Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4435 del 11/02/2022

Cassazione civile sez. III, 11/02/2022, (ud. 23/11/2021, dep. 11/02/2022), n.4435

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso N. 10279/2019 R.G. proposto da:

S.M., domiciliato in Roma, presso la Cancelleria della Corte

di cassazione, rappresentato e difeso dall’avv. Lucia Maria Rosaria

Morlini, come da procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MBCREDIT SOLUTIONS S.p.a., quale cessionaria di Mutina Spv s.r.l.

(già Mutina s.r.l.), in persona dei legali rappresentanti p.t.

B.M.C., e V.M., elettivamente

domiciliata in Roma, Via Flaminia Vecchia, 732/D, presso lo studio

dell’avvocato Enrico Bracco, che la rappresenta e difende, con

l’avvocato Matteo Rossi, come da procura allegata al controricorso;

nonché contro

BPER BANCA S.p.a., NETTUNO GESTIONE CREDITI S.p.a., INTESA SANPAOLO

S.p.a., CASTELLO FINANCE s.r.l.;

– intimate –

e nei confronti di:

S.G.P.M.;

– intimato –

avverso la sentenza della CORTE d’APPELLO di BARI n. 545/2018,

depositata il 22.3.2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23.11.2021 dal Consigliere relatore Dott. Salvatore Saija.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

S.M., con ricorso del 15.4.2008, propose opposizione all’esecuzione, ex art. 615 c.p.c., comma 2, in relazione alla procedura esecutiva immobiliare n. 501/04 R.G.E., pendente dinanzi al Tribunale di Foggia, promossa (anche nei confronti del germano G.P.M.) da Nettuno Gestione Crediti s.p.a. quale procuratore speciale di Mutina s.r.l., in forza di d.i. n. 1570/1992, emesso dal Presidente del Tribunale di Foggia in favore di Banca del Monte di Foggia s.p.a., di cui la predetta Mutina s’era resa cessionaria con contratto del (OMISSIS). Introdotta la fase di merito e previa riunione con la gemella opposizione proposta dal predetto germano, l’adito Tribunale dauno, con sentenza del 2.2.2012, rigettò le opposizioni in relazione al contestato diritto di Mutina s.r.l. di procedere ad esecuzione forzata, ma le accolse riguardo all’eccezione di difetto di legittimazione nei confronti dell’intervenuta Intesa Gestione Crediti s.p.a., provvedendo sulle spese. I germani S. proposero appello avverso detta sentenza, ma la Corte d’appello di Bari, con decisione del 22.3.2018, lo rigettò. Osservò in particolare il giudice d’appello che il preteso errore di fatto circa l’individuazione delle parti processuali (derivante da fusioni e incorporazioni avvenute nel corso del giudizio) era irrilevante ai fini dell’esito della controversia, una volta che era stata parzialmente accolta l’opposizione in relazione alla posizione del creditore intervenuto, che la questione della temerarietà della lite in capo ai creditori opposti era inammissibile in quanto avanzata per la prima volta in appello (oltre che, comunque, infondata) e che, sulla base dell’interpretazione del contenuto del contratto del (OMISSIS) e del corretto apprezzamento del materiale istruttorio, non poteva sussistere alcun dubbio sul fatto che il credito originariamente in testa alla Banca del Monte di Foggia, vantato nei confronti dei fratelli S., era stato ceduto a Mutina s.r.l. col detto contratto.

Avverso detta sentenza, ricorre ora per cassazione il solo S.M., affidandosi a due motivi, cui resiste con controricorso MBCredit Solutions s.p.a., quale cessionaria di Mutina SPV s.r.l. (già Mutina s.r.l.). Gli altri intimati non hanno svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo, si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 107 TUB, della L. n. 130 del 1999, art. 3, comma 3, del DM Tesoro 13 maggio 1996, art. 23 degli artt. 1353,2907, e 2697 c.c., dell’art. 116c.p.c., art. 345c.p.c., comma 2 e art. 555c.p.c., degli artt. 24 e 111 Cost., nonché la nullità della sentenza per violazione ed errata applicazione delle norme sulla legittimazione processuale e sulla titolarità della posizione soggettiva oggetto dell’azione, per violazione dell’art. 112 c.p.c. e per “omissione processuale”, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Il ricorrente si duole, nella sostanza, della erronea mancata rilevazione del difetto del diritto di procedere ad esecuzione forzata in capo a Mutina s.r.l., anche per effetto della nullità o della risoluzione del contratto di cessione dei crediti del (OMISSIS) (con cui la predetta Mutina aveva acquistato il credito per cui è processo) e della carenza dei requisiti soggettivi della cessionaria, nonché del mancato perfezionamento del pignoramento immobiliare a causa della mancata trascrizione in favore della stessa Mutina s.r.l.; lamenta, ancora, la nullità della sentenza d’appello per aver il secondo giudice illegittimamente “stralciato” la posizione di due parti processuali (Nettuno Gestione Crediti s.p.a. e Italfondiario s.p.a.), sì da non consentire la regolare costituzione del contraddittorio.

