Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4414 del 21/02/2017


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Cassazione civile, sez. II, 21/02/2017, (ud. 09/11/2016, dep.21/02/2017),  n. 4414

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20097-2012 proposto da:

F.F., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

GIUSEPPE PALOMBINI 2, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE DE

FRANCESCO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

ANDREA RADICE;

– ricorrente –

contro

FR.RO., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA D. MILLELIRE 7, presso lo studio dell’avvocato RODOLFO GIOMMINI,

che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati PATRIZIO

MOLESINI, FRANCESCO MOSNA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 179/2012 della CORTE D’APPELLO di TRENTO,

depositata il 25/05/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/11/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS Pratis, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Trento, con sentenza del 26/1/2011, rigettò la domanda proposta da Fr.Ro. nei confronti del fratello F.F., con la quale, premettendo di essere proprietario di uno stacco di terreno in territorio di (OMISSIS), pervenutogli nel 1978, per donazione dal padre E., che il convenuto, che aveva acquistato altra porzione di terreno sempre dall’ E., nel 1976, aveva occupato una porzione oltre la linea di confine, segnata dal tipo di frazionamento del 3/2/1993, aveva chiesto condannarsi il F. alla restituzione del terreno occupato senza titolo e a risarcire il danno. Con la medesima sentenza, accolte le domande del convenuto, era stato determinato il confine per come in dispositivo, previa dichiarazione d’acquisto per usucapione della parte di terreno sovrastante il muro di confine in favore di F.F..

Con sentenza depositata il 25/5/2012 la Corte di appello di Trento, in riforma di quella di primo grado, determinò il confine secondo le indicazioni del CTU e, rigettata la domanda di usucapione, condannò F.F. a rilasciare la superficie occupata, siccome delimitata nella planimetria predisposta dal CTU.

F.F. ricorre per cassazione avverso la sentenza d’appello.

Fr.Ro. resiste con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, denunziante violazione dell’art. 950 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), il ricorrente, dopo aver chiarito che l’azione di regolamento del confine presuppone una situazione d’incertezza soggettiva, od oggettiva, della linea di demarcazione tra fondi limitrofi, assume che nel caso in esame la predetta incertezza non ricorreva, rinvenendosi in loco il muro divisorio in calcestruzzo ed il piantone che lo stesso Roberto aveva ivi collocato.

Con il secondo motivo ci si duole della violazione degli artt. 950, 880 e 1322 c.c., nonchè art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), in quanto, secondo l’asserto impugnatorio, la prova dell’esatto confine può essere data con qualunque mezzo, nel mentre le mappe catastali rivestono un ruolo meramente sussidiario. Proprio il predetto principio di sussidiarietà era rimasto disatteso, poichè l’istruttoria aveva consentito di rilevare la presenza di indici probatori univoci, costituiti dal muro in calcestruzzo, che era frutto di un negozio di accertamento intervenuto fra i due fratelli, negozio indiscutibilmente libero dal rispetto di forme; inoltre il giudice avrebbe dovuto rilevare la natura comune del muro in parola, per effetto dell’art. 880 c.c., comma 2; infine, significativa era da ritenere la presenza del piantone e di una “vistosa siepe”, nel rispetto della stessa demarcazione naturale tra i due fondi.

I primi due motivi, in parte connessi, esaminati unitariamente, non meritano accoglimento.

Quanto al primo basti rilevare che la situazione d’incertezza, apoditticamente negata, emerge ben evidente, al di là della presenza di taluni “segni” in loco, nessuno dei quali, isolatamente preso, avente la forza della incontrovertibilità.

Va poi osservato che la Corte di merito non ha violato le regole probatorie enunciate dal ricorrente, avendo dato ampia mostra di aver preso in considerazione l’insieme ed ognuno degli elementi a disposizione, attingendo alle planimetrie catastali solo in via residuale. Invero, il Giudice d’appello, per un verso ha valorizzato le conclusioni del CTU, compatibili con le linee catastali, e, per altro verso, ha escluso la presenza di quei segni materiali inequivoci, enfatizzati dal ricorrente, con motivazione in questa sede incensurabile.

Con il terzo motivo viene posta in relazione all’art. 360c.p.c., n. 3, la dedotta violazione degli artt. 183 e 345 c.p.c..

Secondo la prospettazione impugnatoria il giudice aveva erroneamente valutato tempestiva “l’eccezione di tolleranza” avanzata dalla controparte tardivamente, nella seconda memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6.

Trattasi di doglianza manifestamente priva di giuridico fondamento. Il principio di diritto da affermare, infatti, è il seguente: l’animus tollerante, giustificato da relazioni amicali, parentali od altro, non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto, bensì rappresenta uno degli elementi negativi del fatto, la cui sussistenza il giudice è chiamato ad escludere, sulla base delle prospettazioni reciproche, al fine di valutare utile il possesso al preteso acquisto per usucapione. Con la conseguenza che l’allegazione di una tale qualità del possesso (tollerato e non esercitato con l’animus del dominus) integra una mera difesa, implicante contestazione del fatto siccome descritto dal pretendente l’usucapione. In altri termini, trattasi di una spiegazione fattuale della condotta inerte della parte che si trovi a subire l’indebito possesso altrui, contrapposta alla narrazione avversa. Spiegazione qui ancorata all’intimo rapporto parentale, siccome spiegato da Fr.Ro..

Con un secondo argomento del medesimo terzo motivo vien dedotta la violazione dell’art. 116 c.p.c. e degli artt. 2730 e 2733 c.c., poste in relazione con l’art. 360 c.p.c., n. 3.

