Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4472 del 24/02/2011

Cassazione civile sez. III, 24/02/2011, (ud. 18/01/2011, dep. 24/02/2011), n.4472

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FILADORO Camillo – rel. Presidente –

Dott. UCCELLA Fulvio – Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giovanna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.N. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA PIERLUIGI DA PALESTRINA 63, presso lo studio dell’avvocato

CONTALDI MARIO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati

BOSI FEDERICO, CONTALDI GIANLUCA giusta delega in calce al Ricorso;

– ricorrente –

contro

C.M. (OMISSIS), T.M.

(OMISSIS), C.M. (OMISSIS), C.

M. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

PIETRO TACCHINI 7, presso lo studio dell’avvocato POLESE FABRIZIO,

rappresentati e difesi dagli avvocati LOLLI PIETRO, MANTOVANI

FRANCESCO MARIA giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1448/2008 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

SEZIONE SECONDA CIVILE, emessa il 22/04/2008, depositata il

17/09/2008 R.G.N. 51/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/01/2011 dal Consigliere Dott. CAMILLO FILADORO;

udito l’Avvocato MARIO CONTALDI;

udito l’Avvocato GUGLIELMO TOCCI (per delega dell’Avv. PIETRO LOLLI);

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SCARDACCIONE Eduardo Vittorio che ha concluso con l’accoglimento del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 19 novembre 2004, il Tribunale di Forlì accoglieva la domanda di risarcimento di responsabilità per fatto illecito proposta da G.N. nei confronti degli eredi del proprio datore di lavoro, C.G., presso il quale ella aveva lavorato per quattro mesi nel negozio “Parrucchieri Corvini”, quale apprendista parrucchiera.

Nella citazione l’attrice riferiva di avere subito, nell’estate del 1998, quando aveva sedici anni, ripetuti atti di violenza sessuale dal datore di lavoro, dal quale era stata assunta nel giugno dello stesso anno.

Esponeva che dagli atti subiti era derivato uno stato di grave depressione che l’aveva condotta a ricoveri in istituti neuropsichiatrici ed a trattamento farmacologico e psicoterapeutico, con affido a comunità protetta.

Nel corso di questi ricoveri, nei quali aveva compiuto ripetuti atti autolesionistici, con tentativo di suicidio, ella aveva denunciato per la prima volta le aggressioni subite (a distanza di un anno dalle stesse).

Il datore di lavoro, arrestato su ordine della Procura della Repubblica, si era suicidato in carcere.

Il processo penale a suo carico era stato dichiarato estinto per morte dell’imputato.

Madre e figli dell’imputato aveva allora denunciato i magistrati penali e la polizia penitenziaria del carcere di Forlì.

Il relativo procedimento era stato archiviato.

Analoga conclusione aveva avuto il procedimento per calunnia a carico della G. e di altre due compagne di lavoro che avevano denunciato il C. per violenza sessuale ed altri reati.

Dopo i vari procedimenti penali, era seguito il giudizio civile ad iniziativa della G., conclusosi – come si è detto – con la condanna degli eredi del datore di lavoro in primo grado.

Decidendo sull’appello proposto dagli eredi del C., la Corte di appello di Bologna, con sentenza 22 aprile – 17 settembre 2008, riformava integralmente la decisione di primo grado, ritenendo che non vi fossero prove sufficienti che confermassero gli atti di violenza sessuale subiti dalla minore.

Avverso tale decisione la G. ha proposto ricorso per cassazione, sorretto da sei motivi, illustrati da memoria.

Gli eredi C. resistono con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente denuncia vizi di motivazione e violazione di norme di legge (artt. 1218, 2087 e 2043 c.c.) rilevando che, in base ai principi generali sulle obbligazioni contrattuali, non sarebbe il dipendente a dover fornire la prova della colpevolezza del proprio datore di lavoro, in quanto produttrice del danno, bensì questo a dover dare la prova contraria.

Il quesito posto con il motivo è privo di rilevanza ai fini della decisione.

Il principio della cumulabilità, nel nostro ordinamento, dei due tipi di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, da illecito civile è legittimamente invocabile quando uno stesso fatto autonomamente generatore di danno integri gli estremi tanto dell’inadempimento contrattuale, quanto del torto aquiliano.

La domanda di risarcimento danni da responsabilità contrattuale è diversa da quella di risarcimento di danni per responsabilità extracontrattuale.

Essa, infatti, dipende da elementi di fatto diversi, sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto quello soggettivo, non solo per quanto attiene all’accertamento della responsabilità ma anche per quanto riguarda la determinazione dei danni.

Pertanto, una volta operata una scelta nel giudizio di merito, non è possibile introdurre per la prima volta in cassazione una domanda diversa, basata su fatti diversi (Cass. 4597 del 22 febbraio 2008).

Nel caso di specie, l’originaria attrice ha svolto, in sede civile, una domanda di risarcimento danni ex artt. 2043 e 2059 c.c. richiamando espressamente alcune norme del codice penale riguardanti i reati di violenza sessuale e il sequestro di persona.

