Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4438 del 20/02/2020

Cassazione civile sez. II, 20/02/2020, (ud. 22/02/2019, dep. 20/02/2020), n.4438

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25727-2015 proposto da:

P.S., difeso da se stesso, elettivamente domiciliato in

ROMA, V. A. MORDINI 14, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI

PETRILLO, rappresentato e difeso anche dall’avvocato GENNARO

PESCATORE;

– ricorrente –

contro

D.L.M.R.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

TIRSO 26, presso lo studio dell’avvocato PIETRO BORIA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARCO RUSSO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3977/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 08/10/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

22/02/2019 dal Consigliere RAFFAELE SABATO.

Fatto

RILEVATO

che:

1. L’avv. P.S. ha convenuto innanzi al tribunale di Avellino D.L.M.R.A. chiedendo condannarsi la stessa al pagamento di prestazioni professionali.

2. Il tribunale con sentenza depositata l’11.6.2009 ha rigettato la domanda per intervenuta prescrizione presuntiva ex art. 2956 c.c., comma 2, compensando le spese processuali.

3. La corte d’appello di Napoli ha rigettato l’appello principale dell’avv. P.S. e quello incidentale, in ordine alle spese processuali, proposto da D.L.M.R.A..

4. A sostegno della decisione la corte d’appello ha considerato, per quanto qui rileva:

– che non sussistesse alcuna prova dell’unicità del mandato professionale in relazione ai diversi affari, essendosi trattato di diversi incarichi;

– che non vi fosse prova di un patto di differimento del compenso all’esito della liquidazione dell’eredità;

– che non sussistesse alcun elemento nelle difese della signora D.L. incompatibile con l’avvenuta estinzione del credito;

– che competesse al giudice esaminare l’eccezione di prescrizione come implicitamente riferita a quella presuntiva ove non risultasse decorso il termine di quella estintiva;

– che il decorso del termine per la prescrizione si avviasse a far tempo dal 31.1.2001, data della decisione della lite innanzi al tribunale di Frosinone;

– che le lettere del 27.4.2001 e 6.9.2001 non fossero idonee a interrompere la prescrizione, mancando una richiesta di pagamento.

5. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione P.S. su cinque motivi, illustrati da memoria. Ha resistito D.L.M.R.A. con controricorso, anch’esso illustrato da memoria.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo (p. 8 del ricorso) si deduce nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione agli artt. 2230 e 2233 c.c. nonchè 115 c.p.c., oltre che omessa e/o insufficiente motivazione su punto decisivo. Si rappresenta che con motivo d’appello si era sostenuto, a fronte della deduzione originaria dell’unicità del contratto, che la signora D.L. in primo grado avesse reagito con la sola contestazione di inesistenza di un patto di differimento del compenso. Affermando la mancanza di prova dell’unicità del contratto la corte d’appello avrebbe dunque pronunciato su eccezione non proposta.

1.1. Quanto alla censura per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, essendo stata la sentenza impugnata depositata posteriormente all’11.09.2012 (e precisamente in data 8.10.2014), al presente procedimento è applicabile ratione temporis il testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012, che ammette la censura motivazionale al livello del “minimo costituzionale” dell'”omesso esame”. Il motivo è dunque inammissibile. Non deducendo la parte ricorrente alcun fatto storico il cui esame sarebbe stato omesso, non è possibile – al di là della testuale rubrica del motivo – neppure riqualificare la censura sì da conformarla alla nuova disposizione. L’inammissibilità sussiste, per le medesime ragioni, anche per la censura contenuta nel successivo motivo (il quarto) ove si è dedotta omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (v. infra).

1.2. Il primo motivo è anche per il resto inammissibile. Non può infatti in alcun modo predicarsi che, affermando la mancanza di prova dell’unicità del contratto in riferimento ai diversi mandati professionali, la corte d’appello abbia pronunciato su eccezione non proposta e, quindi, in ultrapetizione.

1.3. Com’è noto (cfr. ad es. Cass. n. 18868 del 24/09/2015) il potere-dovere del giudice di inquadrare nella esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti che formano oggetto della contestazione incontra il limite del rispetto del petitum e della causa petendi, che si sostanzia nel divieto di introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, sicchè il vizio di “ultra” o “extra” petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori.