Il libero convincimento del giudice non poteva giungere fino a negare rilievo alla confessione resa da Fr.Ro., il quale aveva ammesso che “sulla striscia di terreno in contestazione c’è solo una pianta ma non altre coltivazioni” e aveva dichiarato essere vero che “dalla metà egli anni settanta il sig. F.F. ha continuativamente provveduto e continuativamente provvede alla manutenzione del terreno posto a monte della linea retta che parte dal vertice del muro di confine tra la particella ed. (OMISSIS) e la particella ed. (OMISSIS) e termina al punto evidenziato dal pianto iniziale della recinzione della proprietà del sig. F.R. lungo il muretto di sostegno prospiciente la pubblica via e che si evince dalle riproduzioni fotografiche che si rammostrano al teste”.

La doglianza e radicalmente destituita di fondamento in quanto il ricorrente omette di considerare che non è l’atto materiale (sfruttare la striscia, peraltro, assai esigua, di terreno in contestazione) che qui in contestazione, bensì l’animus con il quale la controparte aveva permesso l’uso della predetta striscia.

Con il quinto motivo il ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1141, 1142, 1144, 1146, 1158, 2697 e 2729 c.c., peraltro non posta in correlazione con alcuna delle ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c..

La Corte di Trento, invertendo l’onere probatorio, e nonostante l’univocità delle prove testimoniali acquisite, aveva ritenuto che il potere di fatto esercitato dal F. derivasse da mera tolleranza del fratello.

Anche a voler ritenere ritualmente esposta la doglianza, nonostante la mancata correlazione di cui detto, appare evidente che lo scopo del motivo è diretto ad assegnare alla Corte di legittimità il compito di riponderare nel merito il vaglio probatorio. La Corte trentina, al contrario dell’asserto impugnatorio, non ha affatto invertito l’onere probatorio, che, in linea di principio, provato il possesso, incombe su colui il quale lo ha subito (cfr., da ultimo, Sez. 2, n. 26984 del 2/12/2013, Rv 629487), bensì, facendo ragionato apprezzamento delle emergenze probatorie, ha ritenuto che il resistente avesse assolto ad un tale onere, in particolar modo allegando l’intimo legame parentale.

Come di recente riaffermato in questa sede, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 prima dell’ulteriore modifica di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile “ratione temporis”), il quale implica che la motivazione della “quaestio fatti” sia affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che si presentasse tale da determinarne la logica insostenibilità (cfr., Sez. 3, n. 17037 del 20/8/2015, Rv. 636317). Con l’ulteriore corollario che il controllo di legittimità del giudizio di fatto non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe in una nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Con la conseguenza che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (cfr. Sez. 6, ord. n. 5024 del 28/3/2012, Rv. 622001). Da qui la necessità che il ricorrente specifichi il contenuto di ciascune delle risultanze probatorie (mediante la loro sintetica, ma esauriente esposizione e, all’occorrenza integrale trascrizione nel ricorso) evidenziando, in relazione a tale contenuto, il vizio omissivo o logico nel quale sia incorso il giudice del merito e la diversa soluzione cui, in difetto di esso, sarebbe stato possibile pervenire sulla questione decisa (cfr. Sez. 5, n. 1170 del 23/1/2004, Rv. 569607).

Con il sesto motivo viene prospettato vizio motivazionale su un fatto controverso e decisivo, nonchè violazione dell’art. 116 c.p.c., anche in questo caso senza che la doglianza risulti posta in relazione con alcuna delle ipotesi previste dall’art. 360 più volte citato.

A tal fine vengono riportati stralci delle testimonianze rese da P. e Fr.Pi.. La prima aveva affermato che dal 1972/73 aveva visto F.F. tagliare l’erba e manuntenere “quest’area”. Il secondo aveva pienamente confermato l’articolato postogli. La Corte di merito aveva sminuito l’apporto di tali testimonianze attraverso insinuazioni mere (non abitavano in loco), privilegiando la CTU, la quale aveva escluso la presenza di piante sulla striscia di terreno controversa: una tale conclusione era illogica poichè i testi avevano riferito della situazione sussistente all’epoca ed il CTU di quelle Attuale.

Il motivo è infondato. Al fine basti richiamare quanto immediatamente sopra evidenziato, non mancandosi, inoltre, di ricordare che la Corte territoriale ha fornito congrua ed insindacabile motivazione in ordine al vaglio della prova orale (pag. 16).

Con il settimo motivo viene allegato vizio motivazionale in ordine agli atti di tolleranza ipotizzati, anche in questo caso senza alcuna correlazione con le ipotesi specifiche regolate dall’art. 360 c.p.c..

Sulla base della stessa narrazione del fratello Ro. non sussiste in radice, secondo il ricorso, l’ipotesi della tolleranza dell’abusiva condotta del germano, in quanto il Ro. aveva affermato che al momento della realizzazione del muro non nutriva dubbi sulla correttezza del fratello, che, quindi, ai suoi occhi, non teneva condotta contra ius.

Trattasi di censura in fatto e avente natura meramente congetturale. A disattenderla è bastevole controdedurre che quella correttezza, o, per meglio dire, presunzione di lealtà fra consanguinei, esattamente al contrario dell’arzigogolato assunto, rafforza la presenza dell’animus tollerandi, sul presupposto che il congiunto non avrebbe approfittato della tolleranza mostrata dal fratello.

L’epilogo impone condannarsi parte ricorrente al rimborso delle spese legali in favore di quella resistente. Spese che, tenuto conto della natura e del valore della causa, possono liquidarsi siccome in dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese legali in favore del resistente, spese che liquida nella complessiva somma di 3.200 Euro, di cui 200 Euro per spese, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 9 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2017

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