Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4480 del 24/02/2010

Cassazione civile sez. II, 24/02/2010, (ud. 26/01/2010, dep. 24/02/2010), n.4480

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20308-2007 proposto da:

F.C., (OMISSIS), elettivamente domiciliata

in ROMA, P.LE DELLE BELLE ARTI 2, presso lo studio dell’avvocato

SCALISE GAETANO ANTONIO, rappresentata e difesa dagli avvocati

SEBASTIANI SEBASTIANO, LOTITO PIER FRANCESCO;

– ricorrente –

e contro

I.R., (OMISSIS);

– intimato –

sul ricorso 25851-2007 proposto da:

N.R., (OMISSIS) elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CICERONE 49, presso lo studio dell’avvocato PASTACALDI

MARCO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato RUSSO

ROBERTO;

controricorrente e ricorrente incidentale –

F.C.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3 92/2 007 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 02/03/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/01/2010 dal Consigliere Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO;

udito l’Avvocato LOTITO Pier Francesco, difensore della ricorrente

che si riporta agli atti;

udito l’Avvocato RUSSO Roberto, difensore del resistente che ha

chiesto di riportarsi agli atti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo che ha chiesto previa riunione dei ricorsi:

accoglimento del ricorso principale per quanto di ragione, rigetto

del ricorso incidentale.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 23.12.1994 I.R., premesso di essere separato legalmente dal coniuge F. C. e di avere in corso il giudizio di divorzio, esponeva che in data 9.1.1986, nel contesto degli accordi finalizzati alla separazione, la moglie gli aveva rilasciato una opzione irrevocabile fino al 31.1.1991 per l’acquisto di alcuni beni immobili posti in (OMISSIS), intestati alla medesima. Spiegava che, fallita l’ipotesi di separazione consensuale, egli in data 31.1.1991 aveva esercitato l’opzione offrendo nel contempo il pagamento della somma pattuita e invitando la predetta a provvedere al formale trasferimento dei beni, ma questa non vi aveva ottemperato. Tanto premesso e ritenuto che a seguito dell’esercizio dell’opzione il contratto si era concluso con le modalità di cui all’art. 1331 c.c., conveniva in giudizio la F. perchè fosse dichiarato che il compendio immobiliare oggetto di causa era di proprietà di esso attore a seguito dell’esercizio dell’opzione notificata il 31.1.1991. In ipotesi di ritenuta efficacia meramente obbligatoria dell’accettazione dell’opzione, chiedeva che fosse pronunciata sentenza ai sensi dell’art. 2932 c.c.. Chiedeva inoltre la condanna della convenuta al risarcimento dei danni per il mancato godimento del compendio, da quantificarsi, sulla base del canone locativo, in un importo non inferiore a L. 15-20 milioni mensili.

La convenuta si costituiva sostenendo che il patto di opzione oggetto di causa le era stato estorto dal marito con minacce nonchè approfittando del proprio stato di fragilità psichica connesso alle sofferte vicende relative alla crisi coniugale sfociata nella separazione.

Sosteneva, inoltre, che, essendo l’esercizio dell’opzione condizionato alla circostanza che essa F., nel termine previsto per l’opzione, andasse ad occupare una parte del complesso immobiliare oggetto dell’accordo, il contratto doveva considerarsi nullo perchè in contrasto con diritti di rilevanza costituzionale o, in ogni caso, risolto in applicazione dei principi regolanti la presupposizione, atteso che la prevista condizione, intesa a subordinare l’efficacia dell’esercizio dell’opzione alla violazione da parte della F. del divieto di andare ad occupare anche per una sola volta l’immobile, muoveva dal presupposto che, intervenuta la separazione, nell’immobile sarebbe andato ad abitare l’ I. con i figli affidati al medesimo, mentre, nella specie, il primo provvedimento provvisorio di affidamento dei figli al padre, assunto in sede presidenziale, era stato modificato dal giudice istruttore con affidamento dei figli alla madre presso la casa familiare di (OMISSIS), con conseguente venir meno del presupposto in relazione al quale il divieto di andare ad occupare l’immobile era stato accettato dalla F., divieto divenuto invalido ed inefficace dopo il provvedimento del giudice.

In ulteriore subordine la F. sosteneva che il contratto doveva ritenersi risolto per eccessiva onerosità sopravvenuta, essendo stato pattuito un prezzo di L. 600.000.000 di gran lunga inferiore al valore effettivo ammontante a svariati miliardi.

