al compimento delle operazioni in denaro contante, che sono invece riservate in via esclusiva agli intermediari abilitati ex lege ovvero a quelli che abbiano richiesto apposita abilitazione al Ministero. Ne discendeva quindi che sussistevano gli elementi oggettivi dell’illecito contestato.

Quanto al profilo soggettivo, e ribadito che la L. n. 689 del 1981, art. 3 pone una presunzione di colpa, la sentenza d’appello riteneva che nella fattispecie non vi fossero elementi tali da ingenerare un’errata convinzione sul significato della norma e sulla liceità del comportamento, nè poteva reputarsi che la condotta dell’appellato fosse del tutto irreprensibile. La finalità della normativa violata, che ha avuto ampia conoscenza anche presso i semplici cittadini, non giustificava, perciò, la pretesa ignoranza della violazione contestata, non potendo avere efficacia esimente nè gli esiti di controlli effettuati in sede ispettiva dalla Banca d’Italia nel 1997 (trattandosi di ispezione effettuata ad altri fini), nè l’archiviazione in sede penale disposta dal GIP del Tribunale di Ariano Irpino in data 18/3/2009, posto che il reato contestato concerneva una fattispecie diversa da quella sanzionata dall’ordinanza opposta, nè la nota dell’UIC del 13/2/1992, con la quale si comunicava l’iscrizione della CAM nell’elenco di cui all’art. 6. Inoltre il fatto che il C. fosse un semplice socio della società non lo esonerava dall’obbligo di informarsi sulle attribuzioni della Cassa, senza effettuare superficialmente reiterate transazioni illegali. In definitiva tutte le circostanze addotte a giustificazione dell’errore scusabile apparivano di equivoca lettura di modo che la convinzione del C. era conseguenza di errori ed omissioni che avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.

Infine, quanto alla misura della sanzione irrogata, riteneva che a fronte di un massimo edittale pari al 40% della somma oggetto di transazione illecita, la sanzione applicata nella percentuale del 5% appariva proporzionale ed equa, considerata la gravità soggettiva della violazione che risulta modesta.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso C.L., articolandolo su cinque motivi. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tre le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Si deduce che con uno specifico motivo di appello incidentale il C. aveva dedotto che il giudice di primo grado non si era pronunciato sul motivo di opposizione concernente la prova delle violazioni, posto che la GdF aveva fondato il proprio accertamento esclusivamente sulle risultanze della “prima nota cassa”, documento che non costituisce scrittura contabile obbligatoria e che non contiene la prova che le somme ivi registrate siano state trasferite in contanti.

Tale doglianza, la cui attualità si è riproposta in grado di appello, è stata però disattesa dalla sentenza gravata con una motivazione che, a detta del ricorrente, deve di fatto reputarsi omessa. Infatti, si afferma che l’opponente non avrebbe mai messo in discussione la circostanza che le operazioni oggetto di contestazione siano effettivamente avvenute, trascurando il fatto storico che nel ricorso introduttivo si era invece contestato che le operazioni potessero integrare un trasferimento di denaro in contante. Inoltre, pur affermandosi che le operazioni in contanti eseguite dalla CAM erano state accertate dalla polizia tributaria sulla base della documentazione rinvenuta presso la stessa società (libri sociali, registri cartacei ed archivio informatico) si era omesso di considerare il fatto storico per cui agli atti non risultava acquisita la documentazione de qua.

Il motivo deve essere disatteso.

Opera nel caso in esame ratione temporis il disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, conseguente alla modifica operata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv. con modif. in L. n. 134 del 2012, il quale consente il sindacato sulla motivazione limitatamente alla rilevazione dell’omesso esame di un “fatto” decisivo e discusso dalle parti. Proprio a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., ed al fine di chiarirne l’esatta portata, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, affermando che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, ed è solo in tali ristretti limiti che può essere denunziata la violazione di legge, sotto il profilo della violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4. E’ quindi precluso nel giudizio di cassazione l’accertamento dei fatti ovvero la loro valutazione a fini istruttori (Cass. Sez. L, Sentenza n. 21439 del 21/10/2015), così come non è più denunciabile in sede di legittimità l’anomalia motivazionale allorchè non si censuri la totale pretermissione di uno specifico fatto storico, ovvero di dati materiali, ed anzi, si rappresenti che il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ma la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. L, Sentenza n. 14324 del 09/07/2015; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 21257 del 08/10/2014).

