Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4494 del 20/02/2020

Cassazione civile sez. VI, 20/02/2020, (ud. 07/11/2019, dep. 20/02/2020), n.4494

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 742/2019 R.G. proposto da:

C.E., rappresentato e difeso dall’Avv. Claudio Defilippi;

– ricorrente –

contro

V.S.;

– intimata –

e nei confronti di:

Ce.An.;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia n. 927/2018,

depositata il 31 maggio 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 7 novembre

2019 dal Consigliere Iannello Emilio.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con sentenza del 15/10/2013 il Tribunale di Cremona rigettò la domanda risarcitoria proposta da C.E. nei confronti di V.S. per i danni subiti in conseguenza delle denunce/querele dalla stessa presentate, in tesi calunniose, dalle quali aveva preso avvio un procedimento penale a suo carico per i reati di minacce, ingiurie, violenza privata, molestie, tentata violenza sessuale e violenza sessuale: risultando però egli assolto, a conclusione del giudizio, dai più gravi reati di violenza sessuale, consumata o tentata, violenza privata e molestie.

2. La Corte d’appello di Brescia ha rigettato l’appello interposto dal C. condannandolo alla rifusione delle spese in favore dell’appellata ed inoltre a corrispondere alla stessa, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, la somma di Euro 4.500.

Conformemente alle valutazioni espresse dal Tribunale, i giudici d’appello hanno infatti rilevato, sulla scorta dell’esame testuale del contenuto delle denunce, per ampi stralci trascritto in sentenza, che “la V. non ha mai espressamente fatto riferimento a violenza sessuale consumata in suo danno, nè ha esplicitamente affermato che la medesima sia stata tentata nei suoi confronti”, ma “si è limitata a descrivere, per quanto riguarda l’episodio poi valutato come violenza sessuale consumata, le circostanze in cui la stessa ha avuto un rapporto sessuale con il C. senza… far riferimento ad alcuna forma di costrizione fisica di cui sarebbe stata vittima”.

Hanno quindi ritenuto che “nel comportamento della V. non possa in alcun modo ravvisarsi l’elemento psicologico del dolo richiesto dal delitto di calunnia”, soggiungendo che a tale convinzione concorressero: a) il fatto che “la ricostruzione della vicenda fatta dalla V. non appare inverosimile; essa presenta, invece, elementi di verosimiglianza attese le indicazioni dello stato d’animo dell’esponente, del tipo di minaccia ricevuto e del timore delle conseguenze che sarebbero derivate dall’attuazione della stessa; b) il generale contesto di sopraffazione e di angherie commesse durante la relazione dal C. in danno della V.”.

3. Avverso tale decisione C.E. propone ricorso per cassazione articolando sette motivi.

Le intimate non svolgono difese nella presente sede.

3. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omesso esame e pronuncia sulla domanda di controparte e, segnatamente, sull’eccezione di prescrizione.

2. Con il secondo motivo si censura la sentenza, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per mancata esplicitazione nel dispositivo della ritenuta inammissibilità della domanda di condanna ex art. 96 c.p.c., comma 1, svolta dalla appellata.

3. Con il terzo motivo si censura la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 96 c.p.c., comma 3, per errata pronuncia di condanna per lite temeraria.

Sostiene il ricorrente che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello a fondamento di tale statuizione, il suo gravame non aveva “assunto i caratteri di una impostazione disattesa in primo grado, ma aveva proposto nuove argomentazioni idonee a smentire l’assunto del primo giudice”. Osserva che la responsabilità aggravata prevista dalla citata norma, pur non richiedendo la prova del danno, esige pur sempre, sul piano soggettivo, la malafede o la colpa grave della parte soccombente, quest’ultima ravvisabile nella violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o inammissibilità della domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate.

4. Con il quarto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per contraddittorietà della sentenza con conseguente nullità della stessa.

Sostiene il ricorrente che le considerazioni svolte nella sentenza impugnata, circa l’assenza di alcun connotato calunnioso nelle denunce di controparte, sono smentite proprio dagli stralci trascritti delle due querele sporte dalla V., posto che in essi si fa riferimento a precise costrizioni circa la tentata e la consumata violenza sessuale.

5. Con il quinto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione alla erronea o falsa applicazione dell’art. 530 c.p.p., comma 2.

Rileva il ricorrente che il materiale probatorio agli atti ha indubbiamente dimostrato come la denunciante ha agito in malafede avendo dichiarato un fatto che sapeva non vero, allo scopo di incolparlo ingiustamente di gravi reati.

