Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4470 del 23/02/2018

Cassazione civile, sez. I, 23/02/2018, (ud. 23/11/2017, dep.23/02/2018),  n. 4470

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del (OMISSIS) il Tribunale di Roma pronunciava la separazione giudiziale dei coniugi C.G. e F.G. con addebito della stessa al marito, disponeva in merito all’ affido e alla collocazione della figlia minore, individuava il contributo dovuto dal C. per il mantenimento del coniuge separato e della discendente e rigettava le differenti domande presentate, fra cui quella di risarcimento avanzata dalla F. per il ristoro dei danni causati dalla lesione dei diritti della persona costituzionalmente tutelati quali la dignità, la riservatezza, l’onore, la morale, la reputazione, la privacy, la salute e l’integrità psicofisica.

La decisione veniva impugnata tanto dal C., rispetto alla consistenza del contributo per il mantenimento fissato a suo carico, quanto dalla F., che in via incidentale sollecitava, fra l’altro, l’accoglimento della domanda di risarcimento danni presentata.

2. La Corte d’Appello di Roma, nel riformare parzialmente la statuizione impugnata rispetto alla misura del contributo per il mantenimento della moglie posto a carico del C. e alla disciplina del contributo per le spese della figlia, rigettava l’appello incidentale proposto dalla F..

3. Ha proposto ricorso per cassazione avverso tale pronuncia F.G., che ha fatto valere un unico, articolato, motivo di impugnazione.

Ha resistito con controricorso il C., che ha presentato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. Il motivo di ricorso proposto denuncia la violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. e ritiene che non possa essere condivisa la tesi sostenuta dalla corte territoriale secondo cui la domanda risarcitoria presentata, facendo conseguire le singole voci di danno (biologico, morale ed esistenziale) ex se genericamente dalla condotta tenuta dal marito e senza alcuna deduzione precisa di circostanze tali da consentire una valutazione della sussistenza del danno circostanziata e parametrata sulla persona della resistente, non meritava accoglimento in mancanza di una specifica allegazione del pregiudizio non patrimoniale subito; secondo la ricorrente la Corte d’Appello, una volta registrato il pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la violazione dei doveri derivanti dal matrimonio può integrare gli estremi dell’ illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali arrecati, avrebbe dovuto al contrario tenere in debito conto che nel caso in esame le condotte avevano assunto un rilievo esterno ed autonomo quali lesioni dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, anche in considerazione delle modalità con le quali il rapporto era stato condotto.

5. Il motivo di ricorso proposto è inammissibile.

E’ opportuno ricordare in limine che la Corte d’Appello ha espressamente riconosciuto che i doveri derivanti ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, ben può integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’ autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c. (Sez. 1, Sentenza n. 18853 del 15/09/2011, Rv. 619619 – 01).

Nel contempo la corte territoriale ha affermato che la dignità e l’onore della moglie costituiscono beni costituzionalmente protetti e risultavano, nel caso di specie, gravemente lesi dalla condotta senz’altro peculiare tenuta dal marito; ciò nonostante il collegio d’ appello ha negato il risarcimento invocato sul presupposto che la lesione dei diritti inviolabili della persona, costituendo un danno conseguenza, doveva essere specificamente allegato e provato.

Occorre poi rilevare come l’odierna ricorrente, pur lamentando la violazione del disposto degli artt. 2043 e 2059 c.c., non abbia affatto denunciato l’erronea applicazione di tali norme da parte del giudice di merito (applicazione che anzi pare condividere laddove, a pagg. 12, riconosce il principio secondo il quale la violazione dei doveri coniugali non comporta di per sè automaticamente il diritto al risarcimento del danno), ma abbia invece sostenuto che nel caso di specie la condotta della controparte aveva assunto un rilievo esterno ed autonomo provocando anche un danno patrimoniale conseguente al peggioramento delle sue condizioni fisiche.

Dunque la censura sollevata non investe le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata nè rispetto al fatto che la violazione dei doveri coniugali possa essere fonte di responsabilità aquiliana, nè in ordine agli oneri probatori correlati alla domanda di risarcimento del danno non patrimoniale (che non può mai ritenersi in re ipsa, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso presunzione semplici; si veda in questo senso, da ultimo, Cass. 17.1.2017 n. 917), ma torna a sostenere nel merito gli assunti non condivisi dalla corte territoriale senza confrontarsi con la ratio decidendi posta a base della decisione impugnata e senza individuare un preciso error in iudicando nel suo ordito argomentativo.

Questa Corte non può rivedere nel merito la motivazione offerta all’interno della sentenza impugnata circa l’impossibilità di identificare il danno lamentato, dato che il giudice di legittimità non ha il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, e si deve limitare a constatare come il ricorso in esame non assolva l’obbligo di specifica contestazione della ratio decidendi posta a fondamento della pronuncia impugnata (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 19989 del 10/08/2017, Rv. 645361 – 01).

La proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), con la conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 20910 del 07/09/2017, Rv. 645744 – 01).

E’ opportuno infine sottolineare come nessuna puntuale censura è stata sollevata rispetto al passaggio motivazionale con cui la Corte d’ Appello ha espressamente escluso la sussistenza di un nesso di causalità fra l’aggravamento delle condizioni di salute dell’odierna ricorrente e i fatti addebitati al marito.

6. In forza dei motivi appena esposti il ricorso non può che essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di lite, che liquida in complessivi Euro 2.900, di cui Euro 200 per spese e Euro 2.700 per compenso professionale, oltre a spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri titoli identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 23 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2018

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