1.2 – Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost., nonché dell’art. 96 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver la Corte d’appello accolto la domanda da esso ricorrente proposta per responsabilità processuale aggravata.

2.1 – Il ricorso è inammissibile, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, oltre che per novità di alcune questioni pure con esso proposte.

Il ricorrente, infatti, si dilunga in una contorta esposizione delle vicende processuali, frammista a continue ed incidentali proprie valutazioni, intersecate da stralci degli atti processuali propri e delle controparti, dei provvedimenti adottati dal G.E. nella fase sommaria e dal G.I. in quella di merito, e ancora riportando stralci della motivazione della sentenza di primo e (soprattutto) di secondo grado, per ben 52 pagine del ricorso (su 99 complessive), ritenendo di dover informare la Corte di ogni più infinitesimale dettaglio, ma così finendo per rendere praticamente incomprensibile una vicenda processuale che, complessa quanto si vuole, è pur sempre una ordinaria opposizione all’esecuzione endoesecutiva, ex art. 615 c.p.c., comma 2.

Altrettanto anomala si presenta l’illustrazione dei due motivi proposti, con continui (benché superficiali) passaggi dalle norme che la Corte del merito avrebbe pretesamente violato, a stralci della motivazione della sentenza impugnata, con lunghissime – ma inframezzate – citazioni letterali della motivazione di alcune pronunce di legittimità, e ancora con lapidarie considerazioni incidentali, continuo cambio di segno grafico (corsivo, ridotto, grassetto, ecc.), per finire addirittura con la formulazione di quesiti di diritto (benché l’art. 366-bis c.p.c. sia stato oramai abrogato da oltre dieci anni, L. n. 69 del 2009, ex art. 47, comma 1, lett. d).

2.2 – Ora, è appena il caso di precisare che il giudizio di cassazione è un giudizio impugnatorio a critica vincolata, in cui il ricorrente deve rivolgersi alla Corte individuando uno o più specifici vizi di legittimità – che, in tesi, affliggono la decisione impugnata – scegliendoli dal novero di quelli elencati dall’art. 360 c.p.c., comma 1, e nel rispetto, tra l’altro, dei requisiti di contenuto-forma di cui agli artt. 365 e 366 c.p.c.

2.3.1 – In particolare, l’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, prevede che il ricorso debba contenere, a pena di inammissibilità, “l’esposizione sommaria dei fatti di causa”; al riguardo, deve anzitutto evidenziarsi che, secondo ormai consolidata giurisprudenza, il fatto deve intendersi nella duplice accezione di fatto sostanziale (ossia, quanto concernente le reciproche pretese delle parti) e processuale (relativo, cioè, a quanto accaduto nel corso del giudizio, alle domande ed eccezioni formulate dalle parti, ai provvedimenti adottati dal giudice, ecc. – v. Cass. n. 1959/2004). Quanto poi alla sommarietà che, secondo la norma in esame, deve caratterizzare l’esposizione, è costante l’insegnamento secondo cui “Per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3 il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamente erronea, compiuta dal giudice di merito” (così, Cass. n. 7825/2006; Cass. n. 1926/2015).

La funzione cui assolve il requisito in parola è ben riassunta da Cass. n. 593/2013, laddove si afferma (in motivazione) che esso “serve alla Corte di cassazione per percepire con una certa immediatezza il fatto sostanziale e lo svolgimento del fatto processuale e, quindi, acquisire l’indispensabile conoscenza, sia pure sommaria, del processo, in modo da poter procedere alla lettura dei motivi di ricorso in maniera da comprenderne il senso”.

