Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4417 del 21/02/2017

Cassazione civile, sez. II, 21/02/2017, (ud. 30/11/2016, dep.21/02/2017),  n. 4417

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23915 – 2012 R.G. proposto da:

B.A., (erede della madre L.P.A.) c.f. (OMISSIS)

– elettivamente domiciliata in Catania, alla via Rindone, n. 4,

presso lo studio dell’avvocato Massimo Giuffrida che la rappresenta

e difende in virtù di procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

A.G.N., – c.f. (OMISSIS) – A.I. – c.f.

(OMISSIS) – AU.GI. – c.f. (OMISSIS) – rappresentati e

difesi in virtù di procura speciale a margine del controricorso

dall’avvocato Antonino Catanzaro Lombardo ed elettivamente

domiciliati in Roma, alla via Portuense, n. 104, presso lo studio

dell’avvocato Antonia De Angelis;

– controricorrenti –

Avverso la sentenza n. 326, dei 19.1/24.2.2012 della corte d’appello

di Catania;

Udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 30

novembre 2016 dal consigliere dott. Luigi Abete;

Udito l’avvocato Antonio Tomaselli, per delega dell’avvocato Massimo

Giuffrida, per la ricorrente;

Udito l’avvocato Antonino Catanzaro Lombardo per i controricorrenti;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore

generale dott. RUSSO Rosario, che ha concluso per il rigetto del

ricorso e per la compensazione delle spese del giudizio di

legittimità.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto notificato in data 10.3.2004 L.P.A. citava a comparire dinanzi al tribunale di Catania Gi., I. e A.G.N..

Esponeva che aveva condotto in locazione dal marzo del 1981 l’appartamento posto al terzo piano dello stabile in (OMISSIS); che a decorrere dal (OMISSIS), dì del decesso di S.G., originaria proprietaria, aveva iniziato a possedere l’immobile uti domina; che con lettera del 31.1.1983 aveva comunicato all’esecutore testamentario l’interversione del possesso; che il possesso era proseguito in modo pacifico ed indisturbato.

Chiedeva dichiararsi e darsi atto dell’intervenuto acquisto per usucapione da parte sua ed in danno dei convenuti della piena proprietà del suindicato appartamento.

Si costituivano Gi., I. e A.G.N..

Instavano per il rigetto dell’avversa domanda ed in via riconvenzionale per la condanna dell’attrice al rilascio dell’immobile.

Con sentenza del 15.7.2006 il tribunale adito rigettava la domanda principale e dichiarava inammissibile la domanda riconvenzionale.

Interponeva appello L.P.A..

Resistevano Gi., I. e A.G.N.; esperivano altresì appello incidentale.

Con sentenza n. 326 – dei 19.1/24.2.2012 la corte d’appello di Catania rigettava e l’appello principale e l’appello incidentale.

Evidenziava la corte di merito – in ordine ai motivi di gravame, con cui si era censurata la statuizione di primo grado nella parte in cui aveva disconosciuto la idoneità della comunicazione in data 31.1.1983 a determinare l’interversione del possesso, siccome ricevuta da soggetto, l’esecutore testamentario, che non poteva essere qualificato in guisa di possessore dei beni ereditari e dunque dell’appartamento controverso – che l’esecutore testamentario è titolare di un possesso di mero fatto, “necessariamente precario (…) e limitato, sia in ordine ai bisogni dell’esecuzione testamentaria, sia in ordine alla durata” (così sentenza d’appello, pag. 7); che conseguentemente il destinatario dell’opposizione, ai fini dell’interversio possessionis, non poteva che identificarsi con l’erede, possessore di diritto.

Evidenziava altresì – in ordine al terzo ed al quarto motivo di gravame – che la denuncia sporta ai carabinieri in data 4.12.2004 da Au.Gi., denuncia con la quale costei aveva dichiarato che la famiglia della L.P. occupava abusivamente da oltre venti anni l’appartamento, non forniva, ai fini della pretesa interversione del possesso, riscontro di un’opposizione tacita fatta contro il possessore.

Evidenziava inoltre – in particolare in ordine alla doglianza concernente il rigetto della prova testimoniale invocata dalla Lo Presti – che era da ribadire la valutazione di genericità della prova espressa dal primo giudice a fronte della laconica censura spiegata al riguardo.

Evidenziava infine che rimaneva assorbita la disamina del terzo motivo, con cui si era dedotta l’insussistenza della causa di interruzione del corso della prescrizione acquisitiva, interruzione ritenuta viceversa sussistente dal primo giudice.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso B.A., quale erede della madre, L.P.A.; ne ha chiesto sulla scorta di quattro motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione anche in ordine alle spese.

