Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4465 del 11/02/2022

Cassazione civile sez. trib., 11/02/2022, (ud. 25/01/2022, dep. 11/02/2022), n.4465

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso n. 1305-2015, proposto da:

FINORMA s.r.l. in liquidazione, cf. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante, elettivamente domiciliata in Roma, alla via A.

Bertoloni n. 30, presso lo studio dell’avv. Marco De Stefanis, dal

quale è rappresentata e difesa;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore p.t.;

– intimata –

Avverso la sentenza n. 3389/28/2014 della Commissione tributaria

regionale del Lazio, depositata il 20.05.2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio il 25

gennaio 2022 dal Consigliere Dott. Francesco FEDERICI.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

La Finorma s.r.l. ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 3389/28/2014, pronunciata dalla Commissione tributaria regionale del Lazio, con la quale fu accolto in parte l’appello dell’Agenzia delle entrate avverso la decisione di primo grado, che aveva annullato l’avviso di accertamento con cui era stato rettificato l’imponibile ai fini Ires, Iva e Irap relativamente all’anno d’imposta 2004.

La società ha riferito che tramite un intermediario abilitato aveva trasmesso il modello Unico 2005, versando le relative imposte. Il 5 ottobre 2010 l’Agenzia delle entrate, contestando l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, notificò l’avviso d’accertamento. Con esso, ricorrendo agli studi di settore, fu determinato l’imponibile della società e chiesto il versamento delle imposte. Furono anche irrogate le sanzioni. Ciò perché nella trasmissione della dichiarazione l’intermediario aveva erroneamente attribuito alla ricorrente il codice fiscale di un’altra contribuente.

Dopo l’inutile presentazione di una istanza di annullamento del provvedimento in autotutela e la presentazione di una istanza di accertamento con adesione, parimenti non andata a buon fine, la contribuente propose ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma, che con sentenza n. 27/51/2013 ne accolse le ragioni, annullando l’atto impositivo. L’Agenzia delle entrate appellò la pronuncia dinanzi alla Commissione tributaria regionale del Lazio, che con la sentenza ora al vaglio della Corte accolse in parte le ragioni dell’ufficio. Il giudice regionale ha rilevato che l’erronea indicazione del codice fiscale, pur se commessa dall’intermediario in sede di trasmissione della dichiarazione dei redditi, scambiato con quello di un’altra società, non esimeva da responsabilità il contribuente medesimo, su cui dovevano dunque ricadere le conseguenze dell’errore. L’inadeguatezza informativa in ordine alla posizione fiscale della Finorma, che di fatto aveva omesso la presentazione della dichiarazione dei

redditi, giustificava pertanto l’attività accertativa condotta dall’Amministrazione finanziaria con applicazione degli studi di settore. Il giudice regionale ha invece ritenuto che tale errore, alla luce della L. 26 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 2, giustificasse l’inapplicabilità delle sanzioni, di cui pertanto ne ha confermato l’annullamento.

La contribuente ha chiesto la cassazione della sentenza affidandosi a quattro motivi. L’Agenzia delle entrate ha irritualmente depositato un “atto di costituzione” al solo fine della eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

Nell’adunanza camerale del 25 gennaio 2022 la causa è stata trattata e decisa sulla base degli atti difensivi del ricorrente, che ha depositato anche memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

Il ricorrente ha denunciato:

con il primo motivo la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché erroneamente il giudice regionale ha ritenuto che l’avviso di accertamento fosse giustificato dalla erronea indicazione del codice fiscale di un altro contribuente. Il ricorrente afferma che l’errata indicazione del codice fiscale, in presenza di tutti gli altri indicatori riportati invece correttamente, costituiva un mero errore materiale, emendabile e di per sé insufficiente a qualificare per non trasmessa nei termini di legge la dichiarazione dei redditi. Considera irragionevole che l’Amministrazione finanziaria abbia negato l’annullamento in autotutela dell’atto impositivo.

Il motivo non può trovare accoglimento sebbene la motivazione della sentenza vada sul punto integrata ai sensi dell’art. 384 c.p.c..