Nella fattispecie, atteso il tenore della sentenza impugnata, deve escludersi che ricorra un’ipotesi di vizio di motivazione riconducibile ad una delle fattispecie che, come sopra esposto, in base alla Riforma del 2012 permettono a questa Corte di sindacare la motivazione del giudice di merito.

Ed, infatti, il motivo, oltre a non indicare specificamente il contenuto delle difese del ricorrente nel corso del giudizio di primo grado, trascrivendone solo dei limitatissimi stralci, che non permettono di apprezzarne la complessiva portata (in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), si risolve in una critica alla valutazione compiuta dal giudice di appello in ordine a tale condotta processuale, il che conferma che la censura non si appunta su di un’omessa disamina (che in realtà vi è stata) di un fatto storico, quanto sulla condivisibilità o meno di una valutazione compiuta dal giudice di merito, ipotesi che esula dal novero delle censure motivazionali suscettibili di essere portate all’attenzione di questa Corte.

Così come parimenti inidoneo a configurare l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio è il rilievo circa la valenza probatoria della sola “prima nota cassa”, avendo la Corte di appello evidenziato che, in realtà, quanto emergeva da tale registro trovava conforto anche negli altri documenti contabili. Appare quindi evidente che la sentenza gravata ha ritenuto che la valenza probatoria del verbale di contestazione trovava adeguato supporto non solo nel registro di cui si contesta l’idoneità probatoria, ma anche negli altri documenti contabili che la GdF aveva avuto modo di verificare.

Pertanto, lungi, ancora una volta, dal prospettare un omesso esame di un fatto decisivo, il motivo mira piuttosto a contestare la valutazione di idoneità probatoria dei mezzi di prova che il giudice di merito ha ritenuto di porre a fondamento della propria decisione, risolvendosi, quindi, in una censura che, anche alla luce della vecchia formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, era preclusa in sede di legittimità (in tal senso si veda il constante principio per il quale i vizi di motivazione denunciabili in cassazione non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014; Cass. Sez. L, Sentenza n. 16499 del 15/07/2009).

2. Il secondo motivo denunzia la violazione del D.L. n. 143 del 1991, art. 1, comma 1, art. 4, commi 1 e 2, e art. 6, comma 1 e art. 4 bis in relazione al disposto di cui all’art. 106 TUB.

Assume il ricorrente che la costituzione della CAM risale al 1 marzo 1989, anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 197 del 1991 di conversione del D.L. n. 143 del 1991. A tal fine evidenzia che l’art. 1 legge ora citata vieta il trasferimento di contante o di titoli al portatore eccedente la soglia prevista, se non avvalendosi degli intermediari di cui al primo comma dell’art. 4 (intermediari abilitati ex lege) e di cui allo stesso art. 4, comma 2 (intermediari abilitati previo rilascio di provvedimento da parte del Ministero, sentite la Banca d’Italia e la Consob). Ed, infatti, l’art. 4, comnma 4, prevede che: “gli intermediari abilitati, nei limiti delle proprie attività istituzionali, ad effettuare le operazioni di trasferimento di cui all’art. 1 sono gli uffici della pubblica amministrazione, ivi compresi gli uffici postali, gli enti creditizi, gli istituti di moneta elettronica, le società di intermediazione mobiliare, le società commissionarie ammesse agli antirecinti alle grida delle borse valori, gli agenti di cambio, le società autorizzate al collocamento a domicilio di valori mobiliari, le società di gestione di fondi comuni di investimento mobiliare, le società fiduciarie, le imprese e gli enti assicurativi e la società Monte Titoli S.p.a. di cui alla L. 19 giugno 1986, n. 289, nonchè gli altri intermediari abilitati ai sensi del comma 2 “, mentre il comma 2 dispone che: “il Ministro del tesoro, di concerto con i Ministri dell’interno, di grazia e giustizia, delle finanze e dell’industria, del commercio e dell’artigianato, sentite la Banca d’Italia e la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), determina le condizioni in presenza delle quali altri intermediari possono, su richiesta, essere abilitati dal Ministro del tesoro ad effettuare le operazioni di trasferimento di cui all’art. 1. Tali intermediari devono comunque avere per oggetto prevalente o svolgere in via prevalente una o più delle seguenti attività: concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, compresa la locazione finanziaria; assunzione di partecipazioni; intermediazione in cambi; servizi di incasso, pagamento e trasferimento di fondi anche mediante emissione e gestione di carte di credito”.