Chiedeva che fosse dichiarata nulla, inefficace o risolta la convenzione 9/1/1986.

Con sentenza 16/9/2002 l’adito tribunale di Firenze rigettava la domanda.

Avverso la detta sentenza l’ I. proponeva appello al quale resisteva la F..

Con sentenza 2/3/2007 la corte di appello di Firenze, in parziale riforma dell’impugnata decisione, dichiarava che il compendio immobiliare in questione era di proprietà dell’ I. e rigettava le altre domande proposte dalle parti. Osservava la corte di merito: che la concessione del diritto di opzione da parte della F. all’ I. risultava piena ed incondizionata; che l’occupazione dell’immobile da parte della F. non andava configurata come elemento condizionante dell’esercizio dell’opzione venendo in considerazione solo in relazione alla diversa ipotesi in cui la predetta avesse provveduto alla vendita del bene con conseguente possibilità per l’ I. di far valere nei confronti della moglie pretese non meglio precisate; che il documento, sottoscritto da entrambe le parti, valeva ad integrare il perfezionamento del diritto di opzione; che l’ I., con dichiarazione scritta del 10/1/1986, aveva affermato di riservarsi la suddetta opzione solo nel caso di abitazione della moglie nel complesso oggetto dell’opzione; che a tale dichiarazione non poteva attribuirsi un effetto limitativo del contenuto del patto di opzione non risultando essersi formato tra le parti un nuovo accordo contrattuale sull’opzione in senso conforme alla “conferma autolimitativa” contenuta nella lettera dell’ I.; che la F. era restata vincolata alla propria dichiarazione incondizionata e l’ I. era comunque legittimato a comunicare la propria accettazione in senso conforme alla detta dichiarazione;

che, comunque, anche a voler attribuire alla lettera di conferma dell’ I. del 10/1/1986 efficacia limitativa del contenuto dell’opzione, le conseguenze sul piano della conclusione del contratto di trasferimento non mutavano; che infatti, come era pacifico, la F., a seguito della modifica dei provvedimenti relativi all’assegnazione della casa coniugale resi nell’ambito del giudizio di separazione, aveva occupato l’immobile in contestazione realizzando in tal modo la detta condizione; che erano infondate tutte le tesi della convenuta dirette o a far valere l’invalidità o la risoluzione del patto di opzione, o a sostenere l’illiceità o l’impossibilità della condizione di efficacia del patto sul presupposto che esso avesse natura condizionata; che, in particolare, non era pertinente il riferimento alla violazione di norme costituzionali in materia di diritti inviolabili trattandosi di norme che non avevano alcuna incidenza nella fattispecie contrattuale in esame; che la F., consapevole degli effetti che l’occupazione dell’immobile in questione avrebbe comportato in relazione al patto di opzione, ben poteva decidere di trasferire la residenza familiare con i figli presso altra abitazione; che pertanto, in riforma della sentenza appellata, doveva dichiararsi l’avvenuto trasferimento della proprietà dell’immobile in contestazione in favore dell’ I. a norma dell’art. 1331 c.c.;

che era infondata la domanda dell’appellante volta ad ottenere la condanna della moglie al risarcimento del danno subito per il mancato godimento dell’immobile dalla data dell’avvenuto esercizio dell’opzione; che infatti la F. occupava legittimamente il detto immobile in quanto assegnataria del diritto di abitazione della casa familiare quale genitore convivente dei figli maggiorenni e non autosufficienti economicamente; che l’ I. non aveva fornito la prova della non permanenza dei presupposti legittimanti l’assegnazione alla moglie della casa familiare per aver i figli maggiorenni raggiunto la propria autosufficienza economica o per essersi allontanati dalla casa familiare.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Firenze è stata chiesta da F.C. con ricorso affidato a due motivi. I.R. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale sorretto da un solo motivo. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso principale e quello incidentale vanno riuniti a norma dell’art. 335 c.p.c..

