Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4496 del 19/02/2021

Cassazione civile sez. I, 19/02/2021, (ud. 22/01/2021, dep. 19/02/2021), n.4496

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12970/2020 proposto da:

F.C.D., elettivamente domiciliato in Roma, Via Arno n.

6, presso lo studio dell’avvocato Morcavallo Oreste, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Masciari Raffaele,

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

contro

A.D., + ALTRI OMESSI;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2003/2019 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

pubblicata il 21/10/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

22/01/2021 dal Cons. Dott. IOFRIDA GIULIA;

lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto

Procuratore Generale Dott. NARDECCHIA Giovanni Battista, che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza n. 2003/2019, depositata in data 21/10/2019 ha – in sede di rinvio, a seguito di cassazione con sentenza n. 1453/2016 di questa Corte di pregressa decisione di appello (che aveva ritenuto improcedibile la domanda del Ministero volta alla declaratoria di incandidabilità degli amministratori comunali, stante l’avvenuto espletamento nella Regione Calabria di due turni elettorali successivi allo scioglimento del Consiglio Comunale di Mongiana) – in parte riformato, in accoglimento del reclamo del Ministero dell’Interno, la decisione del Tribunale di Vibo Valentia, che aveva solo parzialmente accolto la richiesta del Ministero dell’Interno, trasmessa con nota dell’8/8/2012, all’esito della procedura di scioglimento, per infiltrazioni mafiose, del Comune di Mongiana, pronunciando l’incandidabilità, D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 143, comma 11, dei soli sindaco, vicesindaco e Presidente del Consiglio Comunale, non anche, per quanto qui interessa, dell’assessore F.C.D..

In particolare, i giudici d’appello hanno sostenuto che il F. risultava avere avuto “rapporti di frequentazione con la Famiglia V. e di parentela con le famiglie E. e P., legate ad ambienti mafiose, che hanno condizionato gli esiti delle elezioni e che sono risultate vicine a ditte aggiudicatarie di lavori affidati dal Comune”. Avverso la suddetta pronuncia, F.C.D. propone ricorso per cassazione, notificato il 22/5/2020 (a mezzo posta), affidato a due motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che resiste con controricorso) e di S.V., + ALTRI OMESSI (che non svolgono difese). Il PG ha depositato requisitorie scritte. Il ricorrente ha inoltrato memoria a mezzo posta, pervenuta il 15/1/2021.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta, con il primo motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 143, comma 11, per avere la Corte d’appello, con scarna motivazione, riformato la decisione di primo grado che aveva escluso l’incandidabilità del F., sulla base di due soli elementi (la frequentazione del F. con la famiglia V. e rapporti di parentela con soggetti imparentati con famiglie “controindicate”) inesistenti o inconferenti; con il secondo motivo, si denuncia l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatti decisivi, rappresentati dall’inesistenza di frequentazioni con le famiglie V. e di vincoli di parentela con le famiglie P. ed E., l’avere ricoperto le finzioni di consigliere comunale in tre legislature, l’essere alle dipendenze del Raggruppamento Carabinieri Biodiversità di Mongiana da 200.

2. Il PG ha concluso per il rigetto del ricorso.

3. La censura è infondata, quanto al vizio di violazione di legge.

L’accertamento della incandidabilità degli amministratori, ai sensi dell’art. 143, comma 11, del TUEL di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000, attiene alle condotte che hanno dato causa allo scioglimento dell’organo consiliare, non alla valutazione del provvedimento amministrativo di scioglimento dell’organo, che quelle hanno pure generato, ed è disposto, ai sensi del precedente comma 3, del menzionato art. 143 TUEL, con D.P.R. (“su proposta del Ministro dell’interno, previa deliberazione del Consiglio dei ministri entro tre mesi dalla trasmissione della relazione di cui al comma 3, ed è immediatamente trasmesso alle Camere”).

In sostanza, la valutazione della legittimità del provvedimento Presidenziale fuoriesce dal thema decidendum, costituendo l’atto un mero presupposto dell’indagine, svolta in sede amministrativa, che ha ad oggetto, invero, la responsabilità degli amministratori dell’ente locale con riferimento alle loro condotte (omissive o commissive) che hanno dato causa allo scioglimento dell’organo consiliare (o ne siano state una concausa (Cass. 3024/2019).