Il successivo art. 6 prevede, poi, al comma 1 che l’esercizio in via prevalente di una o più delle attività di cui all’art. 4, comma 2, è riservato agli intermediari iscritti in apposito elenco tenuto dal Ministro del tesoro, che si avvale dell’Ufficio italiano dei cambi, il quale dà comunicazione dell’iscrizione alla Banca d’Italia e alla CONSOB, previsione questa poi abrogata e sostituita con il disposto di cui all’art. 106 TUB. Ancora, mentre l’art. 6, comma 2 in esame prevede che: “Gli intermediari di cui al comma 1 che esercitano la propria attività nei confronti del pubblico o che erogano credito al consumo, anche se nell’ambito dei propri soci, devono avere la forma di società per azioni o in accomandita per azioni o a responsabilità limitata o di società cooperativa. Il capitale sociale versato non può essere inferiore a cinque volte il capitale minimo previsto per la costituzione delle società per azioni. Il Ministro del tesoro, con proprio decreto, sentita la Banca d’Italia, può indicare una misura inferiore del capitale minimo per particolari categorie di operatori. Entro due anni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, i soggetti di cui al presente comma procedono alle operazioni di trasformazione e di aumento di capitale eventualmente necessarie”, il comma 2 bis dispone che “In deroga a quanto previsto dal comma 2, gli intermediari di cui al comma 1 che esercitano l’attività di locazione finanziaria devono avere la forma di società per azioni e un capitale sociale versato non inferiore a cinque volte il capitale minimo previsto per la costituzione delle società per azioni”, stabilendo quindi i requisiti formali prescritti affinchè gli intermediari possano essere iscritti nell’elenco di cui all’odierno art. 106 TUB.

Infine, con una norma chiaramente di diritto intertemporale, l’art. 6, comma 4 bis prevede che “Gli intermediari di cui ai commi 2 e 2- bis esercenti l’attività alla data di entrata in vigore del presente decreto possono continuare ad esercitarla a condizione che ne diano comunicazione all’Ufficio italiano dei cambi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Nei confronti dei soggetti che non ottemperano alle disposizioni di cui ai commi 2, 2- bis, 3 e 4 nei termini ivi stabiliti, si applica la disposizione del comma 8” (con la conseguente cancellazione dall’elenco).

Il quadro normativo ora riportato è stato interpretato dalla Corte di Napoli nel senso che, non rientrando la CAM tra i soggetti di cui al primo comma dell’art. 2, e pur essendo stata inserita nell’elenco di cui all’art. 6, svolgendo una delle attività di cui all’art. 4 comma 2, per il compimento di operazioni di trasferimento di denaro contante era necessario comunque richiedere un’apposita abilitazione al Ministero. La sentenza impugnata, dopo aver dato atto dell’abrogazione dell’art. 6 ad opera del TUB, ribadendo anche la sopravvivenza delle norme in esame, sino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti emanati dalle autorità creditizie, D.Lgs. n. 385 del 1993, ex art. 161 ha riscontrato che la CAM, con istanza del 4 ottobre 1991, aveva segnalato all’UIC che intendeva esercitare l’attività di raccolta del risparmio solo tra i soci e l’attività di concessione prestiti sempre esclusivamente tra i soci stessi, aggiungendo che la richiesta era presentata con riserva, in quanto non riteneva di poter essere ricompresa tra i destinatari dell’art. 6, non svolgendo attività di intermediazione. Alla luce di tale missiva, la Corte di merito ha quindi precisato che non vi era alcuna richiesta di abilitazione alle attività di trasferimento del contante, intendendo semplicemente continuare ad esercitare le attività indicate dall’art. 6, commi 2 e 2 bis. A tale istanza fece poi seguito la risposta dell’UIC con la quale si comunicava l’avvenuta iscrizione della ricorrente nell’elenco degli intermediari, ma senza alcun riferimento agli obblighi specifici imposti per i soggetti abilitati ex lege ovvero per provvedimento alle operazioni di trasferimento di denaro contante.