Con il primo articolato motivo del ricorso principale la F. denuncia violazione degli artt. 1324, 1334, 1335, 1370, 1362, 1363, 1366 e 1371 c.c., nonchè degli artt. 1343, 1345, 1322 e 1374 c.c. anche in relazione agli artt. 3, 13, 14 e 16 Cost.. Ad avviso della ricorrente la sentenza impugnata è errata nella parte in cui ha riconosciuto efficacia e validità alla proposta di opzione formulata da essa F.. La corte di appello ha travisato la successione dei fatti e l’interpretazione degli atti obbligatori “inter partes” e delle effettive volontà sottostanti. Le clausole dei detti atti negoziali non sono state interpretate le une per mezzo delle altre, nè è stato considerato il comportamento delle parti. La corte di appello ha proceduto ad una interpretazione solo letterale di un unico atto (o, meglio, di una parte dello stesso) senza ricostruire la volontà delle parti quale risultante anche dalla seconda scrittura unilaterale dell’ I.. Dall’insieme delle clausole contrattuali prende invece corpo il reale interesse non patrimoniale dell’ I. il cui atto unilaterale ha efficacia obbligatoria ex art. 1324 c.c. senza necessità di accettazione della controparte. I due atti costituiscono un unico negozio complesso avente un contenuto apparentemente sinallagmatico ma con effetti sbilanciati tra le parti contraenti e volto al conseguimento per l’ I. di un risultato ulteriore – diverso da quello tipico del contratto di opzione – illecito in quanto contrario all’ordine pubblico e al buon costume.

Al termine del motivo la ricorrente ha formulato i seguenti quesiti di diritto:

a) in applicazione degli artt. 1324, 1334, 1335, 1370 e 1366 c.c., alla scrittura unilaterale, successiva al patto d’opzione, recante dichiarazioni contra se del dichiarante promissario acquirente, deve essere riconosciuta natura ed efficacia di atto unilaterale d’obbligo (ex art. 1324 c.c.), come tale non richiedente accettazione di controparte e produttivo ex se di effetti (ex art. 1334 c.c.) dal momento della semplice conoscenza della controparte destinataria da ritenersi presunta (ex art. 1335 c.c.);

b) in applicazione degli artt. 1370 e 1366 c.c. l’atto unilaterale d’obbligo, contenendo dichiarazioni contra se del dichiarante promissario acquirente, deve essere interpretato (ex art. 1370 c.c. e in applicazione del principio di buona fede di cui all’art. 1366 c.c.) a favore della controparte promittente venditrice;

c) in applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1371 c.c., in caso di negozio complesso e/o di negozi plurimi onerosi e temporalmente successivi, ai fini di una corretta interpretazione e valutazione della validità di detti negozi deve essere ricostruita la effettiva volontà delle parti, anche in base al comportamento complessivo, anteriore e posteriore delle stesse (ex art. 1362 c.c.), oltre che in base all’interpretazione complessiva delle clausole negoziali (ex art. 1363 c.c.), con applicazione del principio di buona fede (ex art. 1366 c.c.) e operando in sede di interpretazione un equo contemperamento degli interessi delle parti, considerata la natura onerosa del rapporto obbligatorio (ex art. 1371 c.c.);

d) in applicazione dell’art. 1343 c.c. (o, in subordine rispettivamente dell’art. 1345 c.c. o, ancora, dell’art. 1322 c.c.), congiuntamente a quanto disposto dall’art. 1174 c.c., la pattuizione recante il divieto e/o la rinuncia, sanzionati patrimonialmente, di una parte all’esercizio di diritti fondamentali (quali quelli di cui agli artt. 3, 13, 14, 16 e 42 Cost.) e recante segnatamente il divieto e/o la corrispondente rinuncia di uno dei coniugi a frequentare la precedente casa coniugale e/o a visitare in loco i propri figli salvo specifiche e conclamate ragioni di indegnità del coniuge e/o di motivato e giustificato interesse delle altre parti coinvolte, non ricorrenti nel caso di specie costituisce negozio avente causa illecita (ex art. 1343 c.c.) o, in concorrenti o subordinate ipotesi, negozio stipulato per motivi illeciti (ex art. 1345 c.c.) e/o ancora negozio stipulato per interessi non meritevoli di tutela dall’ordinamento (ex art. 1322 c.c.); in tutti i casi con conseguente declaranda nullità di detto negozio recante, in qualsiasi forma, una proibizione abusiva, patrimonialmente sanzionata, di diritti personali e inviolabili dell’interessato che contrasta con l’ordine pubblico, il buon costume e il comune sentimento morale.