Gi., I. e A.G.N. hanno depositato controricorso; hanno chiesto dichiararsi inammissibile ovvero rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese.

I controricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la falsa applicazione dell’art. 703 c.c. con conseguente violazione dell’art. 1141 c.c..

Deduce che gli atti di amministrazione, in via ordinaria involgenti il compimento di attività negoziale, che, al fine di dar attuazione alla volontà del testatore, l’esecutore testamentario è abilitato a porre in essere, “costituiscono fonte (…) di effetti giuridici che si ripercuotono direttamente in capo agli eredi” (così ricorso, pag. 7); che da tanto scaturisce “l’inconsistenza della (…) distinzione tra possessore di fatto e possessore di diritto” (così ricorso, pag. 7) che la corte d’appello ha ritenuto di far derivare dalla previsione dell’art. 703 c.c..

Deduce quindi che, in dipendenza dei poteri di amministrazione per legge devolutigli, l’esecutore testamentario si qualifica come soggetto appieno legittimato e capace in ordine alla gestione dei rapporti giuridici inerenti ai beni ricompresi nella massa ereditaria e “l’aper ciò considerato soggetto perfettamente idoneo a fungere da efficace destinatario di un atto di comunicazione di interversione nel possesso” (così ricorso, pag. 8).

Il primo motivo è destituito di fondamento.

E’ fuor di dubbio, siccome ha esplicitato la corte di merito, che “l’art. 1141 c.c. postula che l’opposizione sia fatta contro il possessore” (così sentenza d’appello, pag. 7).

Invero questa Corte di legittimità spiega che la interversione nel possesso (che non può avvenire mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in un fatto esterno, da cui sia consentito desumere che il possessore nomine alieno ha cessato di possedere in nome altrui ed ha iniziato un possesso per conto ed in nome proprio), pur potendo realizzarsi anche mediante il compimento di attività materiali che manifestino inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il possesso esclusivamente nomine proprio, richiede sempre, ove il mutamento del titolo in base al quale il soggetto detiene non derivi da causa proveniente da un terzo, che l’opposizione risulti univocamente rivolta contro il possessore, e cioè contro colui per cui conto la cosa era detenuta, in guisa da rendere esteriormente riconoscibile all’avente diritto che il detentore ha cessato di possedere nomine alieno e che intende sostituire alla preesistente intenzione di subordinare il proprio potere a quello altrui l’animus di vantare per se il diritto esercitato, convertendo cosi in possesso la detenzione precedentemente esercitata (cfr. Cass. 29.5.1981, n. 3523; Cass. 28.2.2006, n. 4404).

Su tale scorta non può che reiterarsi il rilievo dottrinale per cui “la legge identifica nel possesso la situazione di apprensione dei beni da parte dell’esecutore, ma sembra più corretto parlare di detenzione; con l’apertura della successione, infatti, suol dirsi che il possesso è in capo al chiamato (se ve ne sono i presupposti) o in capo all’erede”.

L’esecutore testamentario pertanto, in quanto detentore e non già possessore, non può esser destinatario dell’opposizione di cui all’art. 1141 c.c., comma 2.

Del resto, ai sensi dell’art. 460 c.c., comma 1 “il chiamato all’eredità può esercitare le azioni possessorie a tutela dei beni ereditari, senza bisogno di materiale apprensione” ed, ai sensi dell’art. 460 c.c., comma 3 tale facoltà gli è preclusa unicamente quando sia stato nominato il curatore dell’eredità giacente. Inoltre, ai sensi dell’art. 1146 c.c., comma 1 “il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione”.

Al contempo, seppur in via ordinaria – cioè “salvo contraria volontà del testatore” – è all’esecutore testamentario devoluta ex art. 703 c.c., comma 2, prima parte, la potestas gerendi della massa ereditaria, è innegabile che i poteri di amministrazione attribuitigli sono strumentali – “a tal fine” recita l’incipit dell’art. 703 c.c., comma 2 – all’esigenza “che siano esattamente eseguite le disposizioni di ultima volontà del defunto”.

Più esattamente, siccome la dottrina del pari ha evidenziato, “il possesso è limitato esclusivamente al soddisfacimento dei bisogni dell’esecuzione testamentaria”.

