Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 445 del 11/01/2011

Cassazione civile sez. III, 11/01/2011, (ud. 03/12/2010, dep. 11/01/2011), n.445

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Presidente –

Dott. FINOCCHIARO Mario – rel. Consigliere –

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere –

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 34767-2006 proposto da:

A.S. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA PACUVIO 34, presso lo studio dell’avvocato ROMANELLI GUIDO,

rappresentata e difesa dall’avvocato BRUSADIN SERGIO con studio in

36061 BASSANO DEL GRAPPA, VIA MARINALI 85, giusta delega a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

S.O. (OMISSIS), considerato domiciliato “ex

lege” in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dagli avvocati LEONE ARTURO, TERZIARI

GABRIELLA giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 973/2006 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, 4^

SEZIONE CIVILE, emessa il 14/6/2006, depositata il 07/09/2006, R.G.N.

1597/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/12/2010 dal Consigliere Dott. MARIO FINOCCHIARO;

udito l’Avvocato SERGIO BRUSADIN;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto (OMISSIS) S.O., esposto di avere concesso in locazione – in data (OMISSIS) – a A. S. un locale a uso abitativo in (OMISSIS) e di avere disdettato il rapporto per la scadenza del (OMISSIS), avendo necessità di destinare l’immobile a uso familiare, ha intimato a A.S. sfratto per finita locazione, convenendola, contestualmente, innanzi al tribunale di Bassano del Grappa, per la convalida.

Costituitasi in giudizio l’intimata si è opposta alla domanda assumendo, da un lato, che trattandosi di contratto stipulato ai sensi della L. n. 359 del 1992, art. 11, comma 2, controparte doveva fornire la prova della invocata necessità abitativa, dall’ altro, di avere corrisposto – nel corso del rapporto – un canone superiore a quello di legge e chiedendo, pertanto, in via riconvenzionale, che – accertata la misura dell’equo canone dovuto per l’immobile oggetto di controversia – l’attore fosse condannato alla restituzione delle somme versate in eccesso.

Disposto il mutamento di rito l’attore con la memoria di cui all’art. 426 c.p.c. ha specificato che la esigenza familiare indicata in disdetta era costituita dalla necessità di adibire l’immobile a abitazione della figlia M., mentre la convenuta ha ribadito la richiesta di accertamento dell’equo canone dovuto e di condanna dell’attore alla restituzione dei canoni ricevuti in eccesso.

Svoltasi la istruttoria del caso l’adito tribunale ha accertato che la locazione era cessata il (OMISSIS), disponendo la separazione della causa, relativamente alla domanda inerente l’accertamento dell’equo canone e domande consequenziali.

Gravata tale pronunzia dalla soccombente A., nel contraddittorio del S. che, costituitosi in giudizio, ha chiesto il rigetto della avversa impugnazione, la Corte di appello di Venezia, con sentenza 14 giugno – 7 settembre 2006 ha rigettato l’appello, con condanna di parte appellante al pagamento delle spese del grado.

Per la cassazione di tale ultima pronunzia, notificata il 1 ottobre 2006, ha proposto ricorso A.S., affidato a due motivi e illustrato da memoria.

Resiste, con controricorso S.O..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Come accennato parte espositiva i giudici del merito hanno accertato:

– da un lato, che in primo grado la conduttrice si era opposta alla declaratoria di cessazione del rapporto inter partes alla data del (OMISSIS) assumendo che era onere del locatore – trattandosi di contratto stipulato ai sensi della L. n. 359 del 1992, art. 11, comma 2 – dimostrare l’esigenza familiare indicata in disdetta e che, pertanto, integrava domanda nuova quella secondo cui il rapporto locatizio oggetto di controversia era sorto in forza del contratto (OMISSIS);

– dall’altro, che in realtà il locatore non ha mai sostenuto di avere concluso con la A. un contratto in deroga – ai sensi della L. n. 359 del 1992, art. 11, comma 2, – e che essendo stato accertato, dal primo giudice, con statuizione coperta da giudicato, che il rapporto in discussione non era in deroga esattamente era stato escluso che fosse onere del locatore, nell’ intimare, la disdetta alla prima scadenza, motivare le ragioni della disdetta stessa (senza che rilevi che il locatore – senza che ve ne fosse necessità, nel comunicare la richiesta di rilascio per la scadenza contrattuale avesse indicato la necessità di destinare l’immobile a uso familiare, tenuto presente che da tale circostanza non può dedursi una modifica del tipo di contratto, originariamente concluso e sottoposto alla L. n. 392 del 1978).

2. La ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte de qua denunziando:

– da un lato, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, n. 5) primo motivo, prima parte;

– dall’altro, violazione art. 112 c.p.c., art. 420 c.p.c., comma 2, art. 426 c.p.c., L. n. 392 del 1978, art. 29 e L. n. 359 del 1992, art. 11, comma 2, primo motivo, seconda parte.