Inoltre, ai fini della sanzione dell’inammissibilità, non può distinguersi tra esposizione del tutto omessa o meramente insufficiente (così la già citata Cass. n. 1959/2004), occorrendo precisare che, come più recentemente affermato, il ricorso deve considerarsi inammissibile per insufficiente esposizione, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, quando “non consente alla Corte di valutare se la questione sia ancora viva o meno” (così, Cass. n. 1296/2017, in motivazione), ossia se dalla mera lettura del ricorso possa evincersi se i motivi di impugnazione proposti siano ancora spendibili, ovvero preclusi dalla formazione del giudicato interno.

Sul versante opposto, concernente l’eccesso di esposizione (ossia, quello che qui viene in rilievo), numerose pronunce hanno avuto ad oggetto la tecnica della c.d. “spillatura” o del c.d. “assemblaggio”, consistenti nella riproduzione, meccanica o informatica, di una serie di atti processuali e documenti all’interno del ricorso; in proposito, Cass., Sez. Un. 16628/2009, ha affermato che “La prescrizione contenuta nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, secondo la quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena d’inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, non può ritenersi osservata quando il ricorrente non riproduca alcuna narrativa della vicenda processuale, né accenni all’oggetto della pretesa, limitandosi ad allegare, mediante “spilla tura” al ricorso, l’intero ricorso di primo grado ed il testo integrale di tutti gli atti successivi, rendendo particolarmente indaginosa l’individuazione della materia del contendere e contravvenendo allo scopo della disposizione, preordinata ad agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata in immediato coordinamento con i motivi di censura”; e ancora, secondo Cass., Sez. Un. 5698/2012, “In tema di ricorso per cassazione, ai fini del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali e’, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso. (Nella specie, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso articolato con la tecnica dell’assemblaggio, mediante riproduzione integrale in caratteri minuscoli di una serie di atti processuali: sentenza di primo grado, comparsa di risposta in appello, comparsa successiva alla riassunzione a seguito dell’interruzione, sentenza d’appello ove mancava del tutto il momento di sintesi funzionale, mentre l’illustrazione dei motivi non consentiva di cogliere i fatti rilevanti in funzione della comprensione dei motivi stessi)” (i suddetti principi sono stati affermati, ex multis, da Cass. n. 3385/2016 e Cass. n. 12641/2017).

Costituisce naturale evoluzione del consolidato insegnamento giurisprudenziale quella secondo cui la descritta tecnica espositiva non può utilizzarsi neanche nella mera illustrazione dei motivi di ricorso. Così, da ultimo, Cass. n. 26837/2020 ha condivisibilmente affermato che “Il ricorso per cassazione redatto mediante la giustapposizione di una serie di documenti integralmente riprodotti è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza, il quale postula che l’enunciazione dei motivi e delle relative argomentazioni sia espressa mediante un discorso linguistico organizzato in virtù di un concatenazione sintattica di parole, frasi e periodi, sicché, senza escludere radicalmente che nel contesto dell’atto siano inseriti documenti finalizzati alla migliore comprensione del testo, non può essere demandato all’interprete di ricercarne gli elementi rilevanti all’interno dei menzionati documenti, se del caso ricostruendo una connessione logica tra gli stessi, non esplicitamente affermata dalla parte”.

2.3.2 – Ora, così inquadrate le più significative pronunce sul tema in discorso, ritiene la Corte che il ricorrente sia incorso in una eccessiva e sovrabbondante esposizione, avendo adottato una tecnica espositiva (già descritta supra) che da un lato implica la lettura di una imponente massa di informazioni su fatti (processuali e sostanziali) per lo più irrilevanti ai fini della decisione, e che dall’altro rende di per sé impossibile la focalizzazione sui fatti invece rilevanti, neppure potendo procedersi mediante la tecnica della espunzione (v. Cass. n. 8245/2018), ossia dell’isolamento di quanto di superfluo sia stato inserito nel ricorso, stante la stretta concatenazione tra frasi, contenuto di atti e provvedimenti tra virgolette, considerazioni incidentali e quant’altro, prima descritta.