Con il secondo motivo la ricorrente principale denuncia vizi di motivazione e violazione degli artt. 1324, 1334, 1335, 1370, 1366, 1362 e 1371, nonchè dell’art. 1359 c.c. per il mancato verificarsi della condizione dedotta in contratto per sopraggiunto “factum principis”. Deduce la F. che la condizione autoimpostasi dall’ I. con la seconda scrittura, recante atto unilaterale d’obbligo, non si può ritenere realizzata a fronte del provvedimento emesso in sede di separazione dei coniugi in attuazione del quale essa ricorrente è andata ad occupare l’immobile in questione. In relazione a tale punto la motivazione della sentenza impugnata è contraddittoria ed insufficiente. Al termine del motivo la F. ha formulato i seguenti quesiti di diritto:

e) in applicazione degli artt. 1324, 1334, 1335, 1370 e 1366 c.c., alla scrittura unilaterale, successiva al patto d’opzione, recante dichiarazioni contra se del dichiarante promissario acquirente, deve essere riconosciuta natura ed efficacia di atto unilaterale d’obbligo (ex art. 1324 c.c.), come tale non richiedente accettazione di controparte e produttivo di effetti (ex art. 1334 c.c.) dal momento della semplice conoscenza della controparte destinataria da ritenersi presunta (ex art. 1335 c.c.);

1) in applicazione degli artt. 1370 e 1366 c.c. l’atto unilaterale d’obbligo, contenendo dichiarazioni contra se del dichiarante promissario acquirente, deve essere interpretato (ex art. 1370 c.c. e in applicazione del principio di buona fede di cui all’art. 1366 c.c.) a favore della controparte promittente venditrice;

g) in applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1371 c.c., in caso di negozio complesso e/o di negozi plurimi onerosi e temporalmente successivi, ai fini di una corretta interpretazione e valutazione della validità di detti negozi deve essere ricostruita la effettiva volontà delle parti, anche in base al comportamento complessivo, anteriore e posteriore delle stesse (ex art. 1362 c.c.), oltre che in base all’interpretazione complessiva delle clausole negoziali (ex art. 1363 c.c.), con applicazione del principio di buona fede (ex art. 1366 c.c.) e operando in sede di interpretazione un equo contemperamento degli interessi delle parti, considerata la natura onerosa del rapporto obbligatorio (ex art. 1371 c.c.);

h) in ogni caso, non può ritenersi (ex art. 1359 c.c.) realizzata una condizione pattizia qualora la condotta nella stessa dedotta e dalla quale scaturiscano conseguenze negative per una delle parti contraenti si sia verificata non già per volontà della stessa, bensì per factum principis costituito da un provvedimento giudiziale che ne impone il compimento; segnatamente non può ritenersi realizzata la condizione pattizia che impone al coniuge di non recarsi presso l’abitazione familiare abitata dai figli, qualora ciò sia disposto con provvedimento del Giudice competente in sede di separazione e/o divorzio tra i coniugi, dunque per sopravveniente factum principis cui la parte interessata si conformi.

La Corte rileva l’inammissibilità e, in parte, l’infondatezza delle dette censure che possono essere esaminate congiuntamente per la loro evidente stretta connessione ed interdipendenza.

I motivi in esame sono inammissibili per le parti relative ai corrispondenti quesiti di diritto di cui alle lett. a), b), e c) del primo motivo ed ai quesiti di diritto (identici e ripetitivi) di cui alle lett. e), f) e g) di cui al secondo motivo: si tratta infatti di quesiti di diritto – come puntualmente eccepito in via preliminare dal resistente nel controricorso – inidonei a soddisfare il requisito di cui all’art. 366 bis c.p.c. introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006 applicabile alle sentenze – come quella in esame – pubblicate dal 2/3/2006.

Occorre premettere che questa Corte, con riferimento alle modalità espositive e contenutistiche del quesito di diritto di cui al citato art. 366 bis c.p.c., ha avuto modo di affermare i seguenti principi:

– il quesito non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della S.C. in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una “regula iuris” che sia. in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Ciò vale a dire che la Corte di legittimità deve poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamene compiuto dal giudice e quale sia, secondo la prospettazioni del ricorrente, la regola da applicare (sentenza 3519/2008);

– il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ. deve compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata da quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie. E’, pertanto, inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge (sentenza 19768/2008);

– il quesito di diritto richiesto dall’art. 366 bis c.p.c. a pena di inammissibilità del motivo di ricorso cui accede, oltre a dover essere conferente rispetto al “decisum”, deve essere formulato in modo da poter circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un accoglimento o un rigetto del quesito medesimo, senza che esso debba richiedere, per ottenere risposta, una scomposizione in più parti prive di connessione tra loro (sentenza 17064/2008);