Nell’atto introduttivo del giudizio, l’attrice aveva precisato che a seguito degli abusi subiti nell’estate precedente, le era residuato un danno biologico permanente sul piano psichico, oltre ad un danno biologico temporaneo della stessa natura, eziologicamente ricondotto alla denunciata condotta di reato che le aveva cagionato anche un danno patrimoniale (per spese mediche, legali e mancato guadagno).

Non vi è dubbio, pertanto, che la G. abbia inteso promuovere una azione di responsabilità extracontrattuale e che del tutto correttamente, di conseguenza, entrambi i giudici di merito abbiano ritenuto di dovere fare applicazione dei principi ad essa relativi.

Si richiama sul punto la giurisprudenza di questa Corte, per la quale: “In tema d’azione per il risarcimento del danno subito in relazione ad un rapporto di lavoro subordinato, deve ritenersi proposta l’azione di responsabilità extracontrattuale tutte le volte che non emerga una precisa scelta del danneggiato in favore di quella contrattuale”.

“Da quanto premesso deriva che, nel caso in cui la domanda sia ambigua e non emerga da essa la menzionata scelta del danneggiato, la domanda stessa deve essere interpretata, in base al “petitum” ed alla “causa petendi”, come una causa di risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ.” (Cass. S.U. 12 marzo 2001 n. 99).

Con i motivi dal secondo al sesto la ricorrente denuncia vizi della motivazione e violazione delle norme in materia di valutazione delle prove (artt. 112, 113, 115 c.p.c.), delle disposizioni relative all’onere della prova (art. 2697 c.c., comma 1) e delle disposizioni in materia di presunzioni (artt. 2927 – 2929 c.p.c.).

I cinque motivi, da esaminare congiuntamente in quanto connessi tra di loro, sono fondati nei limiti di seguito indicati.

La sentenza impugnata muove dalla premessa che ogni accertamento di penale responsabilità a carico del C. era rimasto precluso a causa della estinzione dei reati dovuta al suicidio dell’indagato nel carcere in cui egli era ristretto a seguito della denuncia querela proposta dalla apprendista parrucchiera G.N. per i ripetuti abusi sessuali a cui era stata sottoposta dal proprio datore di lavoro nei quattro mesi in cui ella aveva lavorato presso quell’esercizio.

Prosegue poi rilevando che le dichiarazioni rese dalla attrice nel processo civile – a differenza di quanto previsto nell’ambito del giudizio penale – non potevano assumere valore di prova se non incontestate o a suo detrimento.

Esclude, inoltre, qualsiasi rilevanza in ordine alla valutazione di attendibilità della attrice compiuta dal consulente; tecnico di ufficio.

Nega, infine, che dalle dichiarazioni rese da alcune testimoni, pur concordanti tra loro, possano discendere elementi di prova della condotta di reato ascritta al C..

Da un lato, sottolineano i giudici di appello, vi sarebbe un salto logico tra l’accertamento del fatto che il defunto C. avrebbe pesantemente “corteggiato” alcune delle sue giovani apprendiste e la conclusione che egli fosse proclive a condotte analoghe nei confronti di tutte le lavoratrici assunte (e dunque anche della attrice).

Dall’altro, non vi era neppure la certezza che i fatti di violenza e minaccia, posti in essere nei confronti delle altre apprendiste, fossero realmente accaduti.

Alcune testimoni, infatti, avevano espressamente negato di avere subito comportamenti del genere da parte del convenuto, riferendo invece di atteggiamenti paterni e gioviali dello stesso.

Vi era – addirittura – il sospetto (adombrato in alcune deposizioni testimoniali) che la denuncia proposta dalla G. costituisse il frutto di un accordo con le altre dipendenti, che trovava la sua giustificazione in altre circostanze.

Per queste ragioni la Corte territoriale riformava integralmente la decisione del giudice di primo grado, rigettando la domanda di risarcimento dei danni proposta dalla G..

Osserva il Collegio:

Il percorso motivazionale seguito dai giudici di appello si pone in aperto conflitto con la consolidata giurisprudenza di questa Corte in materia di prove indiziarie.

1 Deve ribadirsi – anche in questa sede – che spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo.

Nel caso di specie, esaminando singolarmente gli elementi indiziari raccolti, i giudici di appello hanno tratto la convinzione che non fosse stata raggiunta la prova dei fatti addebitati al C..

A tale conclusione gli stessi giudici sono pervenuti attraverso un esame atomistico degli elementi accertati, dopo aver escluso qualsiasi rilevanza alla testimonianza dello psicologo M., e traendo elementi di convincimento della non attendibilità della G., desunti dalla descrizione del luogo di lavoro (che, secondo gli stessi giudici, avrebbe di per sè impedito “ogni possibilità di appartarsi per consumare condotte del genere di quelle descritte dall’attrice”).

Ciò in contrasto con i principi più volte affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha sempre ribadito la necessità di un esame complessivo di tutte le circostanze rilevanti, ai fini della prova di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c..

In tema di presunzioni, in presenza di una molteplicità d’indizi, in ossequio al requisito della loro concordanza, la relativa valutazione va effettuata complessivamente e non atomisticamente. (Cass. 18 febbraio 2005 n. 3390).

