Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4462 del 25/02/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 4462 Anno 2014
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: MANNA ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso 11298-2009 proposto da:
SHOT DI DELLA BARTOLA MARIA & C. S.N.C. C.F.
02485160408, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
NICOTERA 29, presso lo studio dell’avvocato CATELLI
MARCO, che la rappresenta e difende unitamente
2013

all’avvocato SAVELLI CLAUDIO, giusta delega in atti;
– ricorrente –

3642

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (UFFICIO DI RIMINI), in persona
del legale rappresentante pro tempore, rappresentata

Data pubblicazione: 25/02/2014

e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso
cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI
PORTOGHESI,

12;
– controricorrente 17/2968 della COMM. TRIB. REG.

di BOLOGNA, depositata

il 17/03/2008

R.G.N.

1890/2007;

udita la rnlazinnn dnlla cauma mvelta nella pubblla
udienza del 11/12/2013 dal Consigliere Dott. ANTONIO
MANNA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIUSEPPE CORASANITI che ha concluso
per l’inammissibilità e in subordine rigetto del
ricorso.

avverso la sentenza n.

I

1

.

R.G. n. 11298/09
Ud. 11.12.13
Shot S.n.c. di Della Bartola Maria & C. c. Agenzia delle Entrate

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata il 17.3.08 la Commissione tributaria regionale di Bologna
rigettava l’appello, proposto dalla S.n.c. Shot di Della Bartola Maria & C. nei
confronti dell’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Rimini, contro la pronuncia con cui

la Commissione tributaria provinciale di Rimini aveva solo parzialmente accolto il
ricorso della predetta società contro l’avviso di irrogazione di sanzioni relative
all’omessa registrazione sui libri paga e matricola della dipendente Monica Adriana
Radu, disponendo il ricalcolo delle sanzioni limitatamente al periodo compreso fra
il 16.6.02 e il 26.8.02.
Per la cassazione della decisione d’appello ricorre la S.n.c. Shot di Della Bartola
Maria & C. affidandosi a due motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1- Con il primo motivo si denuncia difetto di giurisdizione in quanto la Corte
cost., con sentenza n. 130/08, ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 2 d.lgs. n.
546/1992 nella parte in cui include nella giurisdizione della Commissioni tributarie
anche le controversie, come quella di specie, aventi ad oggetto la cognizione su
sanzioni amministrative di natura non tributaria comunque irrogate da uffici
finanziari, poiché tale giurisdizione è consentita soltanto se ha natura tributaria il
rapporto sottostante.
Il motivo è infondato.
È pur vero (cfr., ex aliis, Cass. S.U. n. 19495 del 16.7.08) che il principio della
perpetuatio iurisdictionis di cui all’art. 5 c.p.c., secondo cui i mutamenti di legge
intervenuti nel corso del giudizio non assumono rilevanza ai fini della giurisdizione,
la quale si determina con riguardo alla legge vigente al momento della proposizione
della domanda, si riferisce esclusivamente all’effetto abrogativo determinato dal
sopravvenire di una nuova legge e non anche all’effetto di annullamento dipendente
dalle pronunce di incostituzionalità, che impediscono al giudice di tenere conto
della norma dichiarata illegittima ai fini della decisione sulla giurisdizione; tuttavia
ciò vale purché sulla giurisdizione non si sia formato il giudicato (o non siano
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decorsi i termini di prescrizione o decadenza stabiliti per l’esercizio di determinati
diritti).
Nel caso in esame, avendo il giudice di primo grado pronunciato nel merito,
implicitamente affermando la propria giurisdizione, senza che quest’ultima sia stata

contestata in appello, trova applicazione l’altro principio, sempre affermato da
questa Corte Suprema, secondo il quale la relativa questione è ormai coperta da
giudicato implicito (cfr. Cass. n. 19475/12; Cass. S.U. n. 24883/08; Cass. n.
19792/2001; Cass. S.U. n.. 27531/2008).

2- Con il secondo motivo si prospetta violazione e falsa applicazione degli artt.
2697, 2700, 2727 e 2729 c.c., anche in riferimento all’art. 24 Cost., non avendo i
giudici di merito confermato anche sul punto della data di assunzione della
lavoratrice quanto emerso dal verbale di accertamento ispettivo dell’INPS: in tal
modo hanno trascurato che i verbali ispettivi o formano piena prova relativamente
all’intero accertamento o non lo sono per nulla, a maggior ragione quando il datore
di lavoro vi abbia fatto acquiescenza senza riserve, come nel caso in esame.
Il motivo è infondato.
Secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte Suprema, i verbali redatti
dagli ispettori del lavoro o dai funzionari degli enti previdenziali (al pari di quelli
redatti dagli altri pubblici ufficiali) fanno piena prova, fino a querela di falso,
unicamente dei fatti attestati nel verbale di accertamento come avvenuti alla
presenza del pubblico ufficiale o da lui compiuti, mentre la fede privilegiata
certamente non si estende alla verità sostanziale delle dichiarazioni ovvero alla
fondatezza di apprezzamenti o valutazioni del verbalizzante (cfr., ex aliis, Cass.
S.U. n. 12545/1992 e Cass. n. 17355/2009).
In particolare, per quanto concerne la verità di dichiarazioni rese da terzi al
pubblico ufficiale, la legge non attribuisce al verbale alcun valore probatorio
precostituito, neppure di presunzione semplice, sicché il materiale raccolto dal
verbalizzante deve essere liberamente apprezzato dal giudice, il quale può valutarne
l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuirgli il valore di vero e
proprio accertamento addossando l’onere di fornire la prova contraria al soggetto
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sul quale non ricade (Cass. n. 1786/2000, n. 1786, n. 6110/1998; n. 3973/1998; n.
6847/1987).
Dunque, sussistendo soltanto nei limiti anzidetti l’idoneità probatoria dei verbali

ricorrente — che le dichiarazioni raccolte dai pubblici ufficiali debbano essere
accolte o disattese nella loro interezza, senza alcuna possibilità di quel differenziato
vaglio critico da parte del giudice che, invece, è stato compiuto in prime cure (circa
la decorrenza dell’assunzione) e confermato dall’impugnata sentenza.
Per il resto, le censure di parte ricorrente finiscono con il trasmodare in critiche
all’apprezzamento di merito delle risultanze istruttorie, il che non è consentito in
sede di legittimità.

3- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la
soccombenza.

P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di
legittimità, liquidate in euro 3.000,00 (tremila/00) per compensi professionali, oltre
spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, in data 11.12.13.

ispettivi, non può pretendersi — contrariamente a quanto sostenuto da parte

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