Lamenta che nella sentenza impugnata è sottaciuta la circostanza che egli venne assolto a seguito di richiesta dello stesso pubblico ministero e che, al contrario di quanto stabilito in sentenza, la ricostruzione storica effettuata dal giudice penale aveva evidenziato le discrasie nel racconto della V. e l’insussistenza dei reati oggetto delle due infondate denunce.

6. Con il sesto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, erronea e/o mancata e/o viziata e/o falsa applicazione del principio di autonomia fra illecito civile ed illecito penale.

Lamenta il ricorrente che la Corte d’appello è venuta meno al compito di valutare autonomamente se nella fattispecie fossero configurabili illeciti civili; di questi, sostiene, sussistevano tutti i presupposti rappresentati dalla materialità delle accuse infondate e dalla consapevolezza (dolo o quantomeno colpa) da parte della resistente della loro falsità ed infondatezza, oltre che dal nesso causale con i danni dedotti.

7. Con il settimo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione di legge ed erronea e/o mancata e/o viziata e/o falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. in relazione all’art. 2697 c.c..

Ribadisce il ricorrente che gli stralci delle denunce riportati in sentenza smentiscono il convincimento ivi contraddittoriamente espresso secondo cui la denunciante non avesse fatto riferimento ad alcuna forma di costrizione fisica.

Sostiene che nella fattispecie è di indubbia evidenza il disvalore insito nelle accuse. Rileva che la responsabilità aquiliana del denunciante è ravvisabile anche quando la denuncia è presentata con colpa grave.

8. Il primo motivo è inammissibile per difetto di interesse.

Dell’omessa pronuncia sulla eccezione di prescrizione sollevata dalla appellata non ha infatti motivo di dolersi l’appellante, odierno ricorrente.

Poichè la censura pare anche diretta a sostenere che, ove tale eccezione fosse stata espressamente presa in esame e rigettata, si sarebbe con ciò determinato una ragione di reciproca soccombenza, rilevante ai fini del regolamento delle spese, è agevole rilevare che tale prospettazione ipotetica è comunque priva di fondamento logico giuridico, dal momento che l’appello è stato comunque rigettato per altri motivi, sicchè l’esito finale del giudizio non avrebbe comunque potuto giustificare una valutazione di soccombenza dell’appellata.

9. Il secondo motivo è infondato.

Rileva con esso il ricorrente che la Corte d’appello – pur avendo dato atto in motivazione della inaccoglibilità della richiesta di parte appellata di condanna di controparte ai sensi dell’art. 96 c.p.c. (e ciò in quanto “la sentenza di primo grado non ha stabilito alcunchè sul punto essendosi limitata a rigettare le domande di tutte le parti, ivi compresa, pertanto, anche quella ai sensi dell’art. 96 c.p.c. già formulata in via riconvenzionale dalla V. in primo grado”, ragione per cui “l’appellata avrebbe dovuto… svolgere appello incidentale chiedendo la riforma della sentenza sul punto, ma ciò non è avvenuto”) – ha poi omesso di fare alcuna menzione in dispositivo del rigetto di tale domanda.

Di tanto si duole il ricorrente poichè, assume, il rigetto della domanda ex art. 96 c.p.c. comporta un’ipotesi di soccombenza reciproca idonea a giustificare la compensazione delle spese ai sensi dell’art. 92 c.p.c..

Riguardati in tale ultima prospettiva il senso e l’interesse sotteso alla censura, se ne appalesa l’infondatezza.

Questa Corte ha invero già precisato, con indirizzo al quale si intende qui dare continuità, che il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, ex art. 96 c.p.c., a fronte dell’integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un’ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, nè in primo grado nè in appello, sicchè non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 92 c.p.c. (Cass. 12/04/2017, n. 9532; v. anche, conf., Cass. 15/05/2018, n. 11792).

10. Il terzo motivo è inammissibile.

Lungi dall’evidenziare affermazioni in diritto o l’applicazione di regole di giudizio contrastanti con la consolidata interpretazione dei presupposti della sanzione processuale di cui si discute, le censure si collocano interamente sul piano della ricognizione in fatto delle ragioni che, nella specie, giustificano il convincimento della loro sussistenza e si risolvono pertanto nella sollecitazione di una nuova valutazione di merito, inammissibile in questa sede.

