Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4425 del 11/02/2022

Cassazione civile sez. III, 11/02/2022, (ud. 13/10/2021, dep. 11/02/2022), n.4425

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21705/2019 proposto da:

S.P., rappresentato e difeso dall’avvocato Mauro Nicola

Fusaro, e, con il medesimo, elettivamente domiciliato presso lo

studio dell’avvocato Vincenzo Cellamare, in Roma Piazza Santi

Apostoli 66, Pec: mauro.fusaro.pec.studiolegalefusaro.it;

– ricorrente –

contro

B.A., rappresentato e difeso dall’avvocato Emanuele

Brunetti, e domiciliato presso la Corte di Cassazione Pec:

avvemanuelebrunetti.pec.giuffre.it;

– resistente –

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. B.A., con atto di citazione del 2/2/2001, convenne in giudizio S.P., davanti al Tribunale di Melfi, chiedendo l’accertamento della responsabilità del convenuto e la sua condanna al risarcimento dei danni, conseguenti al fatto che, a seguito di una denuncia calunniosa del convenuto – che aveva riferito di aver visto l’attore presso la sede di lavoro timbrare il cartellino per un collega egli era stato attinto da ordine di custodia cautelare in carcere ed aveva un subito un processo penale conclusosi con assoluzione piena con sentenza passata in giudicato. Premetteva altresì di aver denunciato lo S. per calunnia e che il procedimento si era concluso con sentenza di non luogo a procedere del Gup di Melfi “perché il fatto non costituisce reato”.

Il convenuto si costituì in giudizio eccependo in via preliminare il proprio difetto di legittimazione passiva in quanto, trattandosi di reati perseguibili d’ufficio, l’effetto pregiudizievole restava assorbito dall’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale, non ricorrendo l’ipotesi del dolo del denunciante dal momento che la denunzia di calunnia a suo carico si era conclusa con una formula assolutoria.

2. Il Tribunale adito, ritenendo che la formula assolutoria usata dal Gup nei confronti dello S. non precludeva un autonomo accertamento del giudice civile sulla sussistenza del dolo del denunciante, ritenne la sussistenza del dolo, avendo lo S. agito nella consapevolezza dell’innocenza del B. ed accolse la domanda, condannando il convenuto a risarcire all’attore la somma complessiva di Euro 17.500 nonché al pagamento delle spese processuali.

3. S.P. propose appello deducendo la nullità della sentenza per non avere il Tribunale tenuto conto, in punto di valutazione del dolo, di alcune testimonianze e della sentenza passata in giudicato con cui egli era stato assolto dal reato di calunnia; in secondo luogo, per aver il giudice ritenuto carente la prova sulla insussistenza del nesso causale tra la denuncia e il danno, ed infine per l’erronea liquidazione dello stesso.

4. La Corte d’Appello di Potenza, con sentenza n. 379 dell’8/6/2018, ha rigettato l’appello, statuendo, per quanto ancora qui di interesse: a) che, in base agli elementi acquisiti in giudizio, bene aveva fatto il Tribunale a ritenere provato il dolo dello S., non avendo alcun fondamento l’eccezione sulla mancanza di effetto pregiudizievole della denunzia, attesa la presenza di espresse dichiarazioni dello S., corredate di certezza e dovizia di particolari sulla colpevolezza del B.; b) che alcun rilievo poteva attribuirsi al fatto che il B. avesse dichiarato di avere, in altre occasioni, timbrato il cartellino per altri colleghi o dottori, in quanto ciò non escludeva il dolo nella circostanza concreta; c) che, richiamata la giurisprudenza di legittimità sugli effetti del giudicato di assoluzione nei giudizio civile di danno, nel caso concreto il Gup aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti dello S. per il delitto di calunnia, con una sentenza che non aveva efficacia di giudicato, ai sensi dell’art. 652 c.p.p.; d) che il Tribunale aveva pertanto correttamente accertato in via autonoma i fatti dedotti in giudizio pervenendo ad una soluzione diversa sulla scorta di un’ampia disamina delle testimonianze e degli atti di causa; e) che l’insussistenza di nesso causale neppure aveva alcun fondamento in quanto, pur non avendo il danneggiato dato prova puntuale del danno, era da presumere che – l’essere stato sottoposto a procedimento penale e a detenzione in carcere – fosse evento di per sé produttivo di danno morale; f) sul quantum ha distinto tra equa riparazione per ingiusta detenzione e risarcimento del danno, ha escluso la duplicazione delle voci risarcitorie, affermando che il danno dovuto alla sofferenza che la falsa accusa aveva comportato era diverso dalla riparazione per l’ingiusta detenzione.

5. Avverso la sentenza, che ha condannato l’appellante alle spese, S.P. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di sei motivi.

Ha resistito B.A. con controricorso.