Del resto, il procedimento giurisdizionale per la dichiarazione di incandidabilità ex art. 143, comma 11, TUEL è autonomo anche rispetto a quello penale, in quanto la misura interdittiva elettorale non richiede che la condotta dell’amministratore dell’ente locale integri gli estremi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa o concorso esterno nella stessa, essendo sufficiente che egli sia stato in colpa nella cattiva gestione della cosa pubblica, aperta alle ingerenze e alle pressioni delle associazioni criminali operanti sul territorio (Cass. SU n. 1747/2015; Cass. 19407/2017).

Tale misura, come questa Corte ha già affermato (Sez. U., Sentenza n. 1747 del 2015), non è in contrasto con la Costituzione “in quanto la temporanea incandidabilità dell’amministratore che ha dato causa allo scioglimento del consiglio dell’ente locale è un rimedio di “extrema ratio” volto ad evitare il ricrearsi delle situazioni cui la misura dissolutoria ha inteso ovviare, salvaguardando beni primari della collettività nazionale”. Come hanno e osservato le Sezioni Unite di questa Corte, “la misura interdittiva della incandidabilità dell’amministratore responsabile delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del consiglio comunale conseguente a fenomeni di infiltrazione di tipo mafioso o similare nel tessuto istituzionale locale, privando temporaneamente il predetto soggetto della possibilità di candidarsi nell’ambito di competizioni elettorali destinate a svolgersi nello stesso territorio regionale, rappresenta un rimedio di extrema ratio volto ad evitare il ricrearsi delle situazioni che la misura dissolutoria ha inteso ovviare, e a salvaguardare così beni primari dell’intera collettività nazionale – accanto alla sicurezza pubblica, la trasparenza e il buon andamento delle amministrazioni comunali nonchè il regolare funzionamento dei servizi loro affidati, capaci di alimentare la “credibilità” delle amministrazioni locali presso il pubblico e il rapporto di fiducia dei cittadini verso le istituzioni -, beni compromessi o messi in pericolo, non solo dalla collusione tra amministratori locali e criminalità organizzata, ma anche dal condizionamento comunque subito dai primi, non fronteggiabile, secondo la scelta non irragionevolmente compiuta dal legislatore, con altri apparati preventivi o sanzionatori dell’ordinamento” (Cass. Sez. U. 30 gennaio 2015, n. 1747; nel medesimo senso della manifesta infondatezza, cfr. Cass. 19 gennaio 2017, n. 1333).

Vanno quindi evidenziati collusioni con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare o condizionamenti degli amministratori, che abbiano determinato “una situazione di cattiva gestione della cosa pubblica, aperta alle ingerenze esterne e asservita alle pressioni inquinanti delle associazioni criminali operanti sul territorio” (Cass. SU 1747/2015; Cass. 19407/2017; Cass. 15038/2018). E’ stato ritenuto insufficiente, ai fini della dichiarazione d’incandidabilità, una “valutazione globale delle vicende dell’amministrazione”, richiesta invece per il provvedimento di scioglimento, attesa la natura personale della misura prevista a carico degli amministratori, volta a colpire “esclusivamente coloro che sono responsabili del degrado dell’ente”, con necessità quindi “di una maggiore individualizzazione degli elementi di addebito, attraverso un esame specifico della condotta tenuta da ciascun amministratore” (Cass. 8030/2020).

Le contestazioni possono emergere, oltre che dalla Relazione del Ministero e da quella prefettizia, anche da altri documenti acquisiti al processo (Cass. SU 1747/2015).

L’elemento soggettivo dell’amministratore consiste, come osservato dal PG, anche solo nel non essere riuscito a contrastare efficacemente le ingerenze e pressioni delle organizzazioni criminali operanti nel territorio, mentre l’elemento oggettivo richiede la verifica di una condotta inefficiente, disattenta ed opaca che si sia riflessa sulla cattiva gestione della cosa pubblica.