Inoltre, nella prova per presunzioni, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità.

Infatti, è sufficiente che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza. (Cass. S.U. 13 novembre 1996 n. 9961).

Quanto alla configurabilità del nesso causale tra un fatto illecito ed un danno di natura psichica non è necessario che quest’ultimo si prospetti come conseguenza certa ed in equivoca dell’evento traumatico, ma è sufficiente che la derivazione causale del primo dal secondo possa affermarsi in base ad un criterio di elevata probabilità, e che non sia stato provato l’intervento di un fattore successivo tale da disconnettere la sequenza causale così accertata.

(Cass. 11 giugno 2009 n. 13530).

Il procedimento che deve necessariamente seguirsi in tema di prova per presunzioni si articola in due momenti valutativi; in primo luogo, occorre che il giudice valuti in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e, invece, conservare quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, ossia presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria.

Successivamente, egli deve procedere a una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni indizi.

E’, pertanto, viziata da errore di diritto e censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento. (Cass. 13 ottobre 2005 n. 19894).

Appare, dunque, non adeguatamente motivata l’affermazione conclusiva dei giudici di appello che ha ritenuto “infondati in quanto erronei sul piano logico l’addebito in via presuntiva della condotta di reato e l’affermazione di responsabilità che ne discende” (pag. 13 sentenza impugnata).

Analizzando le dichiarazioni rese dalle colleghe di lavoro della G., la Corte territoriale ne ha tratto la immotivata convinzione che le stesse – che pure (a suo avviso) costituivano l’unico elemento indiziario a sostegno delle affermazioni della attrice testimoniassero esclusivamente il carattere “paterno, scherzoso e gioviale” del C. escludendo qualsiasi violenza o minaccia o molestia attuate nei loro confronti.

Gli stessi giudici, peraltro, non hanno tenuto alcun conto di quanto rilevato dal Tribunale, il quale – dopo aver osservato che “le dichiarazioni suddette confermano la tendenza di C.G. a molestare con parole e fatti le proprie lavoranti in età adolescenziale” aveva sottolineato che “nelle suddette ipotesi, peraltro, l’interruzione dei rapporti di lavoro da parte delle interessate, dopo un brevissimo lasso di tempo dall’inizio dei suddetti comportamenti, ha impedito un probabile evolversi della situazione nel senso più grave occorso a G.N.”.

Queste affermazioni del primo giudice non sono state minimamente esaminate , in tutta la loro valenza, dalla Corte territoriale, la quale invece ha preferito porre in evidenza la “confusa ricostruzione dei luoghi ove si sarebbero svolti i fatti”, e sospettare, persino, la inesistenza dello “sgabuzzino” in cui gli atti di violenza sarebbero stati commessi, giungendo per tale via a dubitare della reale commissione dei fatti.

Da ultimo, occorre rilevare che nessun richiamo alle osservazioni formulate dal giudice penale è contenuto nella decisione impugnata.

Nel sesto motivo di ricorso, la ricorrente ha richiamato il contenuto del decreto di archiviazione adottato dal gip presso il Tribunale dei minorenni per l’Emilia Romagna, nel procedimento per calunnia a carico della stessa G., di D.C.G. e di S. R., risoltosi con l’archiviazione del procedimento a carico di tutte le indagate.

In esso, le accuse di pesanti e ripetuti atti di molestie e violenza posti in essere nei loro confronti dal C. risultavano confermate dalle separate – ma concordi – accuse, riferite ad epoche di commissione dei fatti diversi, mosse dalle tre giovani.

Il decreto di archiviazione, emesso dal giudice penale ex art. 409 cod. proc. pen. , pur non rientrando tra i provvedimenti dotati di autorità di cosa giudicata e non costituendo vincolo in sede civile o amministrativa, può1 contenere elementi che, in quanto negazione di quelli sui quali il giudice civile ha fondato la propria decisione, siano potenzialmente idonei a condurre ad una diversa decisione. (Cass. 6 luglio 2002 n. 9834).

Anche sotto tale profilo, si rivela la assoluta insufficienza di motivazione della decisione impugnata, che non ha tenuto conto di tale, ulteriore, elemento.

Conclusivamente il ricorso deve essere accolto nei limiti indicati, con rinvio ad altro giudice che procederà a nuovo esame, applicando i principi di diritto su enunciati.

Gli stessi giudici provvederanno anche in ordine alle spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, ricorrendone le condizioni, deve disporsi che, a cura della Cancelleria, sia apposta sull’originale della sentenza, una annotazione volta a precludere in caso di riproduzione in qualsiasi forma, la indicazione delle generalità, e dei dati identificativi degli interessali, riportati nella decisione, e di tutti i dati dai quali possa desumersi anche indirettamente la identità di G. e dei C. (secondo le modalità indicate nel Protocollo operativo 11 novembre 2009, della Commissione per il trattamento dei dati attinenti alla Corte di Cassazione, relativo alla attuazione del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, artt. 51 e 52).

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei limiti indicati.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.

Dispone che a cura della Cancelleria siano oscurati i dati relativi alla identità delle parti (ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52).

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2011

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