Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4481 del 19/02/2021

Cassazione civile sez. I, 19/02/2021, (ud. 27/10/2020, dep. 19/02/2021), n.4481

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. ACIERNO Maria – rel. Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4732/2015 proposto da:

Hosta Italia S.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Panama n. 88, presso

lo studio dell’avvocato Spadafora Giorgio, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato Carnevali Ugo, giusta procura in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

D.A.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via Marianna

Dionigi n. 17, presso lo studio dell’avvocato Paciello Silvia,

rappresentato e difeso dall’avvocato Nicolini Roberto, giusta

procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1868/2014 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 06/08/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

27/10/2020 dal Cons. Dott. ACIERNO MARIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

1. D.A.M., socio di minoranza della s.r.l. Hosta, ed agente di commercio per la società, premesso che nello statuto era contenuta la clausola “simul stabunt simul cadunt” ed essendo uno dei due componenti del Consiglio di amministrazione, avviava procedura arbitrale nei confronti della società, con capitale sociale così ripartito: D.A., 4%; Hosta International AG, 60%, Hosta Werk Fuer Schocolade GMBH, il 36%, una volta verificato che nell’assemblea del 14 luglio 2011 l’altro amministratore rassegnava le dimissioni così determinando la decadenza dell’intero consiglio. Oggetto della domanda arbitrale era l’accertamento del suo diritto al risarcimento del danno per violazione del principio di buona fede in relazione alla strumentale applicazione della clausola simul stabunt simul cadunt, con liquidazione del dovuto ed il riconoscimento del proprio diritto di recesso in forza di un accordo orale provato per testi con condanna al pagamento del quantum. Il lodo accoglieva le domande proposte.

2 La s.r.l. Hosta lo impugnava ritenendo in primo luogo che gli arbitri avessero deciso secondo diritto e non secondo equità come previsto nella clausola compromissoria convenuta anteriormente alla riforma introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006. Ne conseguiva che era consentito procedere, secondo la società appellante, all’impugnazione per violazione di norme di diritto e per contrarietà all’ordine pubblico.

3. La Corte d’Appello ha rigettato l’impugnazione della società a r.l. precisando che il giudizio arbitrale si era svolto secondo equità ed affermando la natura rituale del lodo e l’applicabilità del regime giuridico del procedimento ante D.Lgs. n. 40 del 2006. La censurabilità doveva, pertanto, limitarsi alla violazione dei principi di ordine pubblico. Ha specificato che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la decisione secondo equità non perdeva tale natura ove gli arbitri avessero applicato norme di diritto coerenti con la soluzione equitativa della controversia. Nella specie gli arbitri avevano evidenziato la validità secondo diritto della clausola ma ne avevano rilevato l’applicazione in violazione del principio di buona fede, in quanto mirata ad estromettere uno degli amministratori in carica. In relazione al diritto di recesso pur non previsto nè dall’art. 2473 c.c., post riforma nè dallo Statuto, esso veniva riconosciuto in sede arbitrale perchè risultante dagli esiti dell’istruzione orale.

4. La Corte d’Appello ha ritenuto che le statuizioni del lodo non avessero violato od oltrepassato il limite costituito dall’ordine pubblico e da principi derivanti da norme inderogabili sia in ordine al riconoscimento della violazione del canone di buona fede nell’applicazione della clausola simul stabunt simul cadunt, in quanto finalizzata esclusivamente e strumentalmente a produrre la decadenza del socio sia in relazione al riconoscimento del diritto di recesso a seguito di accordo orale perchè le norme invocate dall’impugnante ed in particolare quella relativa alla forma scritta per l’esercizio del diritto di recesso e quella concernente la tipicità delle cause del recesso, non rivestono natura di norme confluenti nei principi di ordine pubblico, attenendo a diritti pienamente disponibili, non essendo pregiudicato il diritto dei terzi ad avere conoscenza del recesso mediante visura camerale.

5. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la s.r.l. Hosta, affidato a tre motivi accompagnati da memoria. Ha resistito con controricorso D.A.M..

6. Nel primo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 1325 c.c., n. 4, art. 1350 c.c. e art. 2643 c.c., comma 2, per non avere, la Corte d’Appello dichiarato la nullità per mancanza della forma scritta ad substantiam del recesso del D.A.. Al riguardo, secondo la parte ricorrente, l’obbligo di forma stabilito in via generale dall’art. 2643 c.c., si estende ai negozi di secondo grado, quale deve ritenersi l’accordo consensuale relativo al recesso nella fattispecie dedotta in giudizio. Viene sottolineato, infatti, che alla luce dei principi della giurisprudenza di legittimità, il recesso deve ritenersi soggetto alle stesse garanzie di forma prescritte per il contratto costitutivo del rapporto al cui scioglimento sia finalizzato. L’art. 2643 c.c., ha natura di norma inderogabile espressiva di un principio di ordine pubblico in quanto posta a tutela di interessi generali sovraordinati di pubblicità e trasparenza.