1.4. Nella specie, il vizio di ultrapetizione va negato, in quanto i giudici di merito, mantenendosi entro petitum e causa petendi, senza estendere la propria cognizione ad alcuna eccezione non proposta, si sono limitati a inquadrare la vicenda giuridica configurando i rapporti tra le parti come originanti più rapporti di mandato professionale, non rinvenendo la prova di un contratto unico. In tal modo, i giudici di merito hanno semplicemente proceduto alla qualificazione giuridica dei fatti, senza apprezzare dati storici diversi da quelli oggetto di prova o di non contestazione.

2. Con il secondo motivo (p. 10) si censura violazione dell’art. 2956 c.c., lamentandosi la valutazione operata dalla corte d’appello e dal tribunale circa la natura presuntiva dell’eccepita prescrizione. Si indicano in particolare letture alternative dei fatti in base alle quali non sussisterebbe il presupposto cui i giudici di merito hanno ancorato la loro valutazione (l’eccezione non sarebbe incompatibile con il lasso temporale decorso – v. di seguito).

2.1. Il motivo è inammissibile.

2.2. Con esso invero, attraverso una solo apparente deduzione di error in iudicando e – invece – la proposizione di letture alternative delle risultanze degli atti, si sottopone a questa corte di legittimità un’inesigibile istanza di revisione di un apprezzamento di fatto quale quello della valutazione della maturazione della prescrizione già definitivamente effettuato dai giudici di merito e non inciso da alcuna effettiva violazione di norme giuridiche.

2.3. In ordine a tale ultimo aspetto, infatti, la disamina della corte d’appello si è rettamente attenuta al principio di diritto (per il quale v. ad es. Cass. n. 16843 del 11/08/2005 e n. 1203 del 18/01/2017) per cui, se è vero che l’eccezione di prescrizione presuntiva e quella di prescrizione estintiva non sono reciprocamente fungibili, nè rappresentano espressione di un’attività difensiva sostanzialmente unitaria (configurando, la prima, una difesa fondata su una mera presunzione legale di avvenuta estinzione del diritto azionato dalla controparte, la seconda una difesa volta a determinare l’estinzione dell’avverso diritto che, ove proposta, non impone al debitore alcun onere di specificazione del tipo legale e di durata, la cui identificazione spetta al giudice secondo le varie ipotesi previste dalla legge, in base al principio iura novit curia), è anche vero che, se l’invocazione dell’una non è estensibile all’altra, imponendosi una formulazione distinta per ciascuna di esse, cionondimeno, qualora sia formulata genericamente un’eccezione di prescrizione, senza che il tempo per quella estintiva sia decorso, il giudice del merito può esaminare quella presuntiva, malgrado la logica incompatibilità con la prima, desumendo che essa sia stata implicitamente proposta per il fatto che ancora non sia maturata quella estintiva.

3. Con il terzo motivo (p. 13) si lamenta una violazione dell’art. 2959 c.c., censurandosi la valutazione operata dalla corte d’appello di accoglibilità della prescrizione presuntiva, in quanto sia in fase stragiudiziale sia in sede di giudizio la signora D.L. avrebbe contestato l’esistenza dell’obbligazione, per non avere ella ricevuto parcelle delle prestazioni o per non essere stato stipulato un contratto. Tali condotte sarebbero, secondo il ricorrente, da qualificarsi come implicite ammissioni del fatto che l’obbligazione non sarebbe stata estinta, sicchè andava disattesa, ex art. 2959 c.c., l’eccezione di prescrizione presuntiva, in quanto incompatibile.

3.1. Il motivo è inammissibile.

3.2. La corte d’appello (p. 6 della sentenza impugnata) ha espressamente motivato sulla circostanza che, in ordine alla causa “Fala”, la signora D.L. aveva sostenuto essere stato il compenso in effetti corrisposto con “modalità particolari” non incompatibili con i rapporti informali tra le parti, “ferma rimanendo l’affermazione, più volte reiterata, di aver pagato tutte le spettanze del professionista”. Manca dunque, come si evince dalla lettura della sentenza impugnata, il primo presupposto cui il ricorrente ha ancorato la censura.

3.3. Quanto all’eccezione di mancanza di contratto, dalla lettura della sentenza impugnata si evince che il riferimento nelle difese della signora D.L. deve intendersi operato a una specifica contrattualizzazione unica del rapporto defensionale, senza che ella volesse smentire gli incarichi conferiti, invero più volte oggetto di riferimenti. Manca dunque anche il secondo presupposto cui il ricorrente ha ancorato la censura.