La causa è stata assegnata alla trattazione in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. in vista della quale entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1-2. Con i primi due motivi, trattati congiuntamente, il ricorrente deduce, rispettivamente, nullità della sentenza e violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronunzia sui motivi di appello (art. 360 c.p.c., n. 4), nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 118 disp att., commi 1 e 2 (art. 360 c.p.c., n. 3. Assume che la sentenza abbia motivato in modo apparente nel ritenere il dolo, richiamando esclusivamente l’art. 652 c.p.p. e non abbia considerato le numerose doglianze dell’atto di appello, con le quali, in sintesi, egli aveva rappresentato la presenza di giudicati contrastanti, quello sull’assoluzione del B. e quello sull’assoluzione dello S. e censurato l’omessa valutazione della dichiarata assenza di elemento intenzionale.

1-2 I motivi sono infondati.

1-2.1 Quanto alla pretesa violazione dell’art. 112 c.p.c., la stessa non sussiste perché la Corte territoriale ha motivato il rigetto del primo motivo di appello non solo in relazione all’art. 652 c.p.p., ma anche in relazione a tutti e a ciascuno dei profili di doglianza sollevati dallo S., come si evince dalla pag. 3 della sentenza impugnata.

1-2.2 Quanto alla censura di motivazione apparente – violazione dell’art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c. – essa è del pari infondata, essendovi nella sentenza impugnata espressioni di condivisione dei singoli passaggi argomentativi della pronuncia di primo grado, l’enunciazione dei motivi di appello, analiticamente menzionati e le ragioni della conferma della pronunzia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sicché è fornita indicazione, seppur sintetica, delle ragioni per le quali il giudice del gravame ha ritenuto di condividere la tesi del Tribunale.

3. Con il terzo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 652 c.p.p. e art. 12 disp. gen., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Il ricorrente lamenta che l’accertamento circa l’assenza dell’elemento psicologico effettuato dalla sentenza di non luogo a procedere (erroneamente definita “di assoluzione”), basato su passaggi della sentenza di assoluzione del B., avrebbe dovuto precludere qualsiasi accertamento in sede civile sulla sussistenza del dolo dello S…

3.1 Premesso che il motivo difetta di autosufficienza in quanto non è dato comprendere con chiarezza in che termini il giudicato di assoluzione del B. potesse svolgere un qualche effetto sull’accertamento del dolo dello S., esso non è neppure correlato alla ratio decidendi perché la sentenza ha distinto l’effetto di giudicato della sentenza di assoluzione, resa a seguito di dibattimento, dalla pronuncia maturata in sede di udienza preliminare (ai sensi dell’art. 425 c.p.p.) ed ha espressamente detto che la sentenza di non luogo a procedere, pronunciata nei confronti dello S., non crea effetto di giudicato, essendo sostanzialmente inapplicabile l’art. 652 c.p.p..

Questa statuizione è conforme alta giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale l’efficacia di giudicato della sentenza penale assolutoria nel giudizio civile – stabilita dall’art. 654 c.p.p. nei confronti di coloro che abbiano partecipato al processo penale presuppone che essa sia stata resa a seguito di dibattimento, là dove del tutto irrilevante, sotto tale profilo, è invece ogni eventuale pronuncia maturata in sede di udienza preliminare ai sensi dell’art. 425 c.p.p. Quest’ultima non è infatti la sede di acquisizione probatoria destinata all’accertamento della verità, volgendosi l’intervento del giudice ad apprezzare il fondamento dell’accusa non in termini di positiva verifica della colpevolezza dell’imputato, ma nella ben diversa prospettiva di scongiurare la celebrazione di un dibattimento superfluo, bensì la sede nella quale il merito è accertato soltanto entro i circoscritti confini della non evidente infondatezza dell’accusa e con un provvedimento che, per essere espressamente definito siccome revocabile e’, per sua natura, inidoneo ad acquistare efficacia di giudicato.

4. Con il quarto motivo – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 2697 c.c., art. 368 c.p., artt. 42 e 43 c.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – il ricorrente, oltre a dedurre nuovamente la nullità dell’impugnata sentenza nella parte in cui si sarebbe limitata a riferirsi per relationem alla sentenza del giudice di prime cure, assume che la ricorrenza di circostanze notorie e le ulteriori prove testimoniali acquisite avrebbero dovuto condurre la Corte territoriale, facendo corretta applicazione dell’art. 2697 c.c., a ritenere non assolto l’onere probatorio in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo ed avrebbe violato gli artt. 42 e 43 c.p.