6.1 La censura non è fondata. La previsione, per la costituzione di una società di capitali e più specificamente di una società a responsabilità limitata, della forma scritta ad substantiam, ha natura inderogabile ed è indubitabilmente finalizzata alla cura di interessi fondamentali di rilievo pubblicistico, qualificabili come di ordine pubblico, perchè fondati sui principi di trasparenza e di affidamento e tutela dei terzi nei rapporti commerciali. Non è, tuttavia, condivisibile la trasposizione di questa disciplina normativa e della sua ratio al recesso per il quale l’art. 2473 c.c., stabilisce i contrari principi della libera predeterminazione delle ipotesi di recesso, salvo l’obbligo di includerne alcune tipizzate dalla norma e della libertà di forma, salvo i vincoli convenzionali. Deve aggiungersi che la previsione normativa riguarda il recesso come atto unilaterale di volontà del socio mentre nella specie esso costituisce il risultato di un accordo finalizzato ad una concordata composizione degli interessi patrimoniali tra la società ed il socio in uscita, ovvero dell’esercizio del potere di autonomia privata in tema di diritti individuali di natura esclusivamente patrimoniale, e a carattere interamente disponibile.

7. Nel secondo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 2474 c.c., che vieta l’acquisto di proprie partecipazioni alla società a responsabilità limitata, dal momento che il dedotto patto di recesso non può avere altro oggetto che l’acquisto della quota da parte della società.

7.1 La censura deve essere disattesa. L’accordo oggetto di contestazione ha ad oggetto la liquidazione della quota del socio che recede non l’acquisto di proprie partecipazioni da parte della società. Non risulta neanche allegato quali siano state le modalità convenzionali con le quali si sarebbe dovuto procedere al rimborso della quota e se siano state utilizzate riserve disponibili o le altre modalità previste dell’art. 2473 c.c., penultimo comma. Ne consegue che la censura difetta di specificità, e che la riscontrata piana inapplicabilità della norma invocata nella censura alla liquidazione della quota a causa di recesso del socio, regolata dell’art. 2473 c.c., citato penultimo comma, esclude la necessità di verificarne la natura di norma contenente principi di ordine pubblico.

8. Nel terzo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1 e art. 2473 c.c., in quanto norme inderogabili e di ordine pubblico in relazione all’accoglimento della domanda relativa all’accordo orale sul recesso in quanto assunta in violazione del principio di tipicità della causa di recesso, essendo stato ritenuto legittimo il recesso per giusta causa, estraneo all’art. 2473 c.c. e allo statuto. Viene ritenuto violato il principio “pacta servanda sunt” perchè il socio si è sciolto unilateralmente ed arbitrariamente fuori dalle ipotesi di legge e di statuto.

8.1. Come già osservato nell’esame del primo motivo, il cd. principio di tipicità implica esclusivamente che non possano essere escluse tra le cause di recesso quelle previste dalla norma ma non limita l’autonomia privata, potendo essere introdotte cause di recesso ulteriori nello statuto. Deve escludersi, pertanto, che il principio, non di tipicità, ma di predeterminazione delle cause di recesso possa essere qualificato come di ordine pubblico, in quanto ampiamente permeato dall’esercizio dell’autonomia privata e non potendosi ravvisare preminenti interessi pubblicistici nella disciplina normativa del recesso, volta a regolare questa peculiare fase del rapporto tra società e socio secondo regole di dettaglio adeguate alle tipologie di società e non integranti principi generali inderogabili. Nè può ritenersi che il medesimo principio di predeterminazione delle cause di recesso non possa essere superato da un accordo del socio con la società volto a definirne gli effetti patrimoniali. Del tutto fuori contesto il richiamo al principio di diritto internazionale pubblico.

9. Nel quarto motivo viene dedotta la violazione dell’art. 823 c.p.c., comma 2, n. 5 e art. 829 c.p.c., comma 1, n. 1, per avere la Corte d’Appello sostituito alla motivazione degli arbitri la propria in relazione alla determinazione equitativa del risarcimento del danno subito dal D.A.. A fronte della censura svolta davanti alla Corte d’Appello relativa alla natura arbitraria e non equitativa dell’ammontare del risarcimento la Corte ha fornito una giustificazione propria che non corrisponde a quella del lodo.

9.1. La censura è inammissibile in quanto sostanzialmente diretta a contestare l’eccessività della determinazione del danno, in relazione alla quale il lodo, per la parte riprodotta nella nota 1 di pag. 20 del ricorso, ha fornito una giustificazione equitativa del tutto sovrapponibile a quella della Corte d’Appello. In quest’ultima pronuncia, al fine di confermare la natura equitativa della valutazione svolta, coerente con la natura dell’arbitrato, nella pronuncia impugnata vengono richiamati gli indicatori che il lodo stesso aveva posto a base della decisione e confermata la natura equitativa del criterio utilizzato.

10. Nel quinto motivo la medesima censura viene svolta in relazione alla lesione dell’art. 830 c.p.c., per avere la Corte d’Appello deciso nel merito.

10.1 Le ragioni svolte in relazione al quarto motivo evidenziano la manifesta infondatezza anche del quinto. Non vi è alcuna decisione di merito, solo la conferma della coerenza della decisione sul danno con il limite del sindacato di equità e la esplicitazione analitica delle ragioni poste a base di questa conclusione.

10. In conclusione il ricorso deve essere rigettato con applicazione del principio della soccombenza in ordine alle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio da liquidarsi in Euro 10000, per compensi, Euro 200 per esborsi oltre accessori di legge.

Sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2021

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