Dalla sentenza e dai fatti narrati in ricorso l’errata indicazione del codice fiscale, appartenente invece ad altra società, ha comportato l’attribuzione della dichiarazione così trasmessa ad altro contribuente, con la conseguenza che essa è stata annullata dal sistema informatico nel momento in cui la diversa società ha trasmesso la sua effettiva dichiarazione dei redditi, ritenuta sostitutiva della prima.

Ebbene, se è pacifico che gli errori materiali siano emendabili, è altrettanto incontestabile che nel caso di specie non vi sia stata alcuna correzione, richiesta solo dopo la notificazione dell’avviso di accertamento. D’altronde gli errori materiali sono considerati meramente formali solo quando riconoscibili, ciò che non corrisponde al caso di specie, avendo l’errore investito proprio il codice fiscale identificativo del contribuente. Ne’ vale reclamare che l’errore sia riconducibile alla condotta dell’intermediario, che ha provveduto alla trasmissione telematica dell’atto, rispondendo dell’omissione sempre il contribuente, così come per l’ipotesi dell’omesso pagamento delle imposte da parte del professionista a ciò incaricato (cfr. Cass., 21 luglio 2017, n. 18086).

Non è neppure utile denunciare che l’erronea indicazione del codice fiscale debba ricondursi al software il quale, una volta acquisita la dichiarazione, l’ha cancellata, poiché è incontestabile che quella cancellazione ha fatto seguito non già ad un difetto del programma informatico, ma ad un errore dei dati identificativi trasmessi dal contribuente per mano dell’intermediario scelto. Sotto tale profilo risulta giustificata l’attività di accertamento seguitane. Anzi a tal fine va chiarito che i maggiori tributi richiesti non sono direttamente riconducibili all’errore materiale lamentato, bensì all’accertamento eseguito per la mancata identificazione soggettiva della dichiarazione dei redditi trasmessa dalla contribuente. In tal senso l’esito dell’accertamento poteva essere identico quand’anche quella dichiarazione fosse stata considerata correttamente inviata, atteso il divario tra quanto dichiarato dalla contribuente e quanto accertato induttivamente dall’Amministrazione finanziaria.

La decisione adottata dalla Commissione regionale è comunque conforme alle ragioni di diritto esplicitate.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia l’omessa pronuncia in merito alla nullità dell’avviso di accertamento per la sua tardiva notifica, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La censura è erroneamente riferita al vizio di motivazione e non, come avrebbe dovuto essere, al vizio processuale dell’omessa pronuncia, previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Il motivo va comunque rigettato. Occorre premettere che se alla rilevata e riconosciuta omessa pronuncia deve ordinariamente seguire la cassazione della decisione con rinvio al giudice di merito, dinanzi al quale il vizio processuale è stato compiuto, questa Corte, con orientamento ormai consolidato, ha affermato che il giudice di legittimità può decidere la causa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., non soltanto nel caso di violazione o falsa applicazione di norme sostanziali, ma anche nel caso in cui il suddetto vizio attenga a norme processuali, e sempre che non siano necessari ulteriori accertamenti in fatto (Cass., 15 febbraio 2005, n. 2977; 28 marzo 2006, n. 7073; 3 aprile 2014, n. 7826; 27 dicembre 2013, n. 28663; 11 novembre 2014, n. 23989; 2 febbraio 2017, n. 2731; 20 ottobre 2017, n. 24866).

Ciò chiarito, con il rilievo formulato la società invoca l’erronea applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 41 e 43, perché, si sostiene, il giudice non si sarebbe pronunciato sulla illegittimità di un accertamento d’ufficio (art. 41), previsto per l’ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione, e, soprattutto, sulla decadenza dal potere accertativo per inutile decorso dei termini (art. 43). Le critiche sono giuridicamente errate e a tal fine è sufficiente evidenziare che la sentenza del giudice d’appello ha riconosciuto la responsabilità della contribuente in ordine alla erronea trasmissione della dichiarazione dei redditi, e dunque, agli effetti giuridici, in ordine alla omissione della presentazione della dichiarazione. Conseguentemente non si individua alcuna violazione delle norme invocate, tanto con riguardo all’accertamento d’ufficio, previsto dall’art. 41 cit., quanto alla notifica dell’avviso di accertamento nel rispetto dei termini prescritti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 2.

Con il terzo motivo la società si duole della violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39 e 40, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, quanto alla denuncia della erronea applicazione del metodo induttivo e della disciplina sugli studi di settore.