In ordine a questo ultimo profilo la ricorrente formula, ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. il seguente quesito di diritto: se può il giudice di merito di fronte alla richiesta del locatore di rilascio del bene locato con patto in deroga L. n. 352 del 1992, ex art. 11, comma 2, alla prima scadenza, di fronte alla fallita prova da parte del locatore della necessità familiare addotta, ritenuta alla fine della causa la sottoponibilità del rapporto esclusivamente alla normativa dell’equo canone, disporre d’ufficio la cessazione del rapporto e il rilascio del bene locato secondo la normativa dell’equo canone, non avendo mai il locatore richiesto il rilascio secondo detta normativa dell’equo canone, cambiando così, d’ufficio la causa petendi.

3. Il motivo è inammissibile.

Sotto entrambi i profili in cui si articola.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

3.1. Il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 – che ha introdotto, con decorrenza dal 2 marzo 2006, l’art. 366-bis c.p.c. ancorchè abrogato con decorrenza dal 4 luglio 2009 dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47 è applicabile ai ricorsi proposti avverso le sentenze pubblicate tra il 3 marzo 2006 e il 4 luglio 2009 (cfr. L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5).

Certo che la sentenza ora oggetto di ricorso per cassazione è stata pubblicata il 1 settembre 2006 è palese, in limine, la soggezione del presente ricorso alla disciplina del ricordato art. 366-bis c.p.c..

3.2. Come noto, dispone la norma da ultimo richiamata, che nei casi previsti dall’art. 360, comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4 l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità con formulazione di un quesito diritto. Nel caso previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5 l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

3.3. Pacifico quanto precede si osserva che il ricorso non rispetta le prescrizione di cui al ricordato art. 366 bis c.p.c. e deve – di conseguenza – essere dichiarato inammissibile.

3.3.1. Con riguardo al primo profilo della censura (con il quale si prospetta omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio) si osserva – come del resto già ricordato sopra – che giusta la testuale previsione dell’art. 366-bis c.p.c., mentre nei casi previsti dall’art. 360, comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4 l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità con formulazione di un quesito diritto, nel caso previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5 l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Questa Corte regolatrice – alla stregua della stessa letterale formulazione dell’art. 366 bis c.p.c. – è fermissima nel ritenere che a seguito della novella del 2006 nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 allorchè, cioè, il ricorrente denunzi la sentenza impugnata lamentando un vizio della motivazione, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione.

Ciò importa in particolare che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ad esempio, Cass., sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603).

Al riguardo, ancora, è incontroverso che non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte, del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata.

Conclusivamente, allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall’art. 366-bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (In termini, ad esempio, Cass. 7 aprile 2008, n. 8897. Sempre in questo senso, altresì, Cass. 4 novembre 2010, n. 22502; Cass. 7 maggio 2010, n. 11236).

Facendo applicazione dei riferiti principi al caso di specie è agevole osservare che quanto al denunziato vizio di motivazione della sentenza impugnata, il ricorso è totalmente carente di una parte dedicate alla chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

E’ di palmare evidenza, pertanto, sotto il profilo in questione – come anticipato – la inammissibilità del motivo.

Il tutto a prescindere dal considerare che il motivo di ricorso per cassazione con il quale alle sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 deve essere inteso a far valere carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nella attribuzione agli elementi di giudizio di un significato fuori dal senso comune, o ancora, mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi, mentre non può, invece, essere inteso – come ora pretende la ricorrente – a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti (cfr. Cass. 14 giugno 2010, n. 14200; Cass. 3 maggio 2010, n. 10657; Cass. 27 ottobre 2006, n. 23087).

3.3.2. Quanto al secondo profilo di censura e ai vizi asseritamente prospettati sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, la censura è inammissibile almeno sotto tre – concorrenti – profili.

3.3.2. In primis si osserva che denunziandosi – almeno nella rubrica del motivo – la violazione di molteplici disposizioni del codice di rito, la relativa censura doveva – a pena di inammissibilità della stessa – essere prospettata sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, ossia quale nullità della sentenza o del procedimento e non – certamente – invocando violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3.

3.3.2. In secondo luogo, anche a prescindere da quanto precede, si osserva che il quesito formulato dalla ricorrente al termine del motivo in cui si articola il ricorso non pare conforme al modello delineato dall’art. 366-bis c.p.c. con conseguente inammissibilità del ricorso.

Il quesito di diritto previsto dall’art. 366-bis c.p.c. (nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4) – infatti – deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte di cassazione in condizione di rispondere a esso con la enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata.

In altri termini, la Corte di cassazione deve poter comprendere dalla lettura dal solo quesito, inteso come sintesi logico giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice del merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare.