3.4. Ciò detto ai fini di un’opportuna riconduzione della censura al contenuto della sentenza impugnata, l’inammissibilità del motivo emerge dal fatto che, ancora una volta, attraverso la proposizione di una lettura alternativa delle risultanze degli atti (peraltro di chiaro tenore diverso, per quanto sopra detto), si sottopone a questa corte di legittimità un’inesigibile istanza di revisione di un apprezzamento di fatto – quale quello dell’ammissione o della non ammissione dell’estinzione dell’obbligazione – già definitivamente effettuato dai giudici di merito e non inciso da alcuna effettiva censura di violazione di legge, posto che, come detto, la corte d’appello ha ritenuto, con adeguata base fattuale, la compatibilità dell’eccezione di estinzione presuntiva con i comportamenti della signora D.L..

4. Con il quarto motivo (p. 15 del ricorso) si deduce violazione dell’art. 2957 c.c., comma 2 e insufficiente e/o contraddittoria motivazione su punto decisivo. Si sostiene che la corte d’appello, applicando la norma dell’art. 2957 citata, per cui la prescrizione presuntiva dei compensi professionali degli avvocati decorre dalla decisione della lite o dalla rinuncia al mandato, avrebbe erroneamente fatto riferimento quale dies a quo alla data del 31.1.2001, essendo questa quella del deposito e non del passaggio in giudicato; viceversa il professionista aveva rinunciato al mandato con lettera 12-17.9.2001, data da cui non era decorso il triennio rispetto alla messa in mora del 22-25.3.2004. Nell’ambito del motivo si ripercorrono, poi, le missive inviate, reputate dalla corte d’appello come inidonee all’interruzione della prescrizione, con valutazione ritenuta erronea da parte ricorrente. Quanto alla data del 31.1.2001, il ricorrente afferma essere inidonea a farla ritenere quale dies a quo la di lui predetta lettera del 22-25.3.2004 in cui a detta data del 31.1.2001 si riconduceva la fine del mandato professionale, “non avendo ritenuto opportuno di aggiungere il mio nome all’appello affidato ad altri legali”; la lettera non potrebbe avere valore confessorio.

4.1. Il motivo è inammissibile.

4.2. Esso, come già esposto, propone censura per vizi motivazionali inammissibile in quanto formulata in riferimento al previgente testo dell’art. 360 c.p.c. e non riqualificabile secondo quello vigente.

4.3. Sempre come già esposto, poi, sotto la veste di censura di violazione di norme sostanziali si sottopongono a questa corte di legittimità letture alternative delle risultanze probatorie, con un’inesigibile istanza di revisione dell’apprezzamento di fatto costituito dalla disamina del contenuto delle missive asseritamente interruttive della prescrizione – già definitivamente effettuato dai giudici di merito.

4.4. Ciò posto, quanto ai profili giuridici propriamente detti, evocati comunque dal motivo in maniera inammissibilmente frammista a censure di merito, può rilevarsi come la sentenza impugnata si sia rettamente attenuta a una corretta interpretazione dell’art. 2957 c.c..

4.4.1. Anzitutto deve notarsi che questa corte, seppur in epoca non recente (Cass. n. 2275 del 27/07/1974), si è già pronunciata sull’interpretazione da darsi alla norma dell’art. 2957 comma 2 cit. nei casi di procedimenti iniziati da un professionista legale, ma proseguiti da altri professionisti (cause che la rubrica della L. n. 794 del 1942, art. 7 definisce come “cause non giunte a compimento”, cui la stessa norma parifica la “revoca della procura” o la “rinunzia alla stessa”, e per le quali è prescritto che ugualmente “il cliente deve all’avvocato gli onorari”, nei limiti “corrispondenti all’opera prestata”; l’art. 28 della medesima legge, modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2011, già nel testo originario ammetteva poi l’accesso al procedimento speciale di liquidazione “dopo la decisione della causa o l’estinzione della procura”). Nel predetto precedente, cui va in questa sede prestato ossequio, si è ritenuto che in questi casi, ai fini del computo del termine di prescrizione, vada attribuita rilevanza agli elementi conclusivi del rapporto di prestazione d’opera intellettuale: non solo a quelli indicati coerentemente sia nell’art. 2957 c.c. sia nei predetti L. n. 794 del 1942, artt. 7 e 28, ma anche, di massima, a ogni altro evento di carattere soggettivo od oggettivo determinante, nei casi concreti, l’ultimazione del rapporto; tra questi eventi residuali, secondo questa corte, vanno ricompresi quelli cui l’estinzione del mandato segua per patto tra le parti, da ritenersi lecito in subiecta materia.