D’altronde, ai sensi dell’art. 707 c.c., comma 1 “l’esecutore testamentario deve consegnare all’erede, che ne fa richiesta, i beni dell’eredità che non sono necessari all’esercizio del suo ufficio”. Ed, ai sensi del comma 2 cit. art. l’esecutore non può rifiutare tale consegna a causa di obbligazioni che debba adempiere conformemente alla volontà del testatore, se l’erede dimostra di averle già soddisfatte.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, contraddittoria motivazione circa fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Deduce che la corte distrettuale ha statuito in maniera del tutto contraddittoria, allorchè ha escluso che la dichiarazione resa da Au.Gi. nella denuncia sporta ai carabinieri in data 4.12.2004, “perfettamente idonea a scolpire la piena consapevolezza della denunciata (…) situazione di abusiva occupazione ultraventennale dell’immobile da parte della sig.ra L.P.” (così ricorso, pag. 10), potesse costituire riconoscimento, ricognizione della pregressa opposizione tacita.

Il secondo motivo è parimenti destituito di fondamento.

Si rappresenta innanzitutto che, in ossequio al canone di cosiddetta “autosufficienza” del ricorso per cassazione, quale positivamente sancito all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), (al riguardo cfr. Cass. 20.1.2006, n. 1113, secondo cui il ricorso per cassazione – in forza del principio di cosiddetta “autosufficienza” – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito), ben avrebbe dovuto la ricorrente riprodurre più o meno integralmente il testo della denuncia ai carabinieri in data 4.12.2004.

Si rappresenta in ogni caso che quanto Au.Gi. ebbe a dichiarare nella denuncia in data 4.12.2004 integra gli estremi di una dichiarazione di scienza, di una dichiarazione ossia con cui ebbe a dar atto della situazione verificatasi.

In questi termini si reputa che la determinazione della esatto tenore, dell’esatta portata di una dichiarazione di scienza è attività riservata, al pari in generale dell’interpretazione degli atti di autonomia privata, al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità essenzialmente per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua (cfr. Cass. 17.4.1997, n. 3309, secondo cui le dichiarazioni rese agli organi della Polizia Giudiziaria, ancorchè non vincolanti in sede civile, costituiscono confessione stragiudiziale fatta a un terzo, che il giudice ha il potere – dovere di apprezzare liberamente; Cass. sez. lav. 12.6.1985, n. 3524, secondo cui non è soggetta a sindacato di legittimità – purchè immune da vizi logici – l’interpretazione, fatta dal giudice del merito, del carattere confessorio delle dichiarazioni rese dalle parti).

Su tale scorta la valutazione che la corte territoriale ha operato della denuncia in data 4.12.2004 è in toto inappuntabile, giacchè, per un verso, non si prospetta in spregio ad alcun criterio ermeneutico legale, giacchè, per altro verso, risulta sorretta da motivazione esaustiva, congrua e logica (la corte siciliana ha evidenziato che la denuncia non forniva riscontro di un’opposizione tacita fatta contro il possessore, giacchè a tale scopo sarebbe stato necessario acquisire prova di “atti o comportamenti, provenienti dal detentore e comunque rivolti al possessore, che impedissero a costui ogni atto di esercizio del suo diritto sul bene conteso”: così sentenza d’appello, pag. 9; che in particolare la ventennale occupazione si era “tradotta, da un lato, in una inottemperanza all’obbligo di versare il canone, verificandosi in tal caso un’ordinaria ipotesi d’inadempimento contrattuale, dall’altra, in una mera ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene”: così sentenza d’appello, pag. 10).

Del resto, siccome hanno debitamente posto in risalto i controricorrenti il motivo in disamina è volto “ad imporre una valutazione del merito della vicenda diversa ed opposta rispetto a quella accolta dalla Corte etnea” (così controricorso, pag. 14).

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa motivazione circa fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Deduce che la corte d’appello ha omesso di considerare che, siccome emerge dalle richieste di pagamento e dai riparti delle spese di gestione, Ga.Gi. era perfettamente consapevole del possesso ad usucapionem di L.P.A., “alla quale, in sede di riparto di spese, attribuiva ogni onere spettante al proprietario della singola unità” (così ricorso, pag. 11).

Il terzo motivo è del pari immeritevole di seguito.

Si rappresenta in primo luogo che in ossequio al canone di “autosufficienza” del ricorso per cassazione la ricorrente avrebbe dovuto dar ragione di aver dedotto nei precedenti gradi di merito il profilo di fatto veicolato dal motivo de quo agitur.

Ciò ben vero atteso che i controricorrenti hanno espressamente addotto che “ci troviamo al cospetto di una nuova prospettazione di vicende di fatto rispetto a quella fatta valere in primo grado e secondo grado” (così controricorso, pag. 18). Ovviamente è indiscutibile che nel giudizio di legittimità non può essere proposto nessun motivo, nè di fatto nè di diritto, che comporti l’allargamento della materia del contendere – con la modificazione delle azioni o delle eccezioni già proposte, o con la deduzione di nuove azioni o eccezioni – oppure che presupponga l’accertamento di nuovi elementi di fatto, ulteriori rispetto a quelli già dedotti nelle fasi di merito (cfr. Cass. 12.8.2004, n. 15673).