4.1 Il motivo, infondato quanto all’omessa pronuncia per le stesse ragioni esposte con riguardo ai primi due motivi del ricorso, è inammissibile sia quanto alla dedotta violazione degli artt. 42 e 43 c.p., enunciata in modo del tutto generico e neppure svolta nel corpo del motivo, sia quanto alla dedotta violazione dell’art. 2697 c.c. Con riguardo a quest’ultima censura il ricorrente non osserva il noto principio secondo il quale la violazione dell’art. 2697 c.c. è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata, ma si lamenta del fatto che, a seguito di un’incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia ritenuto che la parte onerata avesse assolto all’onere di provare l’elemento soggettivo del dolo. Il ricorrente, in altri termini, si duole che la Corte di merito abbia valutato gli elementi istruttori in modo a sé non favorevole e ne sollecita, inammissibilmente, una rivalutazione in fatto.

5. Con il quinto motivo – violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2697 c.c., art. 2729 c.c., comma 1, art. 1226 c.c. e art. 12 preleggi, il tutto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – il ricorrente censura l’impugnata sentenza sotto tre profili: in primo luogo per violazione dell’art. 2697 c.c. per avere la Corte a suo dire violato i criteri di ripartizione dell’onere della prova laddove, pur riconoscendo che il danneggiato non aveva fornito prova puntuale del danno, aveva ritenuto di poter presumere che l’essere stato sottoposto a procedimento penale e a detenzione in carcere fosse evento di per sé produttivo di danno morale; in secondo luogo, il giudice d’appello avrebbe errato nel presumere detto danno in assenza di indizi gravi, precisi e concordanti, come invece imposto dall’art. 2729 c.c., comma 1; infine, il giudice non avrebbe potuto procedere alla liquidazione equitativa del danno, essendo questa consentita soltanto qualora fosse stata dimostrata l’esistenza certa, ovvero altamente verosimile, di un effettivo pregiudizio.

5.1 Il motivo è inammissibile sotto tutti i profili denunziati.

La violazione dell’art. 2697 c.c. è inammissibile per le stesse ragioni esposte in relazione al quarto motivo di ricorso.

La violazione dell’art. 2729 c.c. è inammissibile sia perché generico sia perché fattuale: la Corte territoriale ha legittimamente presunto il danno sia dalla sottoposizione del B. a procedimento penale, sia dalla sua detenzione in carcere, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit ed il ragionamento seguito non è sindacabile in questa sede in assenza di illustrazione, da parte del ricorrente, degli elementi dai quali far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio (cfr., da ultimo, Cass., Sez. L, ord. n. 22366/21).

Infine, quanto alla pretesa violazione dell’art. 1226 c.c., la censura è inammissibile perché non correlata alla ratio decidendi, posto che la Corte territoriale, come poc’anzi evidenziato, ha bensì ritenuto provato, attraverso presunzioni, il danno.

6. Con il sesto motivo – violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112,114,116 c.p.c., artt. 315 e 303 c.p.p., artt. 2769 e 1226 c.c., il tutto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – il ricorrente svolge una serie di censure, che possono così essere riassunte: a) quanto al danno da ingiusta detenzione, assume che sia stato liquidato in assenza di specifica domanda, nonché in maniera abnorme, avuto riguardo ai parametri di cui agli artt. 315 e 303 c.p.p.; b) quanto al danno per la violazione di diritti costituzionali, assume che esso sia stato liquidato in assenza di prova e che, comunque, lo stesso rientrava nel danno da ingiusta detenzione, sicché il giudice avrebbe proceduto a un’inammissibile duplicazione; c) quanto alla liquidazione equitativa il giudice non avrebbe dato conto degli elementi per la sua quantificazione.

6.1 Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.

La violazione degli artt. 112,114 e 116 c.p.c., non rispetta le prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto manca qualsivoglia attività argomentativa che consenta di comprendere l’esatta portata della censura, esaurendosi l’esposizione del motivo nella testuale riproduzione di parti dell’atto di appello, seguiti da mere asserzioni. Ne’ è dato rilevare alcuna duplicazione perché la sentenza ha distinto l’equa riparazione per ingiusta detenzione dal risarcimento del danno che va ad incidere sul piano dinamico-relazionale dell’esistenza della persona autonomamente risarcibile (cfr., da ultimo, Cass., 3, n. 23469/2018).

La violazione dell’art. 1226 c.c. è infondata perché il giudice ha tenuto conto, nel confermare la sentenza di primo grado, degli aspetti che il danno non patrimoniale ha assunto nel caso concreto quali la sofferenza interiore, lo stress e l’ansia che un procedimento penale comporta, l’offesa all’onore e alla reputazione ad essa conseguente, la privazione della libertà, il danno alla vita politica e di relazione. La pronuncia è conforme alla giurisprudenza di questa Corte sui limiti della liquidazione equitativa del danno (Cass., 3, n. 22272 del 13/9/2018).

7. Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato a pagare, in favore della parte resistente, le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo. Si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di una somma pari a quella già versata per il ricorso, se dovuta.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 3.200 (oltre Euro 200 per esborsi), più accessori di legge e spese generali al 15%. Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio Sezione Terza Civile, il 13 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2022

 

 

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