Questa ricostruzione normativa e fattuale, per effetto della quale l’avvenuta iscrizione della CAM nell’elenco di cui all’art. 6 era finalizzata esclusivamente alla prosecuzione della pregressa attività, ma con esclusione della possibilità di trasferire denaro contante, è contestata dal ricorrente, il quale, facendo leva sulla preesistenza della Cassa rispetto alla novella del 1991, ritiene che tale condizione le consentiva, oltre che di beneficiare dell’iscrizione nell’elenco di cui all’art. 6, anche della possibilità di poter compiere le attività di cui all’art. 1, e ciò sempre a seguito di semplice comunicazione all’UIC.

La tesi di parte ricorrente è però priva di fondamento, ritenendo il collegio di dover condividere la ricostruzione della disciplina così come effettuata dalla Corte di Napoli.

La soluzione cui mira il ricorrente risulta chiaramente contrastare con il dato letterale delle norme in esame.

Ed, infatti, posto che l’elenco di cui all’art. 6, comma 1 serve a designare i soggetti che possono giovarsi della qualifica di intermediari di cui all’art. 4, comma 2 l’inserzione in tale elenco, concessa con criteri semplificati a coloro che già prima dell’entrata in vigore della legge, esercitavano l’attività di cui all’art. 6, commi 2 e 2 bis come si ricava dalla piana lettura dell’art. 4, comma 2, non implica l’automatico riconoscimento della possibilità di poter effettuare operazioni di trasferimento di contante.

Ed, invero, per gli intermediari in oggetto, la legittimità delle operazioni di cui all’art. 1, presuppone una richiesta di abilitazione indirizzata al Ministero del Tesoro con la successiva emanazione del provvedimento abilitativo, di guisa che deve escludersi che il regime di favore, previsto per gli intermediari già operanti alla data di entrata in vigore del decreto legge, potesse estendersi anche alla possibilità di negoziare in contanti senza la previa richiesta di abilitazione al Ministero, richiedendo la legge ai fini in esame il concorso di entrambe le condizioni.

Nè, come correttamente evidenziato dalla sentenza impugnata, la richiesta inoltrata all’UIC per l’iscrizione nell’elenco ai sensi dell’art. 6, comma 4 bis può ritenersi contenere un’implicita richiesta di abilitazione ex art. 4, comma 2, essendo diversi i soggetti destinatari delle due richieste (per la seconda era infatti previsto che il provvedimento di abilitazione dovesse essere rilasciato dal Ministero del Tesoro).

Ancora, il dettato dell’art. 4, comma 2, lascia chiaramente intendere che vi possano essere intermediari, non abilitati ex lege al trasferimento del contante, che, pur essendo inseriti nell’elenco oggi previsto dall’art. 106 TUB, non siano altresì abilitati al trasferimento del contante, il che mina ab imis le premesse del ragionamento del ricorrente, per le quali l’iscrizione per le società già operanti determina l’abilitazione anche alle operazioni di cui al comma 1, non potendosi escludere che anche prima della novella vi fossero soggetti svolgenti attività di cui all’art. 6, commi 2 e 2 bis i quali, però, operassero senza effettuare trasferimento di contanti.