4.4.2. A tale principio di diritto si è rettamente attenuta la corte d’appello. I giudici di merito, anzitutto, ragionevolmente, seppur implicitamente, hanno ritenuto che – come evidenzia il controricorso (p. 29) – l’elemento del passaggio in giudicato della sentenza possa ritenersi indicativo del dies a quo solo nei casi ordinari in cui la lite sia giunta a compimento con il medesimo patrocinio legale per tutta la sua durata; nei diversi casi di “cause non giunte a compimento”, spetta al giudice – valorizzando i predetti ulteriori elementi desumibili dalle norme menzionate e/o dai patti tra le parti – rinvenire il dies a quo più acconcio alle caratteristiche del caso concreto.

4.4.3. In tale logica – con apprezzamento in fatto come detto non censurabile – la corte d’appello, dopo aver ricordato sostanzialmente i predetti principi per cui “la prescrizione presuntiva… decorre dalla decisione della lite e, per gli affari non terminati, dall’ultima prestazione” (p. 6 della sentenza), ha valorizzato l’ammissione del P. contenuta nella prima lettera di costituzione in mora del 22/3/2004″, riferendo il dies a quo alla data della sentenza del tribunale di Frosinone, dopo la quale – come detto – il difensore, come ammesso in detta missiva, “non ave(va) ritenuto opportuno di aggiungere il (suo) nome all’appello affidato ad altri legali”.

4.4.4. Avendo utilizzato il testo della lettera ammissiva a fini ricostruttivi della volontà delle parti, la corte d’appello non ha violato alcuna disposizione in tema di confessione, istituto non applicato; nè ha omesso in alcun modo di valutare l’impatto eventuale, a fini interruttivi, delle precedenti missive, minuziosamente elencate alle pp. 6 e 7 della sentenza, ritenendo che la lettera del 27/4/2001 e il fax del 4/9/2001 attenessero a meri “rapporti informativi” tra i difensori, solo “per conoscenza” trasmessi alla D.L.; nonchè che la nota del 6/9/2001 inviata alla D.L. costituisse resoconto della documentazione trasmessa al successivo difensore, in ottica di collaborazione. La corte d’appello ha quindi coerentemente reputato dette missive inidonee a interrompere la prescrizione, in quanto “mancan(te) (cfr. art. 1219 c.c.) in esse qualsiasi intimazione ovvero richiesta di pagamento dei compensi diretta alla D.L.”.

4.4.5. Benchè non direttamente evocati quale parametri della doglianza per error in iudicando, anche gli artt. 2943 e 1219 c.c. risultano pienamente osservati dalla sentenza impugnata, posto che essa ha correttamente richiamato (p. 7 della sentenza) e applicato il precedente giurisprudenziale di questa corte (Cass. n. 3371 del 12/02/2010), che questo collegio condivide, per cui in tema di interruzione della prescrizione perchè un atto abbia efficacia interruttiva è necessario che lo stesso contenga l’esplicitazione di una precisa pretesa e l’intimazione o la richiesta di adempimento. In altre parole l’atto, per avere efficacia interruttiva, deve contenere, oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato (elemento soggettivo), l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto, nei confronti del soggetto indicato, con l’effetto sostanziale di costituirlo in mora (elemento oggettivo). Quest’ultimo requisito non è soggetto a rigore di forme, all’infuori della scrittura, e, quindi, non richiede l’uso di formule solenni nè l’osservanza di particolari adempimenti, essendo sufficiente che il creditore manifesti chiaramente, con un qualsiasi scritto diretto al debitore e portato comunque a sua conoscenza, la volontà di ottenere dal medesimo il soddisfacimento del proprio diritto. Ne consegue che non è ravvisabile tale requisito in semplici sollecitazioni prive di carattere di intimazione e di espressa richiesta di adempimento al debitore e che è priva di efficacia interruttiva la riserva, anche se contenuta in un atto scritto, di agire, trattandosi di espressioni che, per genericità e ipoteticità, non possono in alcun modo equipararsi a una intimazione o a una richiesta di pagamento. Tale linea ermeneutica è stata ribadita da questa S.C. con le pronunce n. 24656 del 03/12/2010, n. 17123 del 25/08/2015 e n. 15714 del 14/06/2018, cui va data continuità, non potendo invece condividersi il contrastante minoritario indirizzo – dissonante rispetto al testo degli artt. 2943 e 1219 c.c. – per cui sarebbe sufficiente, ai fini interruttivi, una qualsiasi dichiarazione che, esplicitamente o per implicito, manifesti puramente e semplicemente l’intenzione di esercitare il diritto spettante al dichiarante; altra, invero, è l’intenzione, altro è l’esercizio effettivo di un diritto che, in materia di obbligazioni, si ha soltanto richiedendo o intimando il pagamento, atto questo che impone a chi si dichiari creditore correlativamente l’assunzione delle responsabilità conseguenti a iattanza (spesso sottovalutate nella pratica commerciale e forense, tra le quali, ad es., l’esposizione ad azione di accertamento negativo del credito, con i conseguenti oneri per spese).