11. Il quarto motivo è altresì inammissibile.

Come questa Corte ha più volte chiarito, il vizio di motivazione mancante o apparente, causa di nullità della sentenza per violazione dei doveri decisori, e dunque per error in procedendo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, è configurabile (solo) quando la motivazione, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. ex multis Cass. Sez. U. 03/11/2016, n. 22232; Cass. 23/05/2019, n. 13977).

Sotto tale profilo, com’è stato ulteriormente precisato, “è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali” (Cass. Sez. U. 07/04/2014, n. 8053, che a tale ipotesi ascrive oltre alla “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico” ed, appunto, al vizio di “motivazione apparente”, anche quelli, a quest’ultima similari e contigui, del “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e della “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, escludendo comunque qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione).

Alla luce di tali pacifiche definizioni la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, è nella specie dedotta per ragioni che neppure in astratto possono considerarsi a tale vizio riconducibili.

Si sostiene infatti non già la incomprensibilità della ratio decidendi ma che essa è contraddetta degli elementi considerati, ciò che però può in astratto configurare (a tacere di ogni altra considerazione di merito) più propriamente un vizio di illogicità della motivazione: vizio un tempo – ma oggi non più – sindacabile non già quale error in procedendo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ma quale vizio motivazionale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel previgente testo.

12. E’ inammissibile anche il quinto motivo, sotto diversi profili.

Al di là del contraddittorio riferimento in rubrica, accanto all’evocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, di quello di erronea o falsa applicazione di norma del codice di procedura penale, si intende con la censura, evidentemente, contestare la ricognizione in fatto della insussistenza, nelle dichiarazioni della denunciante, dei requisiti oggettivi e soggettivi del delitto di calunnia.

La censura, in tali termini, si palesa anzitutto inosservante dell’onere di specifica indicazione degli atti e documenti richiamati, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

Il ricorrente fa invero generico riferimento a documenti (materiale probatorio in atti; sentenza di assoluzione, richiesta del pubblico ministero), omettendo di riportarne esaustivamente il contenuto e anche di specificare se, come e quando essi siano stati sottoposti al vaglio del giudice d’appello.

Quanto poi al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve rilevarsi che la sua deduzione è resa anzitutto inammissibile – ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., u.c. (come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. a), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis) – dall’essere la decisione confermativa di quella di primo grado, non avendo dimostrato il ricorrente, in presenza di doppia conforme, la diversità delle questioni di fatto alla base delle due decisioni di merito.

Il vizio comunque non è nemmeno dedotto nei termini in cui la giurisprudenza di questa Corte lo dice deducibile (Cass. Sez. U n. 8053 del 2014).

Varrà in proposito rammentare che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella vigente formulazione (introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012), applicabile ratione temporis, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U. 07/04/204, nn. 8053 e 8054).

Nella specie, le censure mancano di evidenziare un “fatto storico” e decisivo, facendo piuttosto riferimento – fermo il preliminare rilievo di aspecificità della loro allegazione – a valutazioni espresse dal p.m. e dal giudice nel processo penale.

13. Il sesto e il settimo motivo, congiuntamente esaminabili in quanto strettamente connessi, sono del pari inammissibili.

La questione della configurabilità, nella condotta della denunciante, di un illecito colposo non risulta in effetti presa in esame dalla Corte d’appello.

Ciò però onerava il ricorrente di indicare specificamente se e come la questione fosse stata posta nel giudizio di primo grado e poi in quello di appello.

E’ noto infatti che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, “ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa” (v. ex multis Cass. 24/01/2019, n. 2038).

Nel caso di specie, in violazione, anche sul punto, dell’onere imposto art. 366 c.p.c., n. 6, il ricorrente non ha indicato il contenuto della causa petendi dell’originaria domanda in modo da apprezzare se fosse stata dedotta anche una condotta incauta, da parte della denunciante, rilevante sotto il profilo della colpa.

Nè ha poi specificato se e come la questione fosse stata posta in appello, essendosi limitato al riguardo solo a enunciare in sintesi il riferimento, del tutto generico, con il primo motivo d’appello alla “mancata applicazione del principio di autonomia fra illecito penale ed illecito civile”.

Le censure che poi, con il settimo motivo, evocano ancora il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si espongono ai medesimi rilievi di inammissibilità già sopra svolti.

14. Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere in definitiva rigettato.

Non avendo le intimate svolto difese nella presente sede, non v’è luogo a provvedere in ordine al regolamento delle spese.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma degli artt. 1-bis e 13.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma degli artt. 1-bis e 13.

Così deciso in Roma, il 7 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2020

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