Una tale tecnica espositiva rende, dunque, particolarmente “indaginosa” l’individuazione delle questioni da parte di questa Corte, impropriamente investita della ricerca e della selezione dei fatti (anche processuali) rilevanti ai fini del decidere (v. la già citata Cass., Sez. Un., n. 16628/2009).

2.4.1 – Ma il ricorso è anche inammissibile per difetto di specificità dei motivi, come già anticipato.

In proposito, vale la pena qui ribadire che “In tema di ricorso per cassazione, il principio di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 richiede per ogni motivo l’indicazione della rubrica, la puntuale esposizione delle ragioni per cui è proposto nonché l’illustrazione degli argomenti posti a sostegno della sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo, come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della pronunzia” (da ultimo, Cass. n. 17224/2020). E ancora, con specifico riferimento al preteso vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, non può che richiamarsi il principio, ancor più di recente affermato da Cass., Sez. Un., n. 23745/2020, secondo cui “In tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa”. Ed infine (per quanto qui interessa), va ribadito l’ulteriore principio secondo cui “Le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente l’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che e’, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità” (Cass. n. 640/2019).

2.4.2 – Orbene, dalla lettura delle censure articolate dal ricorrente – già sommariamente descritte – risulta di tutta evidenza come le stesse non si conformino affatto ai superiori dettami, non solo perché replicano la tecnica espositiva già stigmatizzata, ma perché neppure contengono il benché minimo sviluppo argomentativo circa il contenuto dei precetti normativi che si assumono violati, né il conseguente raffronto con le pertinenti decisioni adottate dal giudice d’appello, che restano sullo sfondo dell’esposizione, benché più volte bollate di “acriticità”, senza essere attinte da congruenti e conferenti critiche a dimostrazione dei pur denunciati e pretesi errores in iudicando; non senza dire dell’inesistente vizio di “omissione processuale” più volte evocato, benché neppure contemplato dal codice di rito.

Quanto precede è plasticamente dimostrato – a mero titolo di esempio – dall’esame del secondo motivo, con cui il ricorrente si duole della declaratoria di inammissibilità e del rigetto del quarto motivo d’appello, concernente la chiesta condanna degli opposti ex art. 96 c.p.c., senza neanche sforzarsi di muovere la benché minima censura all’affermazione della Corte barese secondo cui si trattava di questione dedotta per la prima volta in appello, e quindi inammissibile perché proposta in violazione del divieto dell’ius novorum.

Ma analoghe considerazioni valgono anche per il (ben più corposo) primo motivo, ove non si censura affatto l’affermazione del giudice d’appello circa la sicura ricomprensione del credito azionato in executivis nell’ambito della cessione del (OMISSIS) (contrariamente a quanto principalmente sostenuto dallo S.), ma si critica l’operato del secondo giudice per non aver rilevato il mancato possesso, da parte di Mutina s.r.l., dei requisiti di cui all’art. 107 TUB (con conseguente sua incapacità di rendersi cessionaria del credito), e per essere intervenuta la risoluzione automatica del contratto di cessione, ex art. 1353 c.c., in forza della condizione risolutiva apposta all’art. 12 del contratto stesso: domande certamente non proposte né in primo grado, né con l’atto d’appello, ma solo ventilate per la prima volta nella memoria di replica nel giudizio d’appello (si veda il relativo contenuto, riportato pedissequamente in ricorso), su cui la Corte barese non s’e’ pronunciata, ma che non avrebbero che potuto dichiararsi inammissibili per novità, così come devono esserlo in questa sede. Tutto ciò, al pari della questione sui pretesi vizi formali del pignoramento, che peraltro attiene ad opposizione agli atti esecutivi, ex art. 617 c.p.c., ed avrebbe dunque dovuto proporsi entro i successivi venti giorni dinanzi al G.E., non certo dinanzi a questa Corte.

3.1 – In definitiva, il ricorso è inammissibile. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza nei confronti della società controricorrente.

Nulla va disposto in relazione al rapporto con le altre parti, che non hanno svolto difese.

In relazione alla data di proposizione del ricorso principale (successiva al 30 gennaio 2013), può darsi atto dell’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17).

PQM

la Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario in misura del 15%, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 23 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2022

 

 

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