Infine, depone in senso contrario alla censura sollevata dal C. anche l’interpretazione teleologica delle norme, in quanto, essendo la finalità del legislatore quella di porre un freno all’utilizzo del contante in vista del contrasto alle operazioni di riciclaggio del denaro di provenienza illecita, aumentando di conseguenza le garanzie di trasparenza e tracciabilità delle operazioni di movimentazione del contante, il prevedere, con riguardo al cospicuo numero di intermediari già operanti alla data di entrata in vigore della legge, la possibilità di continuare ad effettuare operazioni di trasferimento di denaro contante, senza una previa abilitazione da parte del Ministero, vanificherebbe le stesse finalità sottese all’emanazione della legge.

Il secondo motivo di ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

3. Con il terzo motivo si denunzia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione al mancato riconoscimento della carenza dell’elemento soggettivo ovvero della sussistenza di un errore scusabile.

La Corte di merito avrebbe disatteso le difese del ricorrente limitandosi a richiamare la presunzione di colpa prevista dalla L. n. 689 del 1981, art. 3 aggiungendo che la normativa antiriciclaggio è conosciuta diffusamente anche dai semplici cittadini, sicchè non può definirsi equivoca o poco chiara.

In realtà l’errore scusabile era da individuarsi nel possesso in capo alla CAM della qualità di intermediario abilitato, che costituisce un errore sul fatto, piuttosto che un errore di diritto.

L’incertezza circa la corretta qualificazione soggettiva era poi avvalorata da varie pronunce emesse dal medesimo Tribunale di Ariano Irpino che avevano sposato la tesi del ricorrente circa la possibilità di poter effettuare trasferimenti di denaro contante oltre soglia. Inoltre, si era omessa la disamina di vari fatti storici, quali l’elevato numero di operazioni effettuate dal 1993 al 2004, che non avevano destato alcuna osservazione in sede ispettiva da parte della Banca d’Italia, nonchè la circostanza che la CAM aveva comunque osservato la normativa antiriciclaggio allorchè aveva eseguito le numerose operazioni oggetto della contestazione. Ancora lo stesso UIC, all’esito del verbale di constatazione per cui è causa, aveva contestato la violazione dell’art. 116 TUB, per l’assenza nei locali della Cassa degli avvisi e/o dei fogli informativi, e dell’art. 133 TUB in quanto la denominazione sociale era idonea a trarre in inganno circa la legittimazione allo svolgimento dell’attività.

Anche tale motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 non appare conformarsi alla novellata previsione della norma in esame, dovendosi escludere che la motivazione della Corte di merito abbia omesso di prendere in considerazione un fatto storico decisivo.

Ed, infatti, nel caso in esame, il fatto valutato è proprio la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito contestato, e la sentenza impugnata, lungi dal limitarsi a far riferimento alla sola conoscenza della norma da parte della generalità dei consociati, ha valutato, escludendone l’idoneità in chiave esimente per la responsabilità del ricorrente, proprio alcuni dei fatti che in motivo si assume essere stati non esaminati, quali la rilevanza dell’attività ispettiva compiuta dalla Banca d’Italia, ovvero gli accertamenti compiuti in sede penale, o la concreta conoscenza o conoscibilità degli atti dell’UIC, fornendosi altresì delle diffuse considerazioni in merito all’incidenza che sulla conoscenza di tali eventi poteva rivestire la qualità di socio.

In tal senso, poi, la citata pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. Sez. U, Sentenza n. 8054 del 07/04/2014) ha altresì sottolineato che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie. Avendo, allora, la sentenza qui gravata fornito ampia e coerente motivazione in ordine agli elementi in base ai quali reputava sussistere l’elemento soggettivo dell’illecito, il fatto che alcuni elementi siano stati invece trascurati o ritenuti irrilevanti, non determina la fondatezza della doglianza proposta.