– è inammissibile il motivo di ricorso nel cui contesto trovino formulazione, al tempo stesso, censure aventi ad oggetto violazione di legge e vizi della motivazione, ciò costituendo una negazione della regola di chiarezza posta dall’art. 366 bis c.p.c. (nel senso che ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione) giacchè si affida alla Corte di cassazione il compito di enucleare dalla mescolanza dei motivi la parte concernente il vizio di motivazione, che invece deve avere una autonoma collocazione (sentenza 9470/2008);

– allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall’art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (sentenza 8897/2008);

– l’art. 366 bis cod. proc. civ., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal n. 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cod. proc. civ., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a “dieta” giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o con-traddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (sentenza 4556/2009);

– la formulazione del quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c. deve avvenire in modo rigoroso e preciso, evitando quesiti multipli o cumulativi. Da ciò consegue non solo che i motivi di ricorso fondati sulla violazione di leggi e quelli fondati su vizi di motivazione debbono essere sorretti da quesiti separati, ma anche che non è consentito al ricorrente censurare con un unico motivo (e quindi con un unico quesito) sia la mancanza, sia l’insufficienza, sia la contraddittorietà della motivazione (sentenza 5471/2008);

– ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., nel caso di denuncia di vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, il motivo è inammissibile allorquando il ricorrente non indichi le circostanze rilevanti ai fini della decisione, in relazione al giudizio espresso nella sentenza impugnata (sentenza 11652/2008);

– sono inammissibili, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., i motivi di ricorso corredati da quesiti di diritto prospettati, rispettivamente, in modo inconferente rispetto alla sentenza impugnata ed in maniera tale da involgere una quaestio facti (sentenza 23860/2008);

– è ammissibile il ricorso per cassazione nel quale si denunzino con un unico articolato motivo d’impugnazione vizi di violazione di legge e di motivazione in fatto, qualora lo stesso si concluda con una pluralità di quesiti, ciascuno dei quali contenga un rinvio all’altro, al fine di individuare su quale fatto controverso vi sia stato, oltre che un difetto di motivazione, anche un errore di qualificazione giuridica del fatto (sentenza 7770/2009).

Nella specie i quesiti di diritto così come formulati dalla ricorrente nei motivi in esame e sopra testualmente riportati – non rispettano i menzionati principi giurisprudenziali.

Va innanzitutto segnalato che – come già notato – i quesiti di cui alle lett. a), b) e c) del primo motivo di ricorso sono identici ai quesiti di diritto di cui alle lett. e), f) e g) del secondo motivo di ricorso il che comporta necessariamente per uno dei due motivi la non corrispondenza tra quesiti e censure sviluppate in ricorso.

Va poi posto in evidenza che punti essenziali del ragionamento svolto dalla corte di appello nella sentenza impugnata e posto a base della pronuncia sono i seguenti:

1) il patto di opzione sottoscritto dalle parti non è condizionato in quanto la circostanza relativa all’occupazione da parte della F. “dei locali dell’immobile oggetto dell’opzione” è collegata non all’esercizio dell’opzione venendo in considerazione “solo in relazione alla diversa ipotesi” delle vendita del bene da parte della stessa F. nel periodo di validità dell’opzione;

2) la lettera a firma dell’ I. non incide sul vincolo assunto dalla F. con l’opzione contenendo tale lettera una mera dichiarazione unilaterale del solo I. che non costituisce il frutto di un nuovo accordo negoziale raggiunto dalle parti in senso modificativo di quanto previsto e disciplinato nell’opzione;

3) i due citati menzionati atti negoziali sono separati ed autonomi.

Ciò posto va rilevato che le ampie argomentazioni svolte in ricorso nei motivi in esame e posti a sostegno dell’asserita erroneità dei sopra riportati fondamentali e determinanti punti della sentenza impugnata non trovano la logica e necessaria corrispondenza nei quesiti di diritto così come articolati dalla F..

In particolare la ricorrente con ampia motivazione – ha sostenuto che: i due negozi (opzione e lettera dell’ I.) devono essere interpretati unitariamente costituendo “un unico negozio complesso”;

nella specie va ravvisato un “negozio indiretto” avente causa illecita in quanto contraria all’ordine pubblico e al buon costume.

Nessuno delle dette tesi difensive approfondite in ricorso trova adeguata conferma e coerente corrispondenza nei quesiti di diritto.