Ora, la Corte ha proceduto ad un’autonoma disamina delle singole circostanze fattuali, premettendo proprio l’assenza di ogni automatismo tra scioglimento del singolo consiglio comunale e declaratoria di incandidabilità degli amministratori, ed ha rilevato che essa non doveva accertare se l’ex assessore F. si fosse reso responsabile di condotte criminose, ma che le condotte denunciate non integrassero neppure concreti, univoci e rilevanti elementi della denunciata permeabilità dell’amministrazione interessata alle influenze mafiose, concludendo nel senso della rilevanza dei rapporti di frequentazione e parentela con le famiglie V., E. e P., legate ad ambienti mafiosi, che avevano condizionato le elezioni e che erano risultate vicine a ditte aggiudicatarie di lavori affidati dal Comune.

Assume il ricorrente che le frequentazioni non trovano riscontro nè nella relazione della Prefettura nè nelle contestazioni del Ministero nè negli atti giudiziari, mentre il rapporto di parentela è in parte erroneo (emergendo dalla relazione prefettizia solo che il ricorrente è “cognato di E.A.L. e N.A.”), in parte inconferente, trattandosi al più di un rapporto indiretto.

Ma il controricorrente Ministero ha eccepito che tale censura, oltretutto integrante semmai un vizio revocatorio, ex art. 395 c.p.c., n. 4, è infondata, in quanto tali fatti emergevano dalla Relazione della Commissione d’Accesso (cui avevano attinto sia la Relazione del Prefetto di Vibo Valentia sia la proposta del Ministero dell’Interno), atto regolarmente acquisito al processo di rinvio.

Il ricorrente contesta poi che possa integrare presupposto rilevante D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 143, l’essere imparentato o l’avere frequentato persone inserite in contesti di criminalità organizzata ovvero, a loro volta, imparentate con esponenti di sodalizi criminali di stampo mafioso.

La questione, posta come violazione di legge, è infondata, in quanto, come osservato dal PG, in un contesto locale ristretto come quello di un piccolo Comune, può assumere rilievo anche la prova di tali frequentazioni, dato che “in tale contesto ben difficilmente si può ignorare la caratura criminale di certuni interlocutori o conoscenti ed accompagnarsi ad essi implica, spesso, una precisa scelta o comunque l’assenza di una necessaria presa di distanza o, peggio, la volontà del “politico sociale” di ostentare frequentazioni e “coperture” che lo potrebbero forse “rafforzare” agli occhi di certa parte dell’opinione pubblica, sensibile, soggetta o costretta alla “influenza” delle cosche locali”.

Ciò che è stato, correttamente, ritenuto rilevante ai fini del decidere è il collegamento, diretto o indiretto, tra il ricorrente ed esponenti di sodalizi criminali di stampo mafioso, radicati nel territorio del Comune di Mongiana, che avevano ottenuto numerosi affidamenti di appalti da parte dell’Ente suddetto, durante il periodo di sua permanenza in carica come consigliere comunale ed assessore (Cass. 15038/2018 e Cass. 28259/2019).

Il vizio motivazionale, pure denunciato con il motivo, è inammissibile, in quanto non vengono in realtà enunciati fatti decisivi, il cui esame sarebbe stato effettivamente omesso nella decisione impugnata, ex art. 360 c.p.c., n. 5, non essendo più denunciabile in questa sede il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione, giacchè nella nuova formulazione del cit. n. 5, risultante dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, è mancante ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata, con la conseguenza che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054): situazioni che, nella fattispecie, non ricorrono.

Si denuncia, in particolare, il mancato esame di fatti, a sè favorevoli, che comunque risultano estranei agli addebiti su cui è fondata la proposta di incandidabilità e quindi sono irrilevanti, ovvero l’asserita omessa considerazione dell’inesistenza (meramente affermata in ricorso, senza indicazione neppure dei documenti di causa a sostegno dell’assunto), per il ricorrente, di rapporti di frequentazione con la famiglia V. o di rapporti di parentela con le famiglie E. e P., fatti questi tutti presi in esame dalla Corte di merito che li ha ritenuto sussistenti.

Il ricorrente sollecita, attraverso l’apparente denuncia della violazione di legge e del vizio di motivazione, una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, nonchè la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, a seguito della sostituzione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134.

4. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto che il processo risulta esente.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso; condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate, in favore del Ministero controricorrente, in complessivi Euro 4.200,00, a titolo di compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2021

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