Si rappresenta in secondo luogo che, analogamente in ossequio al canone di “autosufficienza” del ricorso per cassazione, la ricorrente avrebbe dovuto riprodurre più o meno integralmente nel corpo del ricorso la “richiesta di pagamento di cui alla nota 1 dicembre 2004 e relativi allegati nonchè riparto spese gestione marzo/dicembre 2001” (così ricorso, pag. 11).

Si rappresenta in terzo luogo che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17477; Cass. 7.6.2005, n. 11789).

Su tale scorta l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte di merito risulta in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente esaustivo e coerente sul piano logico – formale.

Più esattamente la corte distrettuale ha vagliato nel complesso – non ha dunque obliterato la disamina di punti decisivi – e dipoi ha in maniera inappuntabile selezionato il materiale probatorio cui ha inteso ancorare il suo dictum (la corte catanese ha dato atto dell’ininfluenza della documentazione allegata dall’attrice; segnatamente che del tutto irrilevante era il riscontro dell’avvenuta stipula di un contratto di assicurazione, che il pagamento dell’I.C.I. riguardava solo quattro annualità, che “il pagamento delle bollette per la fornitura dell’energia elettrica costituiva un atto dovuto per il locatario, mentre il pagamento di altre spese per lavori elettrici non risultava chiaramente riferibile alla Lo Presti”: così sentenza d’appello, pag. 12), altresì palesando in forma nitida e coerente il percorso decisorio seguito (“parte appellante avrebbe dovuto piuttosto dimostrare di aver posto in essere attività materiali interpretabili come manifestazione della volontà di non più riconoscere il diritto del possessore stesso e di affermare un contrapposto diritto d’egual contenuto da parte del detentore”: così sentenza d’appello, pag. 10).

Si rappresenta infine che con il motivo in disamina la ricorrente null’altro prospetta se non un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti (“la Corte del merito omette del tutto di considerare la circostanza che la sig.ra Au.Gi. (…)”: così ricorso, pag. 11).

Il motivo quindi involge gli aspetti del giudizio – interni al discrezionale ambito di valutazione degli elementi di prova e di apprezzamento dei fatti – afferenti al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di siffatto convincimento rilevanti nel segno dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Il motivo pertanto si risolve in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr. Cass. 26.3.2010, n. 7394; altresì Cass. sez. lav. 7.6.2005, n. 11789).

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 1141 c.c..

Deduce che la corte di Catania non si è avveduta che l’atto introduttivo della controversia giudiziaria, di cui il primo giudice aveva affermato l’attitudine ad interrompere il corso della prescrizione acquisitiva, “costituiva comunque circostanza perfettamente idonea a attingere gli estremi della “opposizione” (…) idonea alla interversione del possesso” (così ricorso, pag. 12).

Il quarto motivo parimenti non merita seguito.

Si rappresenta che in ossequio al canone di “autosufficienza” la ricorrente avrebbe dovuto dar conto di aver dedotto nei precedenti gradi di merito il profilo di fatto de quo agitur.

Ciò viepiù giacchè i controricorrenti hanno espressamente eccepito l’inammissibilità del motivo in disamina, siccome implicante “la soluzione di una questione di fatto del tutto nuova rispetto a quelle che hanno costituito oggetto dello scrutinio di cui è stato investito il Giudice di seconde cure” (così controricorso, pag. 19).

Si rappresenta al contempo che, parimenti in ottemperanza al canone dell’ “autosufficienza”, la ricorrente avrebbe dovuto riprodurre più o meno integralmente la sentenza n. 726/1997 della corte d’appello di Catania.

Si rappresenta da ultimo che alla deduzione del ricorrente secondo cui “non si è (…) avveduta la Corte del merito che la controversia giudiziaria costituiva comunque circostanza perfettamente idonea a attingere gli estremi della “opposizione”” (così ricorso, pag. 12), si attagliano esaustivamente i rilievi ancorati all’incensurabilità della discrezionale valutazione degli elementi di prova e di apprezzamento dei fatti demandata al giudice del merito e dapprima svolti in sede di vaglio del terzo motivo.

Il rigetto del ricorso giustifica la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

La liquidazione segue come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente, B.A. (erede della madre L.P.A.) a rimborsare ai controricorrenti, Au.Gi., A.I. e A.G.N., le spese del presente grado di legittimità, che si liquidano nel complesso in Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali, i.v.a. e cassa come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sez. seconda civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 30 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2017

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