Così ad esempio per quanto riguarda la questione della asserita ravvisabilità nel caso in esame di un solo negozio complesso l’unico quesito collegato a tale problematica è quello di cui alla lett. c) – oltre a quello di cui alla lett. g) di identico contenuto – che, come articolato, non è in alcun modo riferibile alla fattispecie in esame ed è del tutto generico risolvendosi un una enunciazione tautologica priva di qualsiasi indicazione della questione di diritto oggetto della controversia. Il quesito, quindi, per il suo palese carattere generale ed astratto non consente di offrire alcuna risposta utile al fine di definire la causa nel senso voluto dalla ricorrente per cui i motivi del ricorso sono su tali punti inammissibili non potendo il quesito essere desunto o integrato dal motivo.

Quanto precede vale anche per i quesiti di cui alle lett. b) e b) ed ai quesiti identici di cui alle lett. e) ed f) che peraltro non contengono alcun riferimento al passaggio (logicamente preliminare) della sentenza impugnata concernente l’insussistenza di una incidenza della scrittura unilaterale, contenente dichiarazioni “contra se” del dichiarante, rispetto al patto di opzione trattandosi di atto unilaterale non collegato e conseguente ad un accordo negoziale delle parti volto a modificare il contenuto dell’opzione.

Anche i detti quesiti, così come formulati, non hanno stretto e specifico collegamento con la motivazione della sentenza impugnata e con le stesse censure illustrate nei motivi di ricorso e non forniscono la chiave di lettura delle ragioni esposte, nè consentono di individuare l’errore di diritto commesso dalla corte di appello nella sentenza impugnata che si regge essenzialmente su argomenti che non risultano specificamente coinvolti dai detti quesito di diritto.

In definitiva tutti i singoli quesiti relativi a asserite violazione di legge sono articolati senza procedere all’enunciazione di un principio di diritto diverso da quello posto a base della sentenza impugnata tale da implicare un ribaltamento della decisione adottata dal giudice di appello e si risolvono in una mera istanza di decisione sull’esistenza della violazione di legge denunciata: ciò impedisce a questa Corte di individuare il principio di diritto che è alla base della sentenza impugnata e, correlativamente, il diverso principio valido anche per casi ulteriori rispetto a quello in esame e la cui applicazione nella specie sia idonea a condurre ad una decisione di segno diverso.

Non risulta inoltre individuata la discrasia tra la ratio decidendi della sentenza impugnata – che deve essere indicata – e il principio di diritto da porre a fondamento della decisione che deve essere assunta.

Va infine rilevato che i quesiti di cui alle lett. d) ed h), pur se ben articolata in modo conforme agli argomenti sviluppati in ricorso, non sono idonei da soli a giustificare una riforma della sentenza impugnata in quanto riguardano parti di tale sentenza (illiceità della condizione posta nei due atti negoziali in questione ed esclusione della ravvisabilità della realizzazione di tale condiziono) che devono essere ritenute non decisive perchè superate dalla conferma delle preliminari parti della detta sentenza concernenti i punti sopra riportati sotto i numeri 1), 2) e 3) non oggetto di censure inammissibili.

Con l’unico motivo del ricorso incidentale I.R. denuncia violazione degli artt. 155 e 2727 c.c. sostenendo che la corte di appello ha errato nell’affermare che la F. aveva titolo per risiedere nell’immobile in questione avendo riottenuto l’affidamento dei figli minori con l’ordinanza del tribunale e non risultando essere stata modificata la detta ordinanza. La corte di merito non ha tenuto conto che i figli al momento dell’esercizio dell’opzione erano divenuti maggiorenni e che si erano resi indipendenti ed autonomi, come era da ritenere provato dal meccanismo presuntivo. Al termine del motivo l’ I. ha articolato il connesso e consequenziale quesito di diritto.

Il motivo è manifestamente infondato ed al riguardo è appena il caso di rilevare che la corte di appello ha puntualmente posto in evidenza che il diritto di abitazione da parte della F. quale genitore convivente di figli maggiorenni – ma non ancora autosufficienti – non era venuto meno non essendo mutati i presupposti legittimanti l’attribuzione di detto diritto. Non risulta che nel corso del giudizio l’ I. abbia offerto elementi probatori idonei a dimostrare, anche in via presuntiva, la conduzione di una vita autonoma “e fuori casa” da parte dei figli divenuti maggiorenni. Peraltro, come è noto, in tema di prova presuntiva è incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice del merito circa lo stesso ricorso a tale mezzo di prova.

In definitiva in base alle considerazioni che precedono devono essere rigettati sia il ricorso principale che quello incidentale.

Le spese del giudizio di cassazione vanno interamente compensate tra le parti in considerazione, tra l’altro, della reciproca soccombenza.

P.Q.M.

la Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa per intero tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 26 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2010

 

 

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