Con il quarto motivo denuncia l’omessa pronuncia sulle censure sollevate in ordine ai maggiori ricavi imputati alla contribuente.

I due motivi possono essere trattati congiuntamente perché tra loro connessi, criticandosi il metodo di accertamento applicato, la violazione delle regole per esso prescritte, gli esiti dell’attività dell’ufficio. Anche in questo caso, così come per il secondo motivo, va chiarito che il tenore delle censure colloca correttamente i motivi nell’alveo delle nullità della decisione per vizi processuali, e nello specifico nel vizio dell’omessa pronuncia. Essi sono fondati.

La contribuente nell’atto di appello, che per il principio di autosufficienza è stato riprodotto per stralci significativi nel ricorso, aveva sollevato una serie di questioni afferenti alla correttezza dell’accertamento induttivo mediante studi di settore. Nello specifico aveva contestato l’utilizzo di un codice di attività della società errato, ai fini della individuazione del reddito di settore da applicare al caso specifico, la mancanza di confronto con le imposte che comunque la Finorma aveva versato, e, soprattutto, l’assenza della preventiva fase di contraddittorio, prevista dalla disciplina a pena di nullità dell’accertamento medesimo.

Ebbene, la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore, introdotto con il D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62-sexies, convertito con modificazioni in L. 29 ottobre 1993, n. 427, costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard in sé considerati meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività- ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente con il contribuente, pena la nullità dell’accertamento. In tale sede il contribuente ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standard o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali non sono state ritenute attendibili le allegazioni del contribuente. L’esito del contraddittorio peraltro non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, il cui onere probatorio grava sull’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente (Cass., Sez. U.,18/12/2009, n. 26635; 31/05/2018, n. 13908; 18/12/2017, n. 30370; 12/04/2017, n. 9484; 20/09/2017, n. 21754; 07/06/2017, n. 14091). Attese quindi le conseguenze derivanti dalla ripartizione dell’onere probatorio, si è anche affermato che ogni qual volta il contraddittorio sia stato regolarmente attivato e il contribuente abbia omesso di parteciparvi, oppure, anche partecipando, non abbia allegato alcunché per spiegare lo scostamento, l’Ufficio non è più tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri (cfr. Cass., 15/07/2020, n. 14981; 20/09/2017, n. 21754 cit.; da ultimo anche 30/10/2018, n. 27617 e 20/06/2019, n. 16545). In questo caso infatti la rilevazione dello scostamento, a fronte dell’assenza di elementi con cui il contribuente ne spieghi la sussistenza, assume la dignità di indizio grave e preciso, idoneo, pur se unico, a supportare la dimostrazione del fatto ancora sconosciuto, ai sensi dell’art. 2729 c.c.. Tanto in ogni caso non pregiudica definitivamente la difesa del contribuente, cui resta sempre il diritto di allegazione e di prova in sede contenziosa, anche per la prima volta, degli elementi idonei a vincere le presunzioni su cui l’accertamento tributario si fonda (cfr. Cass., 30/09/2019, n. 24330; 9/10/2020, n. 21824).

Ebbene nel caso di specie nella sentenza il giudice d’appello ha risolto le questioni relative alla irrituale e dunque inesistente trasmissione della dichiarazione dei redditi, ma ha del tutto omesso la pronuncia sulle questioni, pur sollevate nell’atto d’appello, relative alla erronea applicazione degli studi di settore ai fini dell’accertamento induttivo.

Ciò determina un vizio processuale, per omessa pronuncia, che investe la validità stessa della sentenza quanto alle questioni proposte con l’atto d’appello, su cui la Commissione regionale ha omesso di statuire.

La sentenza va pertanto cassata in relazione al terzo e al quarto motivo, e il giudizio va rinviato alla Commissione tributaria del Lazio, che, in diversa composizione, oltre che liquidare le spese del giudizio di legittimità, dovrà riesaminare le questioni proposte dalla contribuente in ordine alle modalità con cui l’Amministrazione ha provveduto ad accertare induttivamente il reddito, sulle quali non risulta pronuncia.

P.Q.M.

Accoglie il terzo ed il quarto motivo, rigetta il primo ed il secondo. Cassa la decisione in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, cui demanda in diversa composizione anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 25 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2022

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