Emerge piuttosto un’ampia ed articolata disamina degli elementi fattuali, connotata da logicità e coerenza argomentativa, che pone la motivazione della sentenza impugnata al riparo da qualsivoglia censura, non solo in base al novellato tenore dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ma anche per l’ipotesi in cui la valutazione fosse avvenuta sulla base del vecchio testo della norma, risolvendosi la critica del ricorrente in una non consentita sollecitazione ad una diversa valutazione dei fatti di causa ad opera di questa Corte.

4. Con il quarto motivo si lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in quanto il ricorrente, con un motivo di appello incidentale, aveva reiterato la richiesta di riduzione della sanzione per l’ipotesi di accoglimento dell’appello.

Con il quinto motivo di ricorso si contesta poi, sempre in relazione alla misura della sanzione, la violazione della L. n. 689 del 1981, artt. 11 e 23.

Il ricorrente con un motivo di appello incidentale aveva contestato le modalità di calcolo della sanzione, invocando una nuova graduazione della sanzione stessa in senso più favorevole. La Corte di merito ha invece valutato esclusivamente il divario esistente tra il minimo ed il massimo edittali della sanzione, ritenendo congrua, a fronte di un massimo pari al 40% della somma illecitamente oggetto di transazione, la sanzione determinata in una percentuale pari al 5%.

L’art. 11 tuttavia prevede che, quali parametri di valutazione dell’entità della sanzione, debba tenersi conto della gravità della violazione, dell’opera svolta dall’agente per l’eliminazione delle conseguenze della violazione, della personalità del trasgressore e delle sue condizioni economiche, ma non anche il parametro del delta tra minimo e massimo edittale.

Il quarto ed il quinto motivo, che per la loro connessione devono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

La Corte di appello ha disatteso la relativa doglianza, ritenendo proporzionale ed equa la sanzione nella misura del 5% rispetto alle somme oggetto di trasferimento, assumendo che, tenuto conto dell’entità massima della sanzione (40 %), la gravità soggettiva della violazione confortava la correttezza della misura percentuale applicata.

Si deduce che la sentenza gravata sarebbe illegittima in quanto non ha preso in considerazione che, in tal modo, sarebbe stata applicata al C. la medesima percentuale applicata anche per la sanzione irrogata alla CAM, autrice di 1205 violazioni, a fronte di solo quattro operazioni cointestate al ricorrente.

Costituisce, tuttavia, orientamento pacifico nella giurisprudenza della Corte, quello per il quale (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2406 del 08/02/2016; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9255 del 17/04/2013; Sez. 1, Sentenza n. 5877 del 24/03/2004) in tema di sanzioni amministrative pecuniarie, ove la norma indichi un minimo e un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l’entità entro tali limiti, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi. Peraltro, il giudice non è tenuto a specificare nella sentenza i criteri adottati nel procedere a detta determinazione, nè la Corte di cassazione può censurare la statuizione adottata ove tali limiti siano stati rispettati e dal complesso della motivazione risulti che quella valutazione è stata compiuta. Ne consegue che avendo il giudice di merito applicato la sanzione nel rispetto dei limiti edittali, ed avendo anche dato conto, con il riferimento all’equità e proporzionalità, nonchè alla gravità soggettiva della violazione, di aver compiuto una valutazione legata ai criteri previsti per legge per la graduazione della sanzione, la doglianza, formulata sotto il profilo del vizio di violazione di legge e del vizio di motivazione, non può trovare accoglimento, e ciò pure alla luce della novella di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 dovendosi escludere che vi sia stata l’omessa disamina di fatti decisivi, non potendosi peraltro ravvisare una pretesa illogicità della motivazione (denunzia oggi non più possibile) per l’avere fatto applicazione al C. della medesima percentuale rispetto alle infrazioni contestate alla Cassa, posto che proprio il ben più rilevante importo delle operazioni poste in essere da quest’ultima, pur in presenza di un coefficiente uguale per tutti i soggetti coinvolti, è in grado di assicurare la maggiore afflittività della sanzione irrogata alla società.

5. Consegue il rigetto del ricorso. Le spese del giudizio di cassazione vengono compensate tra le parti in ragione della novità della questione di diritto.

Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 29 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2017

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