La ammissibilità del motivo, in conclusione, è condizionata alla formulazione di un quesito, compiuta e autosufficiente, dalla cui risoluzione scaturisce necessariamente il segno della decisione (Cass., sez. un., 25 novembre 2008, n. 28054; Cass. 7 aprile 2009, n. 8463).

Non può, inoltre, ritenersi sufficiente – perchè possa dirsi osservato il precetto di cui all’art. 366-bis – la circostanza che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dalla esposizione del motivo di ricorso nè che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie.

Una siffatta interpretazione della norma positiva si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell’art. 366 bis c.p.c. secondo cui è, invece, necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la Corte è chiamata a risolvere nell’esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, oltre all’effetto deflattivo del carico pendente, ha inteso valorizzare, secondo quanto formulato in maniera esplicita nella Legge Delega 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, comma 2, ed altrettanto esplicitamente ripreso nel titolo stesso del decreto delegato sopra richiamato.

In tal modo il legislatore si propone l’obiettivo di garantire meglio l’aderenza dei motivi di ricorso (per violazione di legge o per vizi del procedimento) allo schema legale cui essi debbono corrispondere, giacchè la formulazione del quesito di diritto risponde all’esigenza di verificare la corrispondenza delle ragioni del ricorso ai canoni indefettibili del giudizio di legittimità, inteso come giudizio d’impugnazione a motivi limitati (Cass. 25 novembre 2008 nn. 28145 e 28143).

Contemporaneamente deve ribadirsi, al riguardo, che il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c. deve compendiare:

a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito;

b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice;

c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie.

Di conseguenza, è inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge o a enunciare il principio di diritto in tesi applicabile (Cass. 17 luglio 2008, n. 19769).

Conclusivamente, poichè a norma dell’art. 366-bis c.p.c. la formulazione dei quesiti in relazione a ciascun motivo del ricorso deve consentire in primo luogo la individuazione della regula iuris adottata dal provvedimento impugnato e, poi, la indicazione del diverso principio di diritto che il ricorrente assume come corretto e che si sarebbe dovuto applicare, in sostituzione del primo, è palese che la mancanza anche di una sola delle due predette indicazioni rende inammissibile il motivo di ricorso.

Infatti, in difetto di tale articolazione logico giuridica il quesito si risolve in una astratta petizione di principio o in una mera riproposizione di questioni di fatto con esclusiva attinenza alla specifica vicenda processuale o ancora in una mera richiesta di accoglimento del ricorso come tale inidonea a evidenziare il nesso logico giuridico tra singola fattispecie e principio di diritto astratto oppure infine nel mero interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nella esposizione del motivo (Cass. 26 gennaio 2010, n. 1528, specie in motivazione, nonchè Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27368).

Da ultimo, concludendo sul punto, non può tacersi che la censura è inammissibile anche sotto l’ulteriore profilo che non censura in alcun modo quella che la ratio decidendi della sentenza impugnata.

Questa ultima, come osservato sopra, ha accertato:

– da un lato, essere coperta da giudicato, l’affermazione contenuta nella sentenza del primo giudice, che il contratto inter partes è soggetto esclusivamente alla disciplina di cui alla L. 27 luglio 1978, n. 392, non integrando un contratto in deroga, ai sensi della L. n. 353 del 1992;

– dall’altro, che la circostanza che il locatore abbia indicato, in occasione della disdetta anche la propria intenzione – una volta avuta la disponibilità dell’immobile – di adibire a proprio uso familiare l’immobile oggetto di controversia, è irrilevante al fine del decidere e non giustifica la soggezione del rapporto stesso (e della sua conclusione) a una disciplina diversa da quella di cui alla L. n. 392 del 1978.

Non censurandosi, in alcun modo, tali affermazioni, da parte del ricorrente è palese – come anticipato – anche sotto tale ulteriore profilo la inammissibilità del primo motivo.

4. Con il secondo motivo la ricorrente censura la ingiustificata compensazione delle spese di causa di primo grado e di condanna alle spese di appello (art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

5. Il motivo è inammissibile vuoi perchè privo del quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c., vuoi perchè – comunque – privo di una parte espositiva ex art. 360 c.p.c., n. 4 (non essendo indicate in alcun modo le ragioni del dissenso della ricorrente rispetto gialle pronunce sulle spese adottate dal primo e dal secondo giudice, se non sotto il profilo che la cassazione della sentenza impugnata … comporta una diversa regolamentazione delle spese a favore della A.) e tenuto presente, infine, che la dichiarata inammissibilità del primo motivo di ricorso non può che condurre alla conferma della sentenza impugnata.

6. Alla dichiarata inammissibilità del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite di questo giudizi odi cassazione, liquidate come in dispositivo.

PQM

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso;

condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite di questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 200,00 oltre Euro 2.000,00 per onorari e oltre spese generali e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 3^ sezione civile della Corte di cassazione, il 3 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2011

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