5. Con il quinto motivo (p. 20 del ricorso) si deduce nullità della sentenza per mancanza di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c., in relazione alle disposizioni dell’art. 1219 c.c. e art. 2943 c.c., comma 4. Si denuncia che con l’atto d’appello l’odierno ricorrente aveva indicato come idonea all’interruzione della prescrizione la raccomandata del 17/9/2001, mentre la sentenza della corte d’appello – pur dando atto alla p. 3 della deduzione – aveva fatto riferimento a due documenti – il fax del 4/9/2001 e la missiva del 6/9/2001, che non erano stati invocati dal ricorrente ai fini della prova della interruzione della prescrizione. Era stata invocata infatti la predetta missiva 12-17/9/2001 cui aveva fatto seguito, in data 22-25/3/2004 (quindi, dopo due anni e mezzo), altra richiesta di pagamento ed altra ancora in data 27-29/4/04.

5.1. Il motivo è inammissibile.

5.2. Invero, esso è formulato in termini di violazione dell’art. 112 c.p.c., deducendosi quindi un vizio processuale. Come chiarito da questa corte (da ultimo v. Cass. n. 1539 del 22/01/2018) nell’omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c. l’omissione di esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa (e, quindi, nel caso del motivo d’appello, uno dei fatti costitutivi della “domanda” di appello). Se l’attività di esame del giudice, che si assume omessa, non concerne direttamente la domanda o l’eccezione, ma una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un’eccezione e, quindi, su uno dei fatti principali della controversia, si è di fronte a una doglianza per vizio motivazionale, più o meno estesamente sindacabile a seconda dell’applicabilità ratione temporis del parametro più volte novellato dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

5.3. Ciò posto, poichè è evidente dalla lettura della sentenza impugnata che la corte d’appello di Napoli ha ritualmente esaminato l’eccezione di interruzione della prescrizione (che, come eccezione in senso lato, avrebbe potuto essere anche esaminata d’ufficio in base a materiale probatorio già in causa – v. ad es. Cass. n. 18602 del 05/08/2013), la doglianza concerne il fatto che la corte – avendo esaminato il motivo d’appello preceduto dal n. 5), alla p. 3 dell’atto di impugnazione, intitolato appunto all’interruzione della prescrizione non si sarebbe soffermata su una (la prima) delle varie missive elencate nel motivo. E’ dunque chiaro che non si sarebbe di fronte, in astratto, a voler seguire la stessa impostazione della parte, a un’omessa pronuncia, ma – al limite – a un vizio di motivazione, per essere stato negletto l’esame di uno tra i vari documenti.

5.4. A fronte dell’inammissibilità che da quanto innanzi discende, deve rilevarsi che da uguale inammissibilità sarebbe colpito il motivo per l’ipotesi – che si ammette per completezza – che lo stesso, pur formulato come vizio di attività, possa essere riqualificato, sussistendone i presupposti sostanziali e formali, come censura ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

5.4.1. Tale diverso vizio nel presente procedimento può essere declinato ratione temporis – come già accennato supra sub 1.1. esclusivamente secondo il testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 successivo alla modifica di cui al D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012, che ha limitato il controllo di legittimità sulla motivazione al minimo costituzionale dell'”omesso esame” di fatti storici; la censura secondo la giurisprudenza di questa corte presuppone che l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico, principale o secondario, oppure che si sia tradotto nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa, invece, qualunque rilevanza della semplice “insufficienza” o della “contraddittorietà” della motivazione, e fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass. sez. U., 07/04/2014 n. 8053; Cass. n. 08/10/2014 n. 21257 e 06/07/2015n. 13928).

5.4.2. Anche, dunque, a voler ammettere quanto innanzi, la mancata considerazione da parte della corte d’appello della missiva indicata, se sussistente, avrebbe rappresentato una risultanza probatoria non considerata, a fronte di un fatto storico invece considerato.

5.5. Sempre per completezza, va comunque rilevato come anche detta missiva del 12-17.9.2001 mai avrebbe potuto considerarsi come idonea a interrompere la prescrizione.

5.5.1. Il testo, per come trascritto nella parte ritenuta rilevante dallo stesso ricorrente, è il seguente: “Intanto, ritenendo esaurita la mia opera professionale, che doveva esaurirsi con la liquidazione concorsuale dell’eredità, rinviata per l’esistenza delle cause, ho interesse a definire il mio compenso per tutta l’attività svolta: per la quale, come chiarito in precedenza, è possibile la liquidazione individuale (art. 195 c.c.), da effettuare o con il ricavato delle rendite o con il ricavato della vendita della quota dei beni dell’eredità in Mercogliano”.

5.5.2. Si è richiamato supra sub 4.4.5. – e il richiamo è opportuno in quanto, mentre nel precedente motivo gli artt. 2943 e 1219 c.c. venivano solo implicitamente evocati, nel presente motivo risultano espressamente menzionati – che le dette disposizioni sono state interpretate da questa corte nel senso che, perchè un atto abbia efficacia interruttiva della prescrizione di un’obbligazione, è necessario che lo stesso contenga l’esplicitazione di una “precisa pretesa” e “l’intimazione o la richiesta di adempimento”, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto, nei confronti del soggetto obbligato, con l’effetto sostanziale di costituirlo in mora. Non è ravvisabile tale requisito in semplici sollecitazioni prive di carattere di intimazione e di espressa richiesta di adempimento al debitore e che è priva di efficacia interruttiva la riserva, anche se contenuta in un atto scritto, di agire, trattandosi di espressioni che, per genericità e ipoteticità, non possono in alcun modo equipararsi a una intimazione o a una richiesta di pagamento.

5.5.3. La raccomandata del 17/9/2001, in tale ottica, è una mera sollecitazione, priva di richiesta di pagamento, e manifesta una generica intenzione e riserva di richiedere in futuro l’adempimento (“ritenendo esaurita la mia opera professionale… ho interesse a definire il mio compenso per tutta l’attività svolta”). Tale sollecitazione, peraltro, manca di precisione in quanto non è indicata, nemmeno in maniera solo determinabile, la somma pretesa. La finalità del testo, del resto, è più indirizzata a indicare le possibili fonti (“con il ricavato delle rendite o con il ricavato della vendita della quota dei beni dell’eredità in Mercogliano”) e il quadro giuridico (“è possibile la liquidazione individuale (art. 195 c.c.)”) per un futuro soddisfacimento di una pretesa ancora a formularsi, che a formulare in via definitiva e perentoria la pretesa stessa.

6. Con il sesto motivo (p. 22 del ricorso) si ricorda a questa corte che, in caso di accoglimento del ricorso, sarebbe stato possibile provvedere nel merito. Non trattasi di un effettivo motivo di ricorso, peraltro a fronte di presupposto non verificatosi, onde non si deve provvedere su esso.

7. Il ricorso va in definitiva nel suo complesso rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater va dato atto del sussistere dei presupposti per il versamento dell’ulteriore importo pari al contributo unificato dovuto a norma del comma 1-bis dell’art. 13 cit.

P.Q.M.

la corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione a favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 200 per esborsi ed Euro 3.000 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15/0 e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto del sussistere dei presupposti per il versamento a carico del ricorrente dell’ulteriore importo pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dell’art. 13 cit.